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mercoledì 15 marzo 2023

CONOSCERE LE MINESTRE

La distinzione tra zuppa e minestra sta negli ingredienti utilizzati per arricchire il piatto, oltre alle verdure. Nella zuppa non compare mai né riso né pasta, ma può essere servita solamente con pezzetti di pane, più o meno grandi. Il nome stesso, zuppa, simile in tutte le lingue europee, deriva dal gotico suppa, che indicava la fetta di pane che veniva messa nelle ciotole prima di versarvi il brodo. Nel Medioevo, infatti, la fetta di pane era utilizzata al posto delle stoviglie. Anche la minestra, in tutte le sue varianti, è da sempre il piatto povero per eccellenza e il suo nome deriva da minestrare, cioè amministrare, e veniva abitualmente servita o “ministrata” dal capofamiglia. La minestra, a differenza della zuppa, contiene oltre alle verdure, riso, pasta o orzo. Le verdure utilizzate per le minestre o le zuppe sono essenzialmente le stesse e sono legate più alla tradizione culinaria regionale, alle coltivazioni locali, alle stagioni o ai gusti personale che ad una reale diversità tra i due piatti. La zuppa è molto diffusa nelle regioni del centro e sud Italia, in particolare in Toscana, con i cavoli neri come verdura principale, in Calabria e Sicilia dove i legumi, fave in particolare, sono molto amati e in Sardegna, con l’irrinunciabile aggiunta di pezzetti di formaggio. La zuppa in generale ha un aspetto più denso e consistente della minestra classica, perché per prepararla viene utilizzato meno brodo o perché l’aggiunta di pane e crostini la rende più asciutta. Molto spesso, per il suo alto valore nutritivo, una buona zuppa viene considerata un pasto completo e ricco. La minestra, invece, è più liquida a seconda del brodo utilizzato ed è consumata soprattutto nel Nord Italia. In Lombardia la minestra è preparata con l’aggiunta di riso, mentre nel Veneto e in Emilia Romagna si aggiunge pasta o cappelletti o addirittura dell’uovo strapazzato. A metà tra la zuppa e la minestra c’è il minestrone, nato dopo la scoperta dell’America e l’introduzione in cucina di alcuni ingredienti fondamentali come le patate, il mais e i fagioli, che prima non erano utilizzati. Questi ingredienti hanno arricchito e legato le erbe e gli ortaggi utilizzati fino ad allora creando così una minestra più consistente e simile alla zuppa. Il minestrone italiano per eccellenza è caratterizzato dall’utilizzo di verdure di colore verde, rosso e giallo e dall’aggiunta di pasta, alla fine. La differenza tra vellutata e passato di verdura è molto semplice. La vellutata è composta solamente da 2, massimo 3, tipi di verdure. Gli abbinamenti tradizionali sono: patate-porri, zucchine-patate, carote-patate. Inoltre, in una vellutata non deve mai mancare la liason finale degli ingredienti che avviene con l’aggiunta di panna da cucina o tuorli d’uovo, che legano i sapori e danno una consistenza morbida. Il passato di verdure, invece, non è altro che una minestra, senza pasta, o solamente con del riso, che viene frullata con un mixer, preparata prevalentemente per i bambini che non amano vedere la verdura in pezzi grossi. Più sottile è invece la differenza tra vellutata e crema. Per crema si intende una preparazione con un solo ingrediente principale, frullato, e legata da farina di riso o latte.

Il brodo vegetale è una base di cucina ampiamente utilizzata per la cottura e il servizio di varie tipologie di ricette. In brodo si cucinano e si servono molti primi piatti (pastina o riso in brodo, tortellini, canederli, passatelli, stracciata di uova ecc.); inoltre, il brodo viene utilizzato per allungare i liquidi di cottura degli arrosti in forno, degli stracotti in fricassea o in casseruola ecc.
Si impiega anche per tenere morbide e idratate le paste saltate, o per allungare altri fondi di cottura e salse di accompagnamento calde (ad es. le demi glace, i fumetti addensati, ecc).
Il brodo vegetale è una bevanda/alimento liquido, trasparente e dal colore ambra intenso o giallo tenue (tendente al verdino o al rosso, in base agli ingredienti), con un aroma delicato di verdure bollite e un sapore altrettanto tenue.
Il brodo vegetale non contiene grandi quantità di nutrienti, che per lo più interessano la frazione salina (soprattutto sodio e potassio) e alcuni coloranti naturali (ad es. i carotenoidi); a seconda degli ortaggi impiegati nella formula, possono rimanere disciolti in acqua anche pochi carboidrati semplici (fruttosio) o semi complessi (malto-destrine).
Se di tipo commerciale (in dado, in polvere o granulare, in brick, in
monoporzioni addensate, ecc.), il brodo vegetale può mostrare livelli più o meno elevati di additivi alimentari (ad es. glutammato di sodio).
Il brodo vegetale “fatto in casa” non è di certo una delle ricette più complesse.
E' necessario tenere bene a mente solo pochi accorgimenti e “non avere fretta” durante la preparazione. Per dirla tutta, rispetto a quella di carne o di pesce, la preparazione del brodo vegetale richiede tempi molto più ristretti; ciò è dovuto al fatto che i tessuti degli ortaggi risultano molto più sensibili al trattamento  termico rispetto a quelli muscolari, connettivi ed ossei degli animali.
Oltre all'acqua, gli ingredienti fondamentali del brodo vegetale sono solo tre: sedano, carota e cipolla, nella proporzione 2:2:1. Molti altri utilizzano anche zucchine, pomodori e patate, oltre a varie erbe aromatiche e spezie tra le quali prevalentemente: prezzemolo fresco, alloro fresco, aglio e pepe in grani. Se il brodo vegetale è destinato a fungere da liquido di cottura, è opportuno che venga leggermente salato; al contrario, se costituirà semplicemente una base di idratazione, è consigliabile lasciarlo del tutto insipido. Il procedimento è piuttosto banale; specifichiamo fin da subito che, trattandosi di un brodo, le verdure devono essere tagliate a pezzi e cucinate in “acqua fredda”. Questo “gioco di parole” sta semplicemente a indicare che, al momento del tuffo degli ortaggi, la temperatura del liquido dovrebbe essere “ambiente”. Cuocendo in acqua fredda si ottiene una maggior perfusione dei nutrienti nel brodo, ovvero la porzione edule della ricetta stessa; al contrario, per cucinare le “verdure lesse o bollite” bisognerebbe rispettare il principio opposto, cioè tuffarle intere in “acqua calda” (a massima ebollizione, per limitare la dispersione delle suddette molecole).
Gli ortaggi del brodo vegetale devono essere lavorati differentemente l'uno dall'altro. Vanno tutti lavati, mondati e tagliati; più sono piccoli i pezzi, inferiore è il tempo di cottura e maggiore sarà la torbidezza. D'altro canto, gli ingredienti richiedono una mondatura abbastanza specifica:
Sedano: meglio quello verde; è necessario che venga privato delle foglie (leggermente amare) e dell'estremità sulla quale iniziano le radici.
Carote: devono essere sbucciate (la porzione esterna è leggermente amara) e private dell'estremità sulla quale inizia il ciuffo.
Cipolla: meglio bianca o gialla; va sbucciata e privata delle due estremità.
Zucchine: vanno private delle due estremità.
Pomodori: in genere si utilizza la varietà ramato ma vanno benissimo anche i San Marzano; alcuni li sbucciano e li lasciano interi. Si possono anche lasciare con la buccia e tagliare in 4 spicchi, poiché questa si separa automaticamente durante la cottura.
Patate: di qualunque taglia; vanno sbucciate e mondate in modo da eliminarne ogni traccia di germogli (queste parti contengono tracce di solanina, una molecola nociva).
Prezzemolo: contrariamente al sedano, se ne utilizzano solo le foglie. Meglio aggiungerlo a fine cottura, a fuoco spento.
Alloro: vanno predilette le foglie grandi. Alcuni suggeriscono di utilizzarne diverse in pochi litri d'acqua. Per quanto mi riguarda, suggerisco di impiegarne solo una e di tagliarla in tre parti. Meglio aggiungerle a fine cottura, a fuoco spento.
Aglio: certi suggeriscono di unirlo agli altri ingredienti e di lasciarlo “in camicia” (con la buccia); personalmente, preferisco aggiungerlo tagliato a metà, senza buccia, e a fine cottura col fuoco spento.
Pepe in grani: utilizzando quello nero, può essere aggiunto leggermente schiacciato, a fine cottura e col fuoco spento; prediligendo il pepe verde, suggerisco di schiacciarlo con un pestello e di unirlo all'inizio della preparazione assieme agli ortaggi.
Gli ingredienti da aggiungere a fine cottura, col fuoco spento, vanno lasciati nella pentola circa 15-30'; in tal modo hanno il tempo di cedere le proprie caratteristiche al brodo e permettono di lasciar decantare la sospensione del liquido.
Il procedimento per la preparazione del brodo vegetale potrebbe quindi essere così riassunto:
lavare e mondare le verdure (anche quelle da aggiungere alla fine); riempire d'acqua per 3/4 una casseruola o una marmitta; gettare gli ingredienti; coprire con un coperchio e mettere sul fuoco al minimo della fiamma; lasciar sobbollire (NON bollire) circa 60'; tirare giù dal fuoco, unire gli ultimi ingredienti e lasciar riposare 15-30'; filtrare ed eventualmente regolare di sale.

Il dado di pesce è un elemento molto utilizzato nella cucina di tutti i giorni, ottimo per insaporire piatti a base di pesce e frutti di mare, come ad esempio zuppe, salse e stufati. Esistono sul mercato molti preparati industriali semplici da utilizzare, però realizzare il dado di pesce in casa è altrettanto semplice. Per questa ricetta preferite pesce da zuppa come merluzzo o spigola e gamberi freschi, il sapore contenuto in una porzione di dado sarà sufficiente per creare all’incirca 2 litri di brodo. Il sale grosso contenuto nella ricetta deve essere un terzo del peso totale del pesce e degli aromi, per garantire una giusta sapidità alla ricetta. Dopo la preparazione potete conservare i dadi sia congelando monoporzioni, sia versando il composto in un barattolo sanificato e sterilizzandolo in abbondante acqua calda.

Merluzzo 250
Spigola 150 g
Gamberi 70 g
Carote 100 g
Sedano 100 g
Cipolle 60 g
Sale grosso 200 g
Prezzemolo Quanto basta
Aglio 1 spicchio
In un casseruola disponete il pesce eviscerato e i gamberi e lasciateli tostare per 3 minuti, o fino a che non siano leggermente ammorbiditi. Togliete la casseruola dal fuoco, lasciate raffreddare il fondo di cottura. Tirate fuori e pulite accuratamente pesce e gamberi eliminando le lische e i carapaci.
Riportate il pesce e i crostacei nella casseruola. Tritate finemente la cipolla, il sedano, le carote e l'aglio uniteli al pesce. Aggiungete il sale, mescolate e lasciate cuocere a fuoco molto basso dai 30 ai 40 minuti facendo attenzione a non farlo asciugare troppo. Trasferite il tutto in un robot da cucina e frullate fino a ottenere una crema densa e vellutata.
Lasciate raffreddare, tritate finemente il prezzemolo e unitelo al composto. Con un cucchiaio riempite uno stampino per cubetti di ghiaccio e congelate il dado. Una volta congelato potete trasferire i cubetti in sacchetti per alimenti.
300 g di carne (scegli tu tra manzo, pollo o maiale),
500 ml di acqua,
350 g totali di sedano e carote (puoi usare anche altre verdure che ti piacciono),
100 g erbe aromatiche (scegli quelle che preferisci tra prezzemolo, rosmarino, basilico, timo),
300 g di sale fino,
1 cipolla
2 cucchiai d’olio di extravergine d’oliva.
Trita la carne. Prepara una padella e fai rosolare olio extravergine, la cipolla tagliata a pezzetti e le verdure. Quando la cipolla inizia a dorarsi e le verdure ad appassire, aggiungi la carne macinata e le erbe aromatiche. Abbassa il fuoco e lascia cuocere per quasi due ore, controllando e girando di tanto in tanto. Quando le verdure sono morbide aggiungi il sale. Prosegui nella cottura finché il composto si asciuga. Frulla poi tutto fino a ottenere una crema.
Stendi un foglio di alluminio e versa sopra il tuo dado. Dagli una forma rettangolare. Se vuoi, se non è troppo liquido, dividilo già con il coltello a quadretti. Non importa se è  morbido perché a questo punto lo metterai nel freezer per farlo rassodare.
Lasciali nel congelatore una notte, poi estraili e mettili in un barattolo di vetro o in un contenitore ermetico e conservali nel frigorifero.

 12 CONSERVE (2^ Edizione)
 

Conserve. In queste 230 pagine ho raccolto circa 300 schede di ricette, prodotti e consigli di degustazione pubblicate nel corso degli anni sul blog DALLA PARTE DEL GUSTO (https://dallapartedelgusto.blogspot.com/). Desidero infatti condividere con voi la mia passione per la cucina. La dispensa delle conserve deve essere sempre ben fornita. Molto meglio se sarete voi a produrre una parte di queste delizie. Confetture, marmellate, gelatine, sottolio, sottaceto, frutta essiccata, frutta candita, ecc. Nelle stagioni in cui certi prodotti non sono disponibili, la nostra dispensa dei sapori mostra il suo tesoro.

CONOSCERE I FUNGHI




 







L'uso umano di funghi per la preparazione del cibo e la loro conservazione è ampia ed ha una lunga storia. La coltivazione di funghi e la loro raccolta porta allo sviluppo di grandi industrie in molti paesi. Lo studio degli usi storici e l'impatto sociologico dei funghi è noto come etnomicologia.
A causa della capacità di questo gruppo di produrre una gamma enorme di molecole naturali come antimicrobici o di altro, molte specie sono da tempo state utilizzati o sono in fase di sviluppo industriale per la produzione, nel campo farmaceutico, di antibiotici, vitamine e antitumorali o per abbassare il colesterolo. Più di recente, sono stati sviluppati metodi per l'ingegnerizzazione genetica di funghi, con finalità di ingegneria metabolica delle specie fungine. Per esempio, la modificazione genetica di specie di lieviti, facili a crescere a ritmi rapidi in grandi impianti di fermentazione, ha aperto diverse vie nella produzione farmaceutica di princìpi potenzialmente più efficienti a livello di produzione che non quelli originati da parte degli organismi originali.
Usi diversi dei funghi come insetticidi ed altri di lotta biologica integrata, negli interventi ambientali allo scopo di degradare inquinanti chimici pericolosi, l'uso come organismi modello in biologia e l'utilizzo a scopo allucinogeno o comunque psicotropo di una vasta varietà di specie, sono solo alcuni tra le innumerevoli interazioni delle attività umane con il regno dei funghi.
Vari usi alimentari
Il lievito di Birra o Saccharomyces cerevisiae, un fungo unicellulare, è usato per fare il pane e altri prodotti a base di grano, come pizza o altre paste lievitate. Inoltre è la specie di lievito più utilizzata per produrre bevande alcoliche attraverso la fermentazione alcolica, ma sono impiegati anche altre specie di saccharomyces e, raramente, non saccharomyces. L'Aspergillus oryzae, noto come kōji-kin è un ingrediente essenziale nella produzione di salsa shoyu (di soia), e la preparazione di miso, mentre specie di Rhizopus sono usate per fare il tempeh . Molti di questi funghi sono specie che sono state selezionate in base alla loro capacità di fermentare gli alimenti senza produrre micotossine dannose, ad esempio prodotte da aspergilli molto strettamente connessi a organismi utili. Il Quorn, un sostituto della carne, è ottenuto da Fusarium venenatum.
Specie commestibili e velenose
I funghi commestibili, in senso comune sono in genere un'ampia gamma di specie di macromiceti. Molti sono commercialmente coltivate, ma altre devono essere raccolte in natura. Agaricus bisporus, venduto come fungo champignon, dal termine francese indicante genericamente i funghi macroscopici è una specie comunemente mangiata, viene usato in insalate, minestre, e molti altri piatti. Molti funghi asiatici son coltivati su scala commerciale e hanno via via aumentato in popolarità in Occidente.
 Spesso sono disponibili freschi in negozi e supermercati, tra cui funghi di muschio (Volvariella volvacea), funghi ostrica (Pleurotus ostreatus), la Lentinula edodes e le Flammulina spp..
Ci sono molte più specie di funghi che vengono raccolti dal loro ambiente naturale per il consumo personale o per la vendita commerciale (prataioli, spugnole, finferli, tartufi, trombette, galletti e funghi porcini) e per tale motivo la domanda impone un prezzo elevato sul mercato. Essi sono spesso utilizzati nei piatti d'alta cucina e di cucina tipica.
Alcuni tipi di formaggi richiedono l'inoculazione di cagliata di latte con le specie fungine che conferiscono un sapore unico e la consistenza particolare del formaggio. Alcuni esempi sono il blu di formaggi come Stilton e Roquefort, che sono fatti per inoculazione con Penicillium roqueforti. I ceppi utilizzati nella produzione di formaggio non sono tossici e sono quindi sicuri per il consumo umano, tuttavia, micotossine come aflatossine, roquefortine C , patulina, o altre possono accumularsi a causa della crescita di altri funghi durante la stagionatura e la conservazione errata.
 Molte specie di funghi sono velenose per l'uomo, con tossicità che producono da lievi problemi digestivi o allergici fino a più gravi come le allucinazioni, gravi danni di organi (spesso il fegato) e la morte.
Generi di funghi contenenti tossine letali includono Conocybe, Galerina, Lepiota, Gyromitra, Cortinatius e la più pericolosa, Amanita, che comprende anche specie commestibili. Le specie Amanita verna Amanita virosa e Amanita phalloides sono responsabili dei più frequenti avvelenamenti mortali da funghi. La Gyromitra esculenta è a volte considerata una prelibatezza quando è cotta, ma può esser molto tossica se mangiata cruda. Il Tricholoma equestre è stato considerato commestibile fino a essere implicato in avvelenamenti gravi, causando rabdomiolisi anche mortale.
L'Amanita muscaria è anche causa occasionale di avvelenamenti, anche a seguito di ingestione per l'uso come droga, per i suoi effetti allucinogeni dovuti a fenomeni tossici. Storicamente, questa specie è stata utilizzata da diversi popoli in Europa e Asia e il suo utilizzo religioso o sciamanico. L'uso viene segnalato in alcuni gruppi etnici come il popolo Koryak del nord-est della Siberia. Poiché è difficile individuare con precisione un fungo sicuro, senza un'adeguata formazione e conoscenza, è spesso consigliato di assumere che un fungo selvatico sia velenoso e quindi non consumarlo. 
I funghi vanno comunque consumati, in genere e se non se ne è mai fatto un uso precedente, saltuariamente ed in modiche quantità in quanto spesso contengono carboidrati complessi e poco comuni negli altri alimenti, primo tra tutti, la chitina, che appesantiscono il lavoro dell'apparato digerente. La risposta dell'organismo a simili stimoli è spesso strettamente individuale, escludendo i casi di allergia ed intolleranza alimentare, la dotazione enzimatica dell'organismo umano atta a digerire queste molecole è estremamente variabile e personale.

L'Agaricus bisporus (J.E. Lange) Imbach, 1946, meglio conosciuto con il nome francese di champignon, è un fungo basidiomicete della famiglia delle Agaricaceae molto apprezzato e largamente commercializzato in tutto il mondo.
Dal latino bisporus = con due spore, per via dei basidi che possiedono solo due spore invece di quattro.
CappelloLargo fino a 12 cm, a volte anche oltre, prima ovoideo, poi emisferico, infine convesso; molto carnoso e di color bianco (marrone in alcune varietà, note nei Paesi anglosassoni come chestnut mushrooms), spesso presenta squame brunastre; margine frequentemente fioccoso.
Lamelle
Color rosa candido, diventano color cioccolato in breve tempo ed infine marrone scuro; libere e piuttosto fitte.
Gambo
3-5 x 1,5-2 cm, sodo, pieno, corto, tozzo e cilindrico, ingrossato alla base; di colore bianco.
Anello
Fioccoso, bianco, membranaceo, facilmente asportabile.
Carne
Di color bianco, leggermente virante al rosso se esposta all'aria.
Odore: gradevole, come di muschio o di erba stropicciata.
Sapore: grato, dolce. Più forte negli esemplari più maturi e per questo alcuni preferiscono consumare solo carpofori giovani.
Distribuzione e habitat
Campi concimati, letamai, giardini, nei prati ai margini dei boschi; gregario.
Cresce tutto l'anno in cattività.
Commestibilità

Eccellente. Facilmente reperibile in qualsiasi mercato. Numerose le ricette con cui può essere apprezzata questa specie.
10 ORTAGGI (2^ Edizione)

 

Ortaggi. In queste 360 pagine ho raccolto oltre 250 schede di prodotti, metodi di lavorazione e tecniche di cucina pubblicate nel corso degli anni sul blog DALLA PARTE DEL GUSTO
(https://dallapartedelgusto.blogspot.com/).
Desidero infatti condividere con voi la mia passione per la cucina. Ortaggi, che spettacolo vedere i banchi dei prodotti dell'orto traboccare di colori in ogni stagione. Ed i sapori? In cucina lo spettacolo visivo si muta in spettacolo aromatico. Senza giungere agli eccessi di una dieta vegetariana sbilanciata, gli ortaggi sono salute... e risparmio. In ogni stagione la verdura sta sulla nostra tavola. Ma una conoscenza più approfondita ci fa scoprire che ogni tipo di ortaggio ha molte varianti. Si deve conoscerle e, se è il caso, acquistarle. Con questo semplice gesto avremo dato il nostro piccolo ma decisivo contributo alla pratica della biodiversità alimentare. Oggi la disponibilità di prodotti di qualità è enormemente cresciuta grazie a metodologie di trasporto veloci e conservazione sicure. Non limitiamoci a ciò che ci propone il nostro ortolano di fiducia. Se lo stimoliamo al meglio, lui ci darà il meglio.

CONOSCERE LE PREPARAZIONI DOLCI DI BASE


panettone
PANETTONE 1

lievito naturale a maturazione pronta g 1150
zucchero g 1250
acqua g 2000
tuorli g 900
burro g 1200
farina g 4000
Mettere nell’impastatrice farina, lievito, e acqua; dopo circa 15 minuti a impasto formato aggiungere lo zucchero e successivamente il burro morbido ma non sciolto e dopo l’assorbimento del burro i tuorli.
Impastare fino ad ottenere un impasto liscio ma non troppo lavorato; questa operazione non dovrebbe durare più di 25 minuti. Mettere a lievitare in cella per 10-12 ore a una temperatura di 24/25 °C e comunque fino a che il volume sia triplicato.
Aromi (da miscelare il giorno precedente)
g 250 Miele d’acacia
n° 4 Bacche di vaniglia
n° 2 Limoni (buccia)
n° 2 Arance (buccia)
Aggiungere al 1° impasto la farina e impastare per circa 15 minuti. Aggiungere lentamente lo zucchero e dopo il suo assorbimento unire la metà dei tuorli, il sale e gli aromi. Fare incorporare il tutto fino ad ottenere una pasta liscia ed omogenea. Aggiungere la rimanenza dei tuorli e il burro morbido ma non sciolto e lasciare incorporare. Impastare bene il tutto e accertarsi che la consistenza dell’impasto sia esatta. Versare nella pasta g 150 di burro fuso, quindi tutta la frutta e continuare ad impastare sino a quando la distribuzione della frutta sia uniforme. Tutta questa operazione fatta con impastatrice tuffante a 44 battute non dovrebbe durare più di 45/50 minuti.
Togliere dall’impastatrice, porre in un contenitore e lasciare riposare per circa 30 minuti. Spezzare del peso desiderato, formare le pagnotte, porle su tavole e mettere in cella a 28° C per una puntatura di circa 35/40 minuti. Arrotondarle nuovamente ben strette e porle nelle apposite fasce.
La lievitazione in cella a 28/30° C può durare dalle 6 alle 7 ore in base alla forza dell’impasto. Lasciare lievitare fino al bordo dello stampo e poi tagliare o ghiacciare (se si taglia aggiungere una noce di burro al centro).
2° Impasto:
farina
Premium Molini Valente g 1000
zucchero g 1100
sale g 70
tuorli g 1600
burro g 2150
malto g 30
uva sultanina g 2300
noci macinate grossolanamente g 1500
Tempi di cottura: per g 500 – 35 minuti a 170/180 °C
per g 1000 – 50/55 minuti a 170/180 °C
per g 1500 – 70/75 minuti a 170/180 °C
per g 2000 – circa 90 minuti a 160/170 °C
Per mantenere la forma dopo la cottura girarlo immediatamente con le apposite pinze e lasciarlo in quella posizione per circa 10 ore prima di confezionarlo.

panettone
PANETTONE 2

Ingredienti per il primo impasto per 1200 g di impasto
Farina Manitoba 250 g
Lievito madre (rinfrescato tre volte nell'arco
della giornata) 65 g
Acqua (temperatura ambiente) 125 g
Burro morbido 70 g
Zucchero 65 g
Malto 2 g
Tuorli 50 g
Ingredienti per il secondo impasto
Farina Manitoba 62 g
Zucchero 50 g
Burro morbido 40 g
Tuorli 50 g
Uvetta sultanina 150 g
Sale fino 2 g
Baccello di vaniglia 1
Miele di acacia 16 g
Cedro candito 30 g
Arancia candita 70 g
Pasta di arance 75 g
Pasta di mandarini 30 g
Pasta di limoni 20 g
Ingredienti per imburrare la superficie
Burro 20 g
Per il primo impasto
Per preparare il panettone iniziate a realizzare il primo impasto. Versate in una ciotola il malto, i 65 g di zucchero semolato e i 125 g d'acqua a temperatura ambiente. Mescolate con una frusta fino a far sciogliere lo zucchero; dopodiché versate lo sciroppo in una planetaria dotata di una frusta a foglia. Aggiungete quindi i 250 g di farina manitoba in una volta sola ed iniziate ad impastare. Basteranno circa 5 minuti e non appena l'impasto avrà preso consistenza aggiungete 65 g di lievito madre rinfrescato 3 volte nell'arco della giornata e continuate ad impastare a velocità moderata. Nel frattempo preparate un'emulsione di burro e tuorli. Trasferite 70 g di burro morbido in una ciotolina e lavoratelo con una frusta a mano fino ad ottenere una consistenza cremosa. Aggiungete circa la metà dei tuorli e mescolate. Unite poi i restanti e mescolate nuovamente modo da ottenere un'emulsione omogenea. A questo punto aggiungetene metà nella planetaria in funzione. Per favorire l'assorbimento utilizzando una leccarda staccate l'impasto che sarà rimasto attaccato alla foglia e azionate nuovamente la planetaria. Quando l'impasto risulterà ben asciutto e il burro sarà stato assorbito completamente unite la parte restante dell'emulsione di burro e tuorli. Lavorate ancora fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo, dopodiché trasferitelo su un piano di lavoro, aiutandovi con un tarocco. Date una forma sferica all'impasto, trasferitelo all'interno di una ciotola di vetro, coprite con pellicola per alimenti e lasciate lievitare per circa 12 ore ad una temperatura di circa 26° fino a che l'impasto non sarà triplicato di volume. Nel frattempo, se preferite preparare in casa la pasta di mandarini, arance o limoni guardate il box in fondo.
Per il secondo impasto
Per il secondo imasto del panettone utilizzando un tarocco staccate il primo impasto (lievitato) dalla ciotola di vetro e trasferitelo in planetaria, sempre dotata di foglia. Aggiungete 65 g di farina manitoba e azionate la macchina a velocità moderata fino a quando non sarà completamente assorbita. Unite poi le masse aromatiche, ovvero la pasta di arancia, quella di mandarini e quella di limone; aggiungete poi il miele e i semi della bacca di vaniglia. Azionate nuovamente la planetaria fino a far assorbire completamente gli aromi. Nel frattempo preparate nuovamente l'emulsione con 40 g di burro e 50 g tuorli, unendoli in due volte come fatto in precedenza. Non appena il vostro impasto risulterà elastico, spegnete la macchina e aggiungete 50 g di zucchero. Azionate nuovamente la macchina per pochi minuti e unite un pizzico di sale. Lasciatelo assorbire e spegnete di nuovo la planetaria. Aggiungete l'emulsione di burro sempre in due volte e ultimate di lavorare l'impasto, fino a che risulterà ben incordato. Nel frattempo mettete a mollo l'uvetta e tagliate a cubetti sia il cedro che l'arancia candita. A questo punto scolate per bene l'uvetta e versatela in una ciotola, aggiungete anche arancia e cedro e mescolate. Per esser certi che l'impasto è pronto spegnete la macchina, prelevatene una porzione e se allargandola con le mani risulterà sottile ma non si spezzerà facilmente significa che ha raggiunto la giusta elasticità; se così non fosse lavorate l'impasto ancora qualche minuto, altrimenti aggiungete il mix di frutta candita e uvetta in planetaria e azionatela nuovamente a velocità moderata. Quando il mix di frutta candita e uvetta saranno ben incorporati spegnete la macchina, staccate la foglia e lasciate riposare l'impasto per circa 20 minuti all'interno della ciotola della planetaria, coprendola un canovaccio. Dopodiché trasferitelo su un piano, dategli alcune pieghe e lasciate riposare per altri 30 minuti a temperatura ambiente; non ci sarà bisogno di coprirlo. Non preoccupatevi se l'impasto dovesse risultare un pò appiccicoso aiutatevi a lavorarlo utilizzando un tarocco.
Per formare e cuocere il panettone
Trascorsi i 30 minuti prelevate 1050 gr di impasto, arrotondate delicatamente in modo da dare una forma sferica e trasferite all'interno di uno stampo di carta da 1 kg (le dimensioni esatte sono 22 cm di diametro e 8 cm di altezza). Utilizzate l'impasto rimasto (circa 150 g) per preparare due piccoli panettoncini utilizzando gli stampi da muffin. Scaldate il forno a 35°, poi spegnetelo, coprite il panettone con una cupola di vetro e riponete il panettone e i panettoncini a lievitare in forno per 6-8 ore. Una volta lievitato lasciatelo scoperto a temperatura ambiente per circa 30 minuti, in questo modo si formerà in superficie una sottile pellicina. Con un taglierino fate un'incisione a croce e mettete una noce di burro al centro della croce. Infornate a 175° in modalità statica per 50 minuti, dopo 20-25 minuti sfornate i panettoncini e proseguite la cottura del panettone per i restanti minuti. Poi sfornatelo e infilzatelo con 2 stecchini d'acciaio sui due bordi esterni. Lasciatelo raffreddare capovolto per tutta la notte, utilizzando due pentole o due ciotole della stessa altezza per fissarlo. Il mattino successivo giratelo, togliete gli stecchini e il vostro panettone sarà pronto da gustare.

PANDORO

Ingredienti per il 1° impasto (per uno stampo da 750 g)
Biga (preparata e lasciata maturare tutta la notte) 80 g
Farina Manitoba 90 g
Zucchero 20 g
Uova 50 g
Lievito di birra fresco 7 g
Ingredienti per il 2° impasto
Farina Manitoba 210 g
Zucchero 90 g
Miele di acacia 10 g
Uova (2 medie) 100 g
Tuorli (circa 1) 20 g
Baccello di vaniglia 1
Scorza di limone 0,5
Burro ammorbidito 125 g
Per la biga
Per preparare il pandoro fatto in casa, iniziate dalla biga (il pre-impasto). Dovrete prepararla la sera prima in modo che maturi tutta la notte. In una ciotolina versate 45 g di farina manitoba, 5 g di lievito di birra fresco sbriciolato e 30 g di acqua. Mescolate gli ingredienti con le mani per ottenere un impasto omogeneo. Coprite con pellicola e lasciate maturare per tutta la notte a temperatura ambiente.
Per il 1° impasto
(per uno stampo da 750 g)
Per preparare il primo impasto del pandoro, riprendete la biga fatta maturare tutta la notte come indicato in precedenza, versatela in una planetaria dotata di gancio e aggiungete 90 g di farina manitoba, poi 20 g di zucchero semolato e 7 g di lievito di birra fresco sbriciolato. Cominciate ad impastare con il gancio gli ingredienti facendo andare la planetaria a velocità media; quindi versate l'uovo (uno medio da 50 g) e lavorate ancora fino a completo assorbimento e incordatura. Una volta incordato l'impasto attorno al gancio della planetaria, trasferitelo su un piano di lavoro leggermente infarinato aiutandovi con un tarocco; quindi realizzate delle pieghe all'impasto, riportando i lembi laterali verso l'interno e ripiegando poi l'impasto da sotto verso l'interno. Pirlate l'impasto sul banco di lavoro per creare una forma sferica le cui pieghe si dovranno trovare nella parte sotto della palla che formerete. Ponete la sfera di impasto con la parte delle pieghe a contatto con il fondo della ciotola e coprite con pellicola. Il primo impasto è pronto e dovrà lievitare in forno spento con luce accesa per 2 ore almeno (il forno spento con luce accesa garantirà una temperatura costante di 26-30° massimo); dovrà raddoppiare di volume.
Per il 2° impasto e la cottura
Il vostro primo impasto dopo 2 ore si presenterà come nella foto; versatelo nella tazza della planetaria dotata di gancio, unite 10 g di miele e i semi di una bacca di vaniglia; poi grattugiate la scorza di mezzo limone prelevandone solo la parte gialla. Quindi versate 90 g di zucchero semolato e 210 g di farina manitoba; iniziate a lavorare l'impasto con il gancio, quindi unite le uova e i tuorli (100 g di uova intere corrispondono a 2 uova medie e un tuorlo a circa 20 g), ma una alla volta, attendendo l'assorbimento completo di una prima di procedere con la successiva. Una volta assorbite le uova, assicuratevi che l'impasto si incordi: risulterà elastico ma molto idratato. Potete provare a prenderne in mano una parte per verificarne la consistenza. Quindi prendete 125 g di burro ammorbidito a temperatura ambiente, ma ancora plastico, e un pezzetto alla volta inseritelo nell'impasto sempre con la planetaria in funzione, attendendo l'assorbimento completo prima di passare al pezzetto successivo. Una volta che tutto il burro sarà assorbito e l'impasto incordato, arrestate la planetaria. Raccogliete l'impasto aiutandovi con un tarocco e rovesciatelo su un piano di lavoro; sempre con il tarocco aiutatevi per realizzare le pieghe di rinforzo. Prendete il lembo in alto e ripiegatelo verso di voi, poi nuovamente da sotto a sopra. Pirlate l'impasto sul piano di lavoro, ovvero ruotatelo tra le mani (se necessario potete ungervi leggermente le mani con del burro) in modo da realizzare una sfera liscia e ben tesa. Versatela nello stampo da 750 g di pandoro precedentemente imburrato e infarinato assicurandovi che la chiusura delle pieghe realizzate sia verso l'alto; lasciatelo riposare per l'ultima lievitazione, sempre in forno spento con luce accesa per almeno 8-12 ore fino a quando non raggiungerà il bordo dello stampo. Ora potete togliere lo stampo dal forno, inserire una ciotola con acqua calda alla base del forno per creare la giusta umidità e portare il forno in modalità statica alla temperatura di 140-150° e cuocete il pandoro ponendolo nell'ultimo ripiano del forno per circa 55 minuti, sempre mantenendo la ciotola di acqua all'interno. Una volta cotto, sfornate il pandoro e lasciate raffreddare almeno per 30 minuti. Ponete poi un piatto da portata sulla base del pandoro e capovolgete lo stampo; quindi lasciate raffreddare completamente e poi delicatamente sfilate lo stampo (se dovesse far resistenza attendete ancora qualche minuto perché si raffreddi meglio); infine spolverizzate il vosto pandoro con lo zucchero a velo e gustatelo fetta dopo fetta!

colomba
COLOMBA PASQUALE

350 grammi farina 00
115 grammi burro
155 grammi zucchero semolato
1 uova
3 tuorlo
12,5 grammi lievito di birra
50 grammi latte intero fresco
75 grammi canditi
50 grammi uvetta / uva passa / uva sultanina / uva secca
1/2 arancia
2,5 grammi sale
1/2 baccello vaniglia
1/2 cucchiaino aroma di mandorla
50 grammi mandorla pelata
1 albume
50 grammi mandorla non pelata
80 grammi zucchero granella
Inizia preparando il "lievitino". Sciogli il lievito in una ciotola con 50 g di latte a temperatura ambiente (22°), unisci 50 g di farina setacciata e fai un impasto liscio e omogeneo; coprilo e lascialo lievitare per 30 minuti, in un luogo caldo e lontano da correnti d'aria. Aggiungi 75 g di farina, 20 g d'acqua tiepida e 2 tuorli, impasta gli ingredienti e fai lievitare per altri 40 minuti. Incorpora 75 g di farina, 15 g di burro morbido, 15 g di zucchero e l'uovo e lascia lievitare ancora per 30 minuti.
Aggiungi quindi nell'ordine la farina e il burro rimasti e 90 g di zucchero e poi unisci il sale, i semi della vaniglia, la scorza grattugiata dell'arancia, l'aroma di mandorla, il tuorlo rimasto, l'uvetta ammorbidita nell'acqua e i canditi e continua a impastare fino a incorporare tutti gli ingredienti.
Trasferisci l'impasto per la colomba pasquale classica sulla spianatoia infarinata, dividilo a metà (infarinandoti le mani, dato che è piuttosto morbido) e allunga le due parti delicatamente con le mani; adagia il primo pezzo nella parte più lunga in uno stampo a forma di colomba della capacità di 1 kg circa per formare il corpo, sovrapponi a croce la seconda parte nello spazio destinato alle ali, in modo che durante la lievitazione e la successiva cottura la parte centrale diventi più alta. Verifica che le parti destinate alla testa e alla coda aderiscano bene ai bordi. Sistema lo stampo su una placca e lascia lievitare finché la colomba avrà raddoppiato il volume iniziale. Prepara la glassa di copertura per la colomba: frulla le mandorle pelate con 50 g di zucchero e l'albume, amalgama bene e distribuisci il composto sulla colomba lievitata in maniera uniforme, iniziando dalla parte centrale in quanto durante la cottura la glassa tenderà a scendere verso i bordi: nel compiere questa operazione, fai molta attenzione a non smontare la lievitazione. Distribuisci la granella di zucchero uniformemente sulla colomba, guarniscila con le mandorle intere non pelate e cuocila in forno caldo a 180° calcolando 45-50 minuti circa. Toglila dal forno e lascia raffreddare la colomba pasquale classica su una gratella per dolci. Servi la tua colomba pasquale classica.

PAN DI SPAGNA

Fecola di patate 75 g
Zucchero 150 g
Sale 1 pizzico
Vaniglia i semi di 1 bacca
Uova 5 a temperatura ambiente
Farina tipo 00 75 gr
Metodo diviso a freddo (per una teglia di 24 cm di diametro)
Per la preparazione del pan di spagna con metodo diviso a freddo, prendete le uova (dovranno essere a temperatura ambiente), dividete accuratamente gli albumi dai tuorli (negli albumi non dovrà esserci traccia di tuorlo e le ciotole e le fruste che userete dovranno essere ben pulite); ponete gli albumi nella tazza di una planetaria (oppure montateli con uno sbattitore elettrico) e aggiungete 1 pizzico di sale e parte dello zucchero (1/3 della dose totale sarebbe preferibile). Montate gli albumi a lucido e non a neve a velocità media: in questo modo eviterete la formazione di grumi nell'impasto. Quando gli albumi saranno bianchi, sufficientemente gonfi morbidi, fermate la planetaria.
Incidete con un coltellino una bacca di vaniglia e prelevatene i semini; nella ciotola con i tuorli, aggiungete i 2/3 di zucchero rimanente e lavorateli con uno sbattitore elettrico a velocità media aromatizzandoli con i semi della bacca di vaniglia: dovrete ottenere un composto spumoso, con una buona alveolatura e di colore giallo chiaro. Unite delicatamente i tuorli sbattuti agli albumi e mescolate con una frusta (o una spatola) dall'alto verso il basso per non smontare il composto. A questo punto aggiungete la farina e la fecola setacciate e amalgamatele al composto. Imburrate e foderate con carta da forno una teglia di 24 cm di diametro.
Versate al suo interno il composto e livellatelo con la spatola (evitate di battere la teglia per livellare il composto, per non rischiare di smontarlo). Cuocete il pan di spagna a in forno statico preriscaldato a 180° per almeno 40 minuti (160° per circa 30 minuti se forno ventilato). Una volta cotto, sfornatelo e lasciatelo intiepidire, quindi sformatelo e fatelo raffreddare completamente su una gratella.
Metodo classico a freddo (per una tortiera 17x17)
Per preparare il pan di spagna con metodo classico, incidete la bacca di vaniglia e prelevatene i semini. Quindi in una ciotola versate le uova, un pizzico di sale, lo zucchero e i semini della bacca di vaniglia (potete anche aromatizzare con la scorza di arancia); montate tutto per almeno 10 minuti a velocità media fino ad ottenere un composto gonfio, chiaro e spumoso. Unite la farina e la fecola setacciate e mescolate per amalgamare le polveri all'impasto con una frusta. Imburrate e infarinate (o rivestite con carta da forno) una tortiera 17x17 se volete un pan di spagna più alto (altrimenti una da 20x20 per farlo più grande e leggermente più basso) e versate il composto. Livellatelo con una spatola e cuocete il pan di spagna in forno statico preriscaldato a 180° per circa 40 minuti (160° per circa 30 minuti se ventilato). Una volta cotto, sfornatelo e lasciatelo intiepidire, quindi sformatelo e fatelo raffreddare completamente su una gratella prima di farcirlo.
Metodo a caldo (per una tortiera di 24 cm di diametro)
Con il metodo a caldo avrete un pan di spagna con un'alveolatura più accentuata: per preparare il pan di spagna con questo metodo, incidete la bacca di vaniglia con un coltellino e prelevatene i semi raschiandola; poi passate a cuocere a bagnomaria le uova con lo zucchero e un pizzico di sale: in un tegame versate l'acqua scaldatela e poi ponete al di sopra una bastardella (una pentola dal fondo stondato) che non dovrà essere a contatto con l'acqua. Versate al suo interno le uova, i semi della bacca di vaniglia, un pizzico di sale e lo zucchero. Mescolate il composto, che non dovrà superare i 45° (controllate la temperatura con un termometro da zuccheri). Versate il composto nella tazza di una planetaria (potete anche usare uno sbattitore elettrico) e montate il composto a velocità media per una decina di minuti; dopodiché setacciate la farina e la fecola, amalgamatele al composto con una frusta a mano, poi versatelo in una tortiera di 24 cm di diametro imburrata e foderata con carta da forno e cuocete in forno statico preriscaldato a 180° per circa 40 minuti (160° per circa 30 minuti se forno ventilato). Una volta cotto, sfornatelo e poi sformatelo per farlo raffreddare completamente su una gratella prima di farcirlo.
Conservazione
Potete conservare il pan di spagna sotto una campana di vetro o coperto con pellicola trasparente per 1-2 giorni oppure in frigorifero avvolto nella pellicola. Potete congelare il pan di spagna e scongelarlo all'occorrenza in frigorifero.
Accorgimenti utili
Le uova vanno montate a lungo con lo zucchero, ma attenzione a non montarle troppo per evitare di ottenere un pan di spagna troppo friabile. Se avete teglie rotonde di diametro più grande rispetto a quelli indicati nella ricetta, è importante sapere che per ogni 2 cm in più si aumenta di 1 uovo, 15 gr di farina, 15 gr di fecola e 30 gr di zucchero. Se avete teglie più piccole, varrà il procedimento inverso.
Inizialmente il pan di spagna si chiamava Pâte Génoise, ovvero pasta genovese e per quanto riguarda le origini del pan di spagna, si fanno risalire alla metà del 1700 quando il cuoco genovese Giobatta Cabona, inviato in Spagna al seguito del marchese ed ambasciatore Domenico Pallavicino, in occasione di un banchetto presentò una torta di incredibile leggerezza che prese il nome di Pan di Spagna per onorare la corte spagnola. Questa pasta si preparava a caldo, ovvero tutti gli ingredienti venivano aggiunti in una terrina che poggiava su una pentola con dell'acqua che bolliva. Col tempo questo metodo venne abbandonato e la Pâte Génoise divenne semplicemente il moderno pan di spagna.


panforte

PANFORTE
450 gr di mandorle (non pelate)
150 gr di farina
350 gr di zucchero
120 gr di miele
½ cucchiaino di noce moscata grattugiata
½ cucchiaino di cannella
350 gr di frutta candita (arancia, cedro )
2 cucchiai di zucchero a velo
3 chiodi di garofano
40 gr di cialde/ostie
5 gr di semi di coriandolo
10 gr pepe
Mettete su una teglia da forno le mandorle e fatele tostare per circa 10 minuti in forno. Tagliate la frutta candita a pezzi piccoli. In una casseruola fate sciogliere a fiamma dolce il miele e lo zucchero, mescolare per non far attaccare il composto, quando avrà preso un colore bruno togliete la casseruola dal fuoco e aggiungete le mandorle, la farina, i canditi, la noce moscata grattugiata,il pepe, la cannella in polvere, i chiodi di garofano e i semi di coriandolo che precedentemente avrete pestato o triturati. Amalgamate bene il composto.
Rivestite con la cialda il fondo di una teglia tonda, possibilmente con chiusura a cerniera , versatevi l'impasto del dolce (che avrà uno spessore di circa 2 centimetri) ed infornate per 30 minuti a 150 gradi. Terminata la cottura togliete dallo stampo il panforte e spolveratelo con zucchero a velo. Il dolce va servito freddo.

biscotti
BISCOTTO

Il biscotto è una preparazione di cucina e di pasticceria dolce, di dimensioni ridotte (5–10 cm) e di forma geometrica variamente decorata, solitamente cotta nel forno sino a perdere quasi ogni traccia di umidità. La parola deriva dal latino «panis biscotus», significante «pane cotto due volte», e le cui prime evidenze risalgono al X secolo.
I biscotti sono una preparazione antica, caratterizzata da forte presenza del miele (in origine) o dello zucchero (più recentemente) e dalla completa cottura in forno: due caratteristiche che li rendevano conservabili anche per lunghi periodi.
I biscotti sono solitamente a base di farina, uovo, burro, zucchero, ammoniaca ed eventualmente lievito e aromi vari. Oggi la farina usata è in massima parte di frumento, ma non mancano esempi di farine diverse come gli amaretti di farina di mandorle, i nocciolini di Chivasso di farina di nocciole piemontesi, le paste di meliga di farina di mais o i zaéti veneziani di farina di polenta, per restare nella sola tradizione italiana. I biscotti entrano nella tradizione culinaria di tutto l'Occidente, del Medio Oriente e dell'Estremo Oriente e si presentano in numerosissime varianti.
I biscotti compaiono nella tradizione culinaria di quasi tutti i paesi e talvolta hanno migrato al seguito di eserciti, matrimoni reali o spostamenti di colonie di contadini. Tentare una classificazione è difficile, tuttavia si possono individuare alcuni tipi. Tra i più frequenti e conosciuti troviamo, in ordine di apparizione storica.
Cialde
Sono preparazioni in cui una pastella viene cotta su una superficie rovente, che solitamente è tonda o romboidale e presenta uno stemma o una superficie a grata. Le cialde possono essere dolci o salate e sono diffuse in tutta Europa sin dai tempi dei Greci (obleios) e dei Romani (alita dolcia). Dolci simili si trovano anche in Russia, (blini), in India (poori), in Medio Oriente (qata'if), in Indonesia (dadar gutung), in Cina (bao bing). Alla stessa famiglia appartengono le crêpes, i pancake, le tegole e i wafer. Sono una delle preparazioni più antiche ed erano diffusissimi già nel Medioevo. Oggi come allora si accompagnano al dolce quanto al salato.
I contenuti variano enormemente: uova, burro, latte, olio, zucchero, miele, aromi vari. Le cialde esistono di tre tipi: croccanti e friabili (come le tegole italiane), morbide e soffici (come le gauffres), morbide e piatte (come le crêpes). Alcuni esempi: le gauffres francesi, belghe e tedesche, i waffel olandesi, le tegole o i canestrelli italiani, le infinite varianti di wafer diffusi in tutta l'Europa occidentale.
Biscotti speziati
Hanno una forte componente di aromi quali anice, cannella, noce moscata, pepe, zenzero, semi di papavero, eccetera e sono spesso dolcificati con il miele. Sono comuni nell'Europa centrale e settentrionale e spesso accompagnano la tradizione del Natale di Santa Claus. Possono contenere burro o lievito e sono, solitamente, di forma fantasiosa (pupazzetti, animaletti, cuori, fiori, stelle, abeti o Santa Claus) e variamente decorati con glasse e confettini di zucchero.
Alcuni esempi: i mustazzoli in Italia. Gli speculoos belgi, austriaci e tedeschi, i Ruiter Speculaas olandesi, solitamente a forma di mulino a vento, le Zimtsterne e i Lebkuchen tedeschi, i pan di zenzero tedeschi, olandesi, svedesi, spesso a forma di casetta decorata di canditi e confetti per ricordare la storia di Hansel e Gretel, i kaneelkoekjes olandesi.
Biscotti di pasta di mandorle
È una famiglia davvero ampia, inizialmente di tradizione araba e pian piano diffusasi praticamente ovunque dalla Sicilia alla Germania, dalla Spagna alla Danimarca. Alcuni esempi: gli amaretti, i ricciarelli, la pasta di mandorla, i canestrelli e la frutta di Martorana in Italia, i Kipferln e i Spitzbuben in Germania, i perrunillas, almendrados e i bocaditos in Spagna, i bitter koekjes nei Paesi Bassi, i petitfour francesi.
Biscotti di frutta secca o canditi
Sono preparati con aggiunta o ripieno di noci, nocciole, noccioline, mandorle, castagne, fichi secchi, datteri, canditi di frutta varia (arancia, limone, zucca), uva passa. Sono diffusi ovunque secondo la disponibilità di ingredienti del territorio.
Alcuni esempi: i brut e bun di nocciole, le pitte di San Martino con le scorze d'arancia candita, i ravioli dolci di fichi, datteri o uvetta, i pan de mòrt con le mandorle, le passulate con noci e mandorle, i petrali con fichi secchi e uva passa in Italia, kletskoppen di noccioline in Olanda, le Zimtsterne di noci e nocciole Tedesche, i mince pies con frutta secca al brandy in Inghilterra, i sanyura con mandorle o pistacchi e acqua di fiori d'arancio in Libano, i mamul di datteri e talvolta semola anziché farina di frumento, i barazik di sesamo in Siria.
Frollini o paste di frolla
Sono i biscotti di pasta frolla. Hanno un impasto di farina, burro, zucchero e uova e la presenza di burro è notevole; hanno origine più recente dei primi e sono più deperibili. Appartengono alla grande famiglia delle paste secche di pasticceria ed erano riservati ad occasioni di feste, anche in considerazione della forte presenza di burro che li rende molto nutrienti e non sempre facilmente digeribili.
Accanto alla tradizionale produzione artigianale, oggi si affianca una imponente produzione industriale e i frollini sono spesso venduti come prodotti da colazione. Alcuni esempi: le paste di meliga con farina di mais, le offelle con olio di oliva, le margherite di Stresa in Italia, gli spritsgebak in Olanda, gli shortcake e gli shortbread inglesi e americani, gli alfajores in Spagna.
Altri tipi di biscotti
Si producono biscotti con ingredienti ritenuti curativi (come le fibre) o ricostituenti, oppure privi di ingredienti che possono risultare inadatti ad alcuni, come burro, uova. Rientrano in questa categoria anche le semplici e diffusissime gallette dolci, che spesso accompagnavano i pasti di soldati e marinai perché semplici, economiche e poco deperibili.
La categoria sta subendo oggi una forte espansione a causa del numero sempre crescente di allergici ai cibi più svariati. Troviamo quindi biscotti senza glutine, senza uova, senza noci o nocciole, senza zucchero, ecc., che spesso sono garantiti da una o più associazioni di consumatori quando non direttamente dal Ministero della Salute.

SAVOIARDI
3 uova a temperatura ambiente
90 gr di zucchero a velo
90 gr di farina
zucchero semolato
Separate i tuorli dagli albumi e montate a neve ferma questi ultimi con lo zucchero a velo. Sbattete leggermente i tuorli e con l’aiuto di una spatola uniteli delicatamente agli albumi, facendo attenzione a non smontarli. Una volta completata questa operazione aggiungete, poco alla volta, la farina facendola assorbire molto bene al composto prima di aggiungerne dell’altra. Fate attenzione a far assorbire bene la farina al composto sempre lavorandolo dal basso verso l’alto e con movimenti lenti. Inserite l’impasto dentro una sac-à-poche e formate, sopra una teglia rivestita da carta forno, dei cilindri di circa 10 cm di lunghezza e 1 di spessore.Prima di infornare, cospargete la superficie dei savoiardi con zucchero semolato e subito dopo con zucchero a velo setacciato. Aspettate circa 5 minuti che lo zucchero a velo si sia assorbito e spolveratene un altro strato. Cuocete in forno a 200° per 8 minuti o comunque fino a completa doratura dei biscotti. Una volta sfornati fate raffreddare bene i savoiardi prima di staccarli dalla carta da forno e fateli asciugare per almeno una nottata, coperti da un foglio di carta forno prima di conservarli in un barattolo di vetro.

ANICINI

250 gr di farina
50 gr di burro
1 etto di zucchero
1 uovo
3 cucchiai circa di semi di anice
2 cucchiaini di lievito in polvere
qualche cucchiaiata di latte
un pizzico di sale
Disposta la farina a fontana sul tagliere, porre al centro tutti gli ingredienti e impastare con cura con qualche cucchiaiata di latte fino ad ottenere una pasta abbastanza morbida. Porre su una placca del forno, foderata della consueta carta, l'impasto ottenuto, dandogli la forma di un grosso cannello di circa 30 cm. Lo si inforni per circa 20 minuti a 150° e, una volta cotto, si lasci raffreddare e successivamente tagliare in fettine di circa 1 cm. Allineate le fette sulla placca del forno, farle biscottare da entrambe le parti finché raggiungano un bel colore dorato.


CANTUCCI

Zucchero semolato 280 gr
Sale 1 pizzico
Lievito chimico in polvere 4 grammi
Burro 100 g
Mandorle non spellate 250 gr
Farina 00 500 gr
Uova medie 4 intere e 1 tuorlo
Uova 1 piccolo
Come prima cosa accendete il forno a 190° e quando avrà raggiunto la temperatura fatevi tostare le mandorle ben disposte su una placca per 3-4 minuti; toglietele poi dal forno e fatele freddare.
Poi procedete a formare l'impasto per i cantucci: ponete le 4 uova intere e un tuorlo nella planetaria (o in una capiente ciotola) e aggiungete il pizzico di sale e lo zucchero semolato. Montate molto bene fino a ottenere un composto gonfio e spumoso. Aggiungete ora il burro fuso e tiepido e mescolate; incorporate la farina setacciata con il lievito e amalgamate bene tutti gli ingredienti. Una volta ottenuto un composto bricioloso e morbido, aggiungete le mandorle ora raffreddate, trasferite il composto su una spianatoia infarinata e compattatelo a mano per ottenere una palla uniforme. Suddividete questo impasto in due o tre palle della stessa dimensione (dipende da quanto volete grandi i vostri cantucci, con due filoncini otterrete dei biscotti più grandi, ricavando tre filoncini invece saranno più piccoli) e da queste ricavate due o tre filoncini lunghi all'incirca 30 cm; trasferite i filoncini su una placca da forno coperta con carta forno, spennellateli con l'uovo intero leggermente sbattuto e fate cuocere per 20 minuti in forno caldo a 190°. Trascorso questo tempo estraete i filoncini, fateli raffreddare qualche minuto e procedete a tagliarli in diagonale per ricavare dei biscotti (cantucci) di circa 1-1,5 cm. Disponete i biscotti ottenuti di nuovo sulla placca e fate "biscottare" in forno a 170° per circa 10-15 minuti. Estraete i cantucci ottenuti e aspettate che siano ben freddi per gustarli.

KRAPFEN

PER LA PASTA

Limoni la scorza grattugiata di 1

Vaniglia bacca 1

Latte 250 ml

Sale 5 g

Burro 120 g

Farina manitoba 350 g

Lievito di birra 25 g

Zucchero 50 g

Malto 1 cucchiaino

Uova medie 1 più 4 tuorli

Farina 00 150 g
PER IL RIPIENO
Marmellata di albicocche 200gr
PER LA RICOPERTURA
Zucchero a velo q.b.
PER FRIGGERE
Strutto (o olio extravergine d'oliva) q.b.

Sciogliete il lievito di birra in mezzo bicchiere di latte intiepidito con un cucchiaino di malto (o zucchero). Mescolate il latte rimasto con lo zucchero semolato, i semini prelevati dalla bacca di vaniglia, il sale e le uova che sbatterete con una forchetta. Nel frattempo setacciate le farine e versatele nella ciotola di un mixer munito di gancio a foglia; unite la buccia grattugiata del limone, azionate il mixer e unite poco alla volta il composto di latte e malto e subito dopo il composto di latte, zucchero e uova. Lavorate bene tutti gli ingredienti fino a ottenere un impasto omogeneo, quindi unite in due volte il burro ammorbidito che avrete precedentemente tagliato a pezzetti. Lavorate l’impasto fino a che diventerà liscio ed elastico. Adagiate l’impasto in un recipiente coperto con un canovaccio, dove lo lascerete lievitare per almeno 2 ore (il volume dovrà triplicare). Quando l’impasto sarà lievitato stendetelo con un matterello in una sfoglia di circa 3 mm, dalla quale, con uno stampino (coppapasta, bicchiere o tazza), ricaverete dei dischi del diametro di circa 6 cm. Ponete al centro dei dischi un cucchiaino di marmellata, spennellatene il bordo con dell’albume e ricoprite il tutto con un altro disco, premendo bene i bordi. Lasciate riposare i krapfen per almeno 1 ora. Trascorso il tempo necessario, scaldate in un tegame lo strutto (o l’olio) e friggetevi a fuoco moderato (non superate i 170°) i krapfen, pochi alla volta, rigirandoli affinché si dorino su entrambi i lati. Toglieteli dal tegame con una schiumarola, fateli sgocciolare e asciugateli con la carta assorbente prima di cospargerli di zucchero a velo.



GRAFFE

Per il lievitino
Farina tipo 00 130 g
Latte fresco 120 g
Lievito di birra (9 g se fresco) disidratato 3 g
per l'impasto di 20 graffe
Farina manitoba 400 g
Uova medie 3
Burro ammorbidito 100 g
Zucchero semolato 50 g
Miele di acacia 8 g
Limoni scorza grattugiata 1
Sale 8 g
Patate rosse 300 g
Farina tipo 00 70 g
per imburrare
Burro 30 g
per friggere e zuccherare
Olio di semi 1 l 
Zucchero semolato 200 g
Per preparare le graffe lavate sotto abbondante acqua corrente le patate, poi lessatele. Preparate intanto il lievitino; in una ciotola unite alla farina setacciata il lievito di birra disidratato e miscelateli con il latte tiepido fino ad ottenere un composto omogeneo. Coprite il lievitino con la pellicola trasparente e fatelo lievitare in forno spento con luce accesa, per 1 ora (altrimenti coprite con una copertina di lana e lasciate a lievitare in un luogo lontano da correnti d'aria). Quando le patate saranno cotte, pelatele, schiacciatele con uno schiaccia patate e fate intiepidire il tutto. In una planetaria munita di foglia ponete le due farine setacciate e il miele. Aggiungete anche lo zucchero, le patate schiacciate ormai intiepidite e la scorza grattugiata di un limone non trattato, ben lavato e asciugato. Sbattete leggermente le uova e aggiungetele, quindi azionate la planetaria: quando l’impasto sarà ben sodo e raccolto sulla foglia, sostituitela con il gancio e aggiungete il lievitino. Continuate a lavorare il composto fino a che il lievitino si sarà ben incorporato, quindi unite il sale e incorporate il burro ammorbidito un pezzetto alla volta, aspettando che si sia assorbito prima di procedere con il successivo. Trasferite quindi l’impasto su una spianatoia leggermente unta con poco burro fuso e lavoratelo con le mani per renderlo liscio. Dategli una forma sferica e ponetelo in una ciotola coperta con pellicola trasparente, che dovete lasciare lievitare per 2 ore in forno spento con luce accesa (oppure coperto con una copertina e lasciato in un luogo lontano da correnti d'aria). Trascorso questo tempo, trasferite l’impasto sulla spianatoia unta con il burro fuso rimasto e modellatela in forma cilindrica, quindi suddividetelo in porzioni di circa 60 g: date una forma sferica ad ogni porzione, appiattitela leggermente e bucatela al centro, poi allargate delicatamente il foro: con le nostre dosi otterrete 20 graffe. Adagiate le ciambelle così ottenute su una leccarda foderata con carta forno, coprite con pellicola trasparente o con un canovaccio e lasciatele lievitare in forno spento con luce accesa per 1 ora: dovranno raddoppiare di volume. A lievitazione ultimata, iniziate a scaldare l’olio di semi. Tagliate la carta forno sotto ogni graffa in modo da creare un supporto per non doverle trasportare a mano rischiando di rovinarne la forma.
Quando l’olio avrà raggiunto la temperatura di 170-180° (potete controllare con un termometro da cucina), immergete con attenzione le ciambelle accompagnandole con la carta forno. Friggetene una alla volta, rigirandola più volte perchè arrivi a dorarsi da entrambi i lati: potete aiutarvi con una forchetta. Quando saranno ben dorate da entrambi i lati, scolate le graffe dall’olio con una schiumarola e fatele asciugare su un vassoio foderato con carta assorbente. In un recipiente ponete lo zucchero semolato, nel quale dovete rotolare le ciambelle ancora calde per rivestirle completamente di zucchero: le vostre graffe sono pronte, servitele ben calde!

BOMBOLONE

Zucchero 50 g
Burro a temperatura ambiente 100 g
Lievito di birra fresco 12 g
Sale fino 10 g
Latte intero tiepido 200 g
Scorza di limone 1
Olio di arachidi per friggere q.b.
Tuorli 40 g
Uova (1 medio) 50 g
Zucchero per ricoprire q.b.
Farina Manitoba 500 g
Crema pasticcera 500 ml
Per la preparazione dei bomboloni è necessario realizzare un impasto lievitato, meglio se aromatizzato con un poco di scorza di limone. Una volta preparato l'impasto, si possono ritagliare dei dischetti dal diametro di circa 10 cm, farli lievitare per circa un'ora e poi friggerli in olio di semi bollente. È anche possibile evitare di friggerli e cuocerli al forno (in questo caso i bomboloni saranno più morbidi e meno croccanti). Appena preparati andranno poi sparsi di zucchero a velo.
Il consumo
A differenza di altri tipi di paste dolci, il bombolone non viene tradizionalmente consumato a fine pasto. È invece tipico per la prima colazione e per la merenda. Negli stabilimenti balneari della toscana è usuale trovarlo appena preparato a metà pomeriggio.
Differenza con il krapfen
Esistono tre differenze tra il bombolone e il krapfen di origine austriaco:
la ricetta del bombolone non prevede le uova il bombolone è vuoto, non è quindi ripieno né di crema pasticcera, né di marmellata; il bombolone è fritto in olio non troppo caldo, assumendo una fragranza particolare; il bombolone è fatto di pasta morbida e poco consistente (anche definita "pasta vuota"), mentre il krapfen è di pasta molto consistente (anche definita "pasta piena").
Differenza con la "bomba" di origine laziale
La differenze principale tra il bombolone toscano e la bomba laziale è data dal ripieno. Mentre il bombolone è sempre rigorosamente vuoto, la bomba laziale è tipicamente piena di crema pasticcera o crema di cioccolato.

BRIOCHE

Latte tiepido 70 ml
Lievito di birra 13 g
Farina 0 550 gr
Burro ammorbidito 350 gr
Uova 6
Sale 15 g
Zucchero 80 g
Uova 1 tuorlo
Panna liquida fresca (o latte) 2 cucchiai
Sciogliere il lievito di birra nel latte tiepido; intanto tagliate il burro a pezzetti e lasciatelo ammorbidire a temperatura ambiente. Nella ciotola di una planetaria (se non l'avete potete impastare a mano), mescolate la farina setacciata, lo zucchero e il sale. Unite il lievito sciolto nel latte e impastate con il gancio. Aggiungete poi le uova e impastate per 6-8 minuti a velocità bassa. Aumentate la velocità e aggiungete il burro ammorbidito un pezzetto alla volta, avendo cura di aggiungere il successivo quando il precendente sarà stato completamente assorbito (ci vorrà un’ora circa). Piano piano il composto diventerà spumoso e di colore chiaro. Continuate ad aggiungere il burro e quando avrete ottenuto un impasto molto morbido e omogeneo, mettetelo in una ciotola, copritelo con la pellicola e lasciatelo lievitare in forno spento con la luce accesa per circa 3 h. Trascorso questo tempo, impastate nuovamente il composto, rigirando la pasta con la mano 2-3 volte, e mettetelo in frigo, sempre coperto con della pellicola, per almeno 12 ore, fino a quando l'impasto non si sarà solidificato. L'impasto sarà a questo punto ben compatto: trasferitelo su di una spianatoia infarinata quanto basta per non fare attaccare l’impasto e stendetelo in una sfoglia alta 1 cm. Tagliate dei triangoli che abbiano la base di 8 cm e i lati di 15 cm e, partendo dalla base, arrotolateli fino alla punta su se stessi. Incurvate leggermente le estremità verso l’interno e poneteli su una leccarda ricoperta di carta forno. Sbattete il tuorlo con la panna (o il latte) in una ciotolina e spennellate le brioches. Lasciatele lievitare ancora per 1 e 30 h circa, fino a che avranno raddoppiato il loro volume. Infornate le brioches in forno già caldo a 200° per 13-15 minuti, fino a che non saranno dorate in superficie. Ecco le vostre brioches pronte per essere gustate: spolverizzatele con lo zucchero a velo o farcitele e servite.

BIGNE'

100 ml d'acqua,
50 g di burro,
60 g di farina,
2 uova medie intere,
1 pizzico di sale.
Facoltativi:
1 cucchiaino di zucchero (per una pasta destinata al dolce),
mezzo cucchiaino di lievito chimico.
Mettere margarina o burro in una casseruola con l'acqua, il sale (eventualmente lo zucchero) e portare ad ebollizione, togliere dal fuoco, aggiungere la farina, ben setacciata, in un sol colpo e mescolare bene, rimettere al fuoco e continuare a mescolare fino ad avere un composto che tende formare una palla staccandosi nettamente dal fondo e dalle pareti della casseruola, togliere dal fuoco e far raffreddare bene la pasta prima di incorporare le uova altrimenti si cuociono al calore della pasta, aggiungere dunque un uovo per volta, incorporando il successivo solo quando il precedente si è del tutto amalgamato, e continuando a mescolare energicamente fino ad ottenere un impasto cremoso denso, depositare sulla teglia da forno, imburrata e infarinata, i bignè nella misura di un cucchiaio da the ciascuno (il cucchiaino va intinto nell'acqua fredda ad ogni dose perché la pasta non vi resti appiccicata), oppure servendosi di una tasca da pasticciere (sac-à-poche) con bocchetta liscia, infornare (dopo aver preriscaldato) ad una temperatura di 220 °C in forno statico, oppure a 200 °C in forno ventilato per un totale di 20 o 25' avendo cura di abbassare il calore di 20° per gli ultimi 10 minuti. Spegnere il forno e lasciarvi riposare i bignè affinché asciughino bene dentro. Farcire.
Il bignè, più correttamente in italiano bignola, è una piccola pasta dolce di forma tondeggiante, talvolta allungata, in questo caso si chiama éclair. I bignè si preparano in due modi completamente differenti fra loro: i bignè fritti e i bignè ripieni.
Il bignè fritto
È la forma originaria del dolce, diffusa in numerosi paesi d'Europa. È formato da una pasta di farina, uova, latte, zucchero, burro, liquore e lievito che viene divisa in piccole forme, successivamente fritte e spolverate di zucchero a velo. In molte regioni è un tipico dolce di carnevale. Una versione differente del bignè fritto è tradizionale delle zone cajun degli States e molto famosa a New Orleans. In questa versione, di nota derivazione francese, il bignè è un dolce quadrato fritto.
Si ricava da una pasta lievitata che viene stesa con il mattarello, tagliata in quadrati che vengono fritti in olio di semi di cotone e spolverati di zucchero a velo. Si ritiene che la ricetta sia stata portata nel corso del Settecento dalle suore dell'ordine delle Orsoline[senza fonte] e sia divenuta comune nel 1800. È un dolce comune e amato, reperibile nelle caffetterie, cui ci si riferisce impropriamente come doughnuts, sebbene questo termine indichi nel resto degli stati anglofoni la ciambella dolce, fritta e glassata.
Il bignè ripieno
È un piccolo dolce composto da un guscio di pasta choux ripieno di creme variamente aromatizzate, diventata famosa dalla Belle époque in poi. La pasta choux, inserita in una tasca da pasticcere, con bocchette di vario diametro e scanalatura, viene spremuta in piccole quantità su una placca da forno e cotta. Al variare delle bocchette e delle forme impresse, si ottengono diversi risultati estetici. I gusci di bignè cuociono brevemente a temperature intorno ai 200º e nel cuocere gonfiano divenendo leggeri e cavi all'interno. Questa stessa cavità viene riempita di farcitura; successivamente il dolce viene coperto di glassa. A seconda del ripieno assumono un nome preciso, che spesso viene usato solo in alta pasticceria.
Tra i più famosi ricordiamo lo Chantilly, bignè ripieno di panna montata e crema pasticcera. Tuttavia, poiché la pasta choux è di gusto neutro, il bignè viene spesso farcito salato, ad esempio con salsa besciamella, crostacei, funghi o fondute di formaggio e servito come stuzzichino per buffet o aperitivi. La dimensione del bignè dolce può variare da un diametro di 10 – 12 cm alle dimensioni di una noce, tipiche della pasticceria minuta in uso specialmente in Piemonte. Il bignè salato è solitamente piccolo, tra i 3 e i 6 cm di diametro. Vi si fa riferimento anche con il nome di choux o bignola. Quest'ultimo termine, però, può trovarsi anche applicato alle ricette tradizionali del bignè fritto.

CUPCAKE

Farina 
120 g
Zucchero 120 g
Burro a temperatura ambiente 120 gr
Uova 2
Sale 1 pizzico
Lievito chimico in polvere un cucchiaino raso (3 gr)
Limoni la scorza di uno
Vaniglia 1 bacca

Per preparare i cupcake iniziate procurandovi uno stampo per muffin, possibilmente da 12; collocate quindi in ogni sagoma un pirottino di carta della stessa dimensione. Ponete in una ciotola lo zucchero e il burro a temperatura ambiente e con le fruste elettriche riducete gli ingredienti in crema, poi aggiungete le uova una ad una, il sale, i semi di una bacca di vaniglia e la scorza di limone grattugiata e continuate a sbattere con le fruste.
In ultimo incorporate la farina e il lievito setacciati e mescolate con un cucchiaio di legno fino a che l’impasto si presenterà liscio e omogeneo. Distribuite l’impasto ottenuto nei 12 pirottini stando attenti a non superare la metà in volume; cuocendo infatti, il cupcake non deve debordare ma arrivare al massimo a filo della pirottina. Infornate i cupcake in forno già caldo a 180° per circa 20 minuti, fino a che saranno leggermente dorati in superficie. Servite quindi i vostri cupcake al naturale o decorati con creme al burro, creme al formaggio o glassa.


PASTA FILLO

200 grammi di farina manitoba
2 cucchiai di olio extravergine di oliva
105 ml di acqua calda (anche di più se serve)
1 cucchiaino di sale fino

Impastare con il robot da cucina o a mano tutti gli ingredienti in modo tale che il risultato finale sia abbastanza elastico e dunque modellabile (7 minuti circa ma se fate a mano ve ne serviranno almeno una ventina). Dividere l’impasto in una serie di palle di peso pari a circa

PASTA BRISÉ

Farina tipo 00 200 g
Burro freddo 100 g
Acqua ghiacciata 70 ml
Sale 0,5 g
Per preparare la pasta brisé, mettete nel frullatore la farina, il burro a pezzi freddo di frigo, un pizzico di sale e frullate il tutto, fino ad ottenere un composto dalla consistenza sabbiosa e farinosa. A questo punto, disponete il composto ottenuto su una superficie di marmo, metallo o vetro (basta che sia fredda) nella classica forma a fontana ed impastate velocemente aggiungendo poco alla volta l'acqua fredda. Impastate con le mani cercando però di non surriscaldare troppo l'impasto, e lavoratelo fino a renderlo compatto, sodo e abbastanza elastico. Una volta pronta, avvolgete la pasta brisé in un foglio di pellicola da cucina e lasciatela riposare in frigo per almeno 40 minuti. Passati i 40 minuti, la pasta brisé sarà pronta per essere utilizzata.

PASTA BISCOTTO

Uova 5

Miele 10 g

Farina 100 g

Zucchero 140 g

Vaniglia i semi di 1 bacca

Per preparare la pasta biscotto iniziate dividendo i tuorli (dovranno pesare circa 100 gr) dagli albumi (dovranno pesare circa 150 gr). Sbattete i tuorli per almeno 10 minuti assieme a 90 gr di zucchero, al miele e alla vaniglia fino a che non diventano chiari e molto spumosi. Montate gli albumi a neve non troppo ferma assieme al restante zucchero, in modo che non si formino grumi quando li unirete ad altri ingredienti, quindi unite i due composti con una spatola senza smontarli. Aggiungete la farina setacciata molto delicatamente ed amalgamatela. Stendete l’impasto su un foglio di carta forno, posto su una leccarda da forno delle dimensioni di 45 x 37 cm, e livellatelo con una spatola piatta e liscia fino a raggiungere lo spessore di 1 cm. Infornate in forno statico già caldo a 220° per 6-7 minuti (non di più); la superficie del dolce deve diventare appena dorata e non dovrete mai aprire il forno che tratterrà al suo interno l’umidità. Estraete la pasta biscotto dal forno, toglietela immediatamente dalla teglia, poggiandola con tutta la carta forno su di un piano. Spolverizzate la superficie della pasta biscotto con dello zucchero semolato, in modo che non si appiccichi, e sigillatela immediatamente con della pellicola, ripiegandola anche sotto i lati. In questo modo la pasta biscotto raffreddandosi tratterrà al suo interno tutta l’umidità che servirà a renderla elastica e l’aiuterà a piegarsi senza creparsi. Quando la pasta biscotto sarà fredda togliete la pellicola, farcitela con il prodotto prescelto e arrotolatela.

La pasta biscotto è una base morbida, sottile ed elastica che viene usata principalmente per produrre rotoli farciti con ripieni dolci dei più svariati come marmellate, creme e ganache.

La consistenza della pasta biscotto è soffice e ricorda quella del pan di spagna, per questa sua peculiarità la pasta biscotto è conosciuta anche come pan di spagna arrotolato.
Il procedimento della pasta biscotto è semplice e veloce infatti sono sufficienti pochissimi minuti di cottura in forno ed è inoltre possibile congelare la pasta biscotto una volta cotta.


dessert
PASTA CHOUX (BIGNÈ)

Uova 210 g
Farina per dolci, con W=220 130 g
Burro 100 g
Zucchero 5 g
Acqua 200 ml
Sale 1 pizzico
Per preparare la pasta choux tagliate il burro a pezzi e ponetelo in un tegame. Aggiungete anche l’acqua, lo zucchero e il sale e portate il tutto a bollore, a fuoco basso. Non appena inizierà a bollire, spostate il composto dal fuoco e unitevi la farina setacciata (in modo da evitare la formazione di grumi), quindi mescolate subito con una frusta, fino a far addensare il composto.
Riportate la pentola sul fuoco dolce e continuate a mescolare con un mestolo di legno, sbattendo energicamente. La miscela sarà pronta quando staccandosi dalle pareti formerà una palla e sul fondo del tegame sarà presente una patina bianca. Otterrete un composto morbido e consistente: trasferitelo quindi in una planetaria e iniziate a lavorarlo con la foglia per un paio di minuti. Solo quando dalla planetaria non fuoriuscirà più fumo potrete aggiungete le uova, una per volta, prestando attenzione ad aggiungere il successivo solo quando il precedente sarà completamente assorbito. Proseguendo in questo modo otterrete un composto liscio ed omogeneo, cremoso e non liquido. Se non possedete una planetaria, potete tranquillamente realizzare la pasta choux amalgamando le uova con un mestolo di legno. Una volta che la vostra pasta choux sarà pronta, riponetela in un sac-à-poche dotato di bocchetta liscia. Utilizzatela per formare dei mucchietti di pasta su una leccarda foderata con la carta forno. Prestate attenzione a distanziare i vari mucchietti, per evitare che in cottura, gonfiandosi, possano unirsi. Una volta terminato tutto l'impasto, smorzate la punta dei bignè abbassandola delicatamente con un pennello imbevuto leggermente in acqua. Cuocete i bignè in forno statico preriscaldato per 15 minuti a 220° evitando di aprire il forno durante la cottura. Trascorsi i primi 15 minuti abbassate la temperatura a 190° e cuocete la pasta choux per altri 10 minuti. Se volete cuocere i vostri bignè in forno ventilato preriscaldatelo a 175° e cuocete i bignè per 30 minuti. A questo punto spegnete il forno e lasciate all'interno i bignè per altri 30 minuti con lo sportello leggermente aperto (mettete tra lo sportello e il forno un cucchiaio di legno); questo servirà a fare asciugare bene l'interno. Estraete i vostri bignè dal forno e lasciateli raffreddare completamente. Adesso i bignè sono pronti per essere farciti.



MERINGHE ALL'ITALIANA

100 g 
di albumi,
7 cl di acqua,
150 di fruttosio,
un pizzico di acido citrico o qualche goccia di limone,
nocciole o mandorle tritate finissime.
Montare a neve gli albumi insieme all’acqua, al fruttosio e al pizzico di acido citrico in polvere. Aggiungere alla base montata a neve la farina di nocciole o mandorle. Disporre il composto in stampini di materiale non metallico. Cuocere al microonde, a potenza bassa, fino a che la meringa non acquisisce consistenza (non deve deformarsi permanentemente con una leggera pressione del cucchiaio).  Utilizziamo il microonde perché produce una cottura più omogenea. E’ una testura sorprendente che svanisce in bocca in un istante liberando sentori freschi e delicati (il fruttosio qui gioca un ruolo fondamentale). L’acido citrico serve a correggere la dolcezza eccessiva del fruttosio. Nelle meringhe classiche si consiglia di aggiungere zucchero a velo agli albumi già montati Il motivo è che lo zucchero, tendendo ad assorbire acqua, soprattutto se in polvere, disidrata le proteine inibendo la formazione della schiuma. Ma in questo caso, la quantità d’acqua addizionata rende l’effetto trascurabile.

MERINGHE ALLA FRANCESE

100 grammi di albume,
da 100 a 200 grammi di zucchero,
un cucchiaino di succo di limone, oppure mezzo cucchiaino di cremor di tartaro.
1. Separate il tuorlo dall’albume partendo da uova fresche di frigo e pesatelo (regolatevi con gli altri ingredienti di conseguenza).
2. Aspettate che gli albumi giungano a temperatura ambiente (meglio se la temperatura è vicina ai 40 gradi).
3. Mettete il succo di limone con gli albumi in una bacinella (ideale la terracotta, evitate la plastica, il rame, il ferro e l’alluminio) e iniziate a sbattere lentamente. Montato a dovere l’albume può raggiungere 8 volte il volume iniziale. Aggiungete lo zucchero poco alla volta, lentamente, da quando il volume e’ aumentato 4 volte. Continuate a sbattere fino a che lo zucchero non si e’ sciolto completamente. La schiuma deve risultare molto soda tanto che rovesciando il recipiente la schiuma non deve cadere.
4. Nel frattempo accendete il forno e portatelo a 90 gradi di temperatura
5. Una volta montata la schiuma, potete formare delle meringhe usando la sacca per dolci, ponendole su della carta da forno in una teglia.
6. Infornate per due ore e mezza. Se dopo tre ore non sono ancora asciutte, aprite il forno e lasciatele riposare: c’e’ un problema di umidita’ nel forno, e così dovrebbe uscire.




CANESTRELLI

Farina tipo 00 300 g
Fecola di patate 200 g
Burro 300 g
Zucchero a velo 150 g
Limoni la scorza di 1 non trattato
Uova tuorli sodi 6
Vaniglia bacca 1
Zucchero a velo, q.b.
Cuocere le uova per farle diventare sode: saranno necessari 8 minuti in acqua bollente; i tuorli andranno aggiunti sodi all’impasto per garantire la giusta friabilità all’impasto. Nella ciotola di una planetaria setacciate la farina, la fecola e lo zucchero a velo.
Poi grattugiate la scorza di limone non trattato e aggiungete i semini di una bacca di vaniglia; unite anche il burro freddo a pezzi e lavorate il tutto con una planetaria dotata di foglia per amalgamare gli ingredienti. Quando le uova saranno sode, sbucciatele e conservate solo il tuorlo che potrete schiacciare e passare al colino per renderlo più cremoso e omogeneo. Quindi andrà aggiunto al resto dell’impasto. Miscelate brevemente gli ingredienti con la planetaria, trasferite l’impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato e compattatelo velocemente a mano, giusto il tempo di formare un panetto dalla consistenza morbida e liscia. Appiattitelo leggermente e avvolgetelo nella pellicola trasparente (oppure ponetelo in un contenitore ermetico) e lasciate in frigorifero per circa 1 ora. Passato il tempo necessario, stendete l’impasto in un disco di 1 cm di spessore e con uno stampino per biscotti sagomato a fiore di 3 cm di diametro, ricavate i biscotti; potete impastare di nuovo i ritagli. Otterrete in tutto 100 canestrelli.
Realizzate poi il tipico foro centrale con un coppapasta di 1 cm di diametro (esistono in commercio gli stampini apposta per i canestrelli che permettono di formare direttamente il buco centrale). Cuocete pochi canestrelli alla volta ben distanziati tra loro, su una leccarda foderata con carta da forno, in forno statico preriscaldato a 170° per 18 minuti (potete provare anche con il ventilato cuocendo una prima infornata di pochi biscotti, a 150° per 8-10 minuti): non dovranno scurirsi. Una volta cotti, sfornateli e lasciateli raffreddare completamente su una gratella, quindi spolverizzateli con zucchero a velo e servite i canestrelli come pasticcino da tè o conservateli in piccoli sacchetti per regalarli in un'occasione speciale.

MARMELLATE CONFETTURE GELATINE COMPOSTE

Con il termine marmellata si intende una preparazione semisolida dolce a base di agrumi e zucchero e cotta a lungo. Nonostante impropriamente nel gergo comune i termini confettura e marmellata siano sinonimi, dal 1982 per effetto di una direttiva comunitaria solo prodotti ottenuti da agrumi possono essere venduti nell'Unione europea con la denominazione di "marmellata", mentre tutte le altre preparazioni vanno chiamate confettura.
Il nome probabilmente deriva dalla parola portoghese marmelo, per mela cotogna (dal greco μελίμηλον "mela di miele" ). Diffusa in quasi ogni paese, ha generato una serie di leggende sulla sua origine, che spesso coinvolgono personaggi reali come Elisabetta d'Inghilterra o Maria de' Medici. Si dice, infatti, che i cuochi fiorentini che aveva portato con sé, preparassero per la regina di Francia indisposta e debole dopo una gravidanza, una gelatina ricostituente a base di agrumi. La gelatina piacque tanto alla regina che ne ordinò una gran quantità. Essa fu riposta in vasi con la scritta francese "pour marie malade" da cui verrebbe il francese "marmalade". Già gli antichi greci conservavano le mele cotogne cuocendole lentamente per addensare gli zuccheri contenuti. L'addensamento del composto ottenuto si ha durante il raffreddamento, ad effetto della azione della pectina.
È da notare comunque che, prima dell'avvento dello zucchero, evento alquanto recente, l'unico dolcificante conosciuto oltre ai succhi di frutta (Sapa) era il miele, materiale costosissimo, usato dai ceti poveri come merce di scambio per avere prodotti essenziali, piuttosto che per il consumo diretto.
Il termine "mela di miele" non deriverebbe perciò dalla aggiunta di miele, ma per il fatto, facile da verificare, che la polpa del frutto che è praticamente immangiabile anche in fase di maturità, pochissimo dolce, dura, e piuttosto acre, subisce con la cottura, prima di qualsiasi aggiunta di eventuali addolcenti, una trasformazione drastica degli zuccheri a lunga catena contenuti ( quindi "poco dolci") in zuccheri decisamente "dolci", con uno spiccato profumo di miele.
Una preparazione affine è quella della canditura della frutta o della verdura. È tuttavia probabile che entrambe le tecniche siano ben più antiche: la cottura e, insieme, la concentrazione degli zuccheri assicurano una lunga conservazione della frutta, altrimenti impossibile in epoche prive di sistemi di refrigerazione.
Marmellata, confettura, gelatina, composta
Il principio delle quattro preparazioni è identico. Il risultato varia, però, leggermente. Nella terminologia attuale con marmellata si intende una crema cotta di zucchero e agrumi a pezzetti (limone, arancia, mandarino, e più raramente di pompelmo, clementina, cedro e bergamotto).
La confettura indica la stessa preparazione riferita agli altri tipi di frutta.
La gelatina di frutta viene prodotta con zucchero e succo della frutta, senza polpa o buccia, ed è maggiormente usata in pasticceria per apricottare i dolci prima di glassarli. Compare anche come ingrediente di creme dolci.
La legge prevede che la percentuale di frutta non debba scendere, in ogni caso, sotto il 20%.
Marmellata, confettura o gelatina vengono definite extra se il tenore di frutta è di almeno il 45% e solitamente ne hanno il 35% o 40%.
La composta di frutta si distingue dalla marmellata o dalla confettura per il maggior contenuto di frutta e conseguentemente il minor quantitativo di zucchero aggiunto. La percentuale di frutta deve essere, per legge, superiore al 65%.[
Procedimento
La frutta viene mondata delle parti di scarto, tagliata a pezzetti e cotta a lungo nello zucchero sino a che diventa cremosa. Viene quindi messa, bollente, in barattoli. Una volta tappati il calore residuo del composto si occupa di sterilizzarli. La marmellata viene consumata dopo qualche tempo dalla preparazione.
L'aggiunta di piccole quantità di pectina riduce drasticamente i tempi di cottura necessari per ottenere l'addensamento, portandoli da ore a minuti; per tale motivo è comunemente utilizzata nella produzione industriale ma può facilmente essere reperita anche per uso domestico. Viene quindi messa (bollente) in barattoli, subito tappati e messi capovolti (dalla parte del tappo) in mezzo a coperte fino a raffreddamento (questa operazione serve per sterilizzare, con il calore del composto, anche la parte interna del tappo, evitando la formazione di muffe). La piccola quantità di aria che rimane nel barattolo, raffreddandosi, diminuisce di volume e si forma quindi il sottovuoto.
Oggi la produzione industriale inscatola marmellate usando esclusivamente il metodo del sottovuoto e con doppia sterilizzazione: questa tecnica, eseguibile anche in ambito casalingo, evita la crescita di muffe. Il botulino invece non può svilupparsi nella marmellata né nelle confetture perché il loro tenore di zucchero è letale per questo batterio anaerobico; le contaminazioni da botulino nei prodotti casalinghi sono spesso riscontrabili nei sottoli. Lo zucchero o miele rappresenta circa il 40-50% del peso totale: la marmellata è sostanzialmente metà frutta e metà zucchero.

ZABAIONE

12 tuorli,
1 lt marsala,
100 ml di alcool per liquori,
1 kg di miele di acacia.
Montate i tuorli con il miele, aggiungendolo gradualmente. Incorporate il marsala e l'alcool. Amalgamate bene il tutto e passate al setaccio. Imbottigliate e conservate al fresco. Si serve freddo o caldo.

crema ganache
CREMA GANACHE

Panna fresca da montare 250 ml
Cioccolato fondente grattugiato 250 gr
Burro 30 g
Ponete in un tegame capiente la panna fresca e il burro e portate quasi ad ebollizione a fuoco basso avendo cura di porre sotto al tegame una retina spargifiamme; quando la panna sarà a un passo dal bollore, togliete il tegame dal fuoco e aggiungete il cioccolato fondente grattugiato, mescolando con una frusta fino al completo scioglimento e raffreddamento del composto. Mettete la pentola a bagnomaria nell’acqua fredda contenente del ghiaccio e con uno sbattitore elettrico montate il composto, fino a quando diventerà cremoso, denso e solido (ci vorranno almeno 10 minuti). Se la crema non diverrà abbastanza solida, ponete il tegame in freezer per qualche minuto, poi riprendete la crema con lo sbattitore; la crema ganache ha la particolarità di diventare molto dura se posta nel frigorifero e molto morbida se lasciata a temperatura ambiente; vicino a fonti di calore si scioglie liquefacendosi.

crema bavarese
CREMA BAVARESE

latte
uova
zucchero
panna
gelatina
Nei budini che derivano dalla famiglia dei bavaresi la base è costituita da crema inglese: si porta ad ebollizione il latte con lo zucchero e vi si scioglie la colla di pesce precedentemente ammollata, cioè ammorbidita. Si sbattono i tuorli e gli altri ingredienti, incorporando da ultimo il latte zuccherato. Quindi si mette in casseruola il composto e lo si cuoce senza far bollire, mescolando a lungo. Una volta cotto si lascia intiepidire mescolando di tanto in tanto, quindi si versa in uno stampo imburrato e si pone in frigo per ore, sino a che sia completamente freddo e ben rappreso. La preparazione segue le stagioni e vede l'aggiunta, a seconda di quanto è disponibile, di ingredienti diversi: frutta fresca o candita, confettura o marmellata, cioccolato o aromi diversi dalla vaniglia, caffè e così via. Può essere servita come dolce al cucchiaio, essere usata come farcitura o fare da base per preparazioni più elaborate.
La crema bavarese, o più semplicemente bavarese, è un dessert che viene preparato a partire da una crema inglese cui si amalgama gelatina o colla di pesce e si aggiunge panna, che viene incorporata alla fine.  Il dessert prende il nome dalla regione tedesca della Baviera. Va notato come comunemente si tenda ad utilizzare il nome bavarese preceduto dall'articolo femminile, magari sottintendendo la parola crema: la bavarese. Tuttavia il termine corretto sarebbe al maschile, in quanto deriva dal francese bavarois e perché potrebbe essere sottintesa la parola budino: budino bavarese. La bavarese vera e propria, però, non è un dolce, ma una bevanda di origine tedesca composta da tè, latte e liquore importata in Italia come bevanda all'inizio del 1700 dai cuochi francesi al servizio dei Wittelsbach, casa regnante di Baviera. Nel secolo successivo, in Francia, nacque il dolce bavarese, ispirato appunto alla bevanda bavarese.

panna cotta
PANNA COTTA

Vaniglia 1 baccello
Colla di pesce 6 g
Panna fresca liquida 500 ml
Zucchero a velo 150 gr
Per realizzare la panna cotta, per prima cosa mettete a mollo i fogli di colla di pesce in acqua fredda per 10 minuti e tagliare nel senso della lunghezza la bacca di vaniglia, estraete i semi e tenete da parte. Mettete in un pentolino la panna, aggiungete la bacca di vaniglia incisa e i suoi semi (se non gradite l’aroma di vaniglia potete aromatizzare con la scorza di limone), lo zucchero al velo e scaldate a fuoco basso il tutto, ma senza far bollire; strizzate bene la colla di pesce che si sarà ammorbidita e immergetela nella panna, quindi mescolate fin quando non si sarà sciolta completamente. A questo punto, filtrate il composto per mezzo di un colino a maglie strette in modo da trattenere la bacca di vaniglia. Ora preparate 4 stampini individuali della capacità di 125 ml oppure uno stampo unico a cassetta della capacità di circa 500 ml; bagnate l'interno degli stampini con acqua (oppure se preferite con un liquore per aromatizzare tipo il rhum), questa operazione serve per poter estrarre meglio la panna cotta una volta rassodata. Versate dentro la panna cotta aiutandovi con un mestolo. Mettete la panna cotta in frigorifero a rassodare per almeno 5 ore e, al momento di servirla, immergete lo stampo per qualche secondo in acqua bollente, poi sformatela sul piatto da portata: servite al naturale, con caramello, con cioccolato fuso, o con una coulis di frutta fresca.

BUDINO

Il budino, o bodino, è una preparazione alimentare, solitamente servita come dessert alla fine del pasto. Il budino è composto da una parte liquida, generalmente costituita da latte, da zucchero e da vari ingredienti o aromi che gli danno il gusto desiderato: frutta, cioccolato, nocciole, caramello, liquori, vaniglia ed altri ancora. A questi si uniscono spesso degli ingredienti che servono a legare il composto, cioè a renderlo più corposo e solido. I leganti sono frequentemente farina di grano, fecola di patate, semolino, riso, uova, gelatina animale (nota come colla di pesce) oppure carragenina. Per prepararlo si seguono tecniche diverse a seconda del tipo.
La famiglia dei crème caramel
Nei budini che derivano dalla famiglia dei crème caramel si sbattono insieme a freddo uova, latte, zucchero, ed eventuali altri ingredienti quali amaretti, rum, cacao, vaniglia. Si pone sul fuoco lo stampo in cui il budino andrà cotto, vi si versa dentro dello zucchero e lo si fa caramellare coprendo fondo e pareti. Si travasa il composto di latte e uova nello stampo e si cuoce a bagnomaria sino a che si sia rappreso. Si lascia quindi raffreddare, dal momento che il dolce si gusta rigorosamente freddo. A questa famiglia appartengono il crème caramel, il bônet, la crema rovesciata e le loro variazioni sul tema. Nei primi due il legante è costituito da uova, mentre nella crema rovesciata è costituito da panna.
La famiglia dei bavaresi
Nei budini che derivano dalla famiglia dei bavaresi la base è costituita da crema inglese: si porta ad ebollizione il latte con lo zucchero e vi si scioglie la colla di pesce precedentemente ammollata, cioè ammorbidita. Si sbattono i tuorli e gli altri ingredienti, incorporando da ultimo il latte zuccherato. Quindi si mette in casseruola il composto e lo si cuoce senza far bollire, mescolando a lungo. Una volta cotto si lascia intiepidire mescolando di tanto in tanto, quindi si versa in uno stampo imburrato e si pone in frigo per ore, sino a che sia completamente freddo e ben rappreso. La preparazione segue le stagioni e vede l'aggiunta, a seconda di quanto è disponibile, di ingredienti diversi: frutta fresca o candita, confettura o marmellata, cioccolato o aromi diversi dalla vaniglia, caffè e così via. A questa famiglia appartengono bavarese, panna cotta e i budini casalinghi, inclusi quelli che si comprano in preparati liofilizzati in busta. Questi ultimi permettono di preparare budini in gusti semplici quali vaniglia o cacao. Tuttavia il gusto resta non paragonabile a quello del dolce fresco. Questo anche considerando che tutti gli ingredienti, ad eccezione del latte che va aggiunto fresco da chi prepara il dolce, sono secchi e si conservano a temperatura ambiente.
Origine della bavarese e del bavarese
Va notato che comunemente si definisce il dessert al femminile: la bavarese. Tuttavia il termine corretto è al maschile, in quanto deriva dal termine francese bavarois e perché sottintende la parola budino: budino bavarese.
La bavarese vera e propria è, infatti, una bevanda tipica della Francia e di là diffusa in tutte le zone d'oltralpe. È un mangia-e-bevi, solitamente caldo, composto di tè, latte e liquore. Si ritiene che sia stato introdotto verso i primi del Settecento dai cuochi francesi al servizio dei Wittelsbach, casa regnante di Baviera. Dalla casa regnante la preparazione ebbe il nome.
Procopio Coltelli contribuì a lanciarla a Parigi, grazie al famosissimo Cafè Procope, nato nel 1686. Dalla bevanda si origina, all'inizio dell'Ottocento, il dolce che conosciamo oggi e che venne chiamato bavarois o formaggio bavarese, poiché
La famiglia dei flan
Sono probabilmente tra le forme più antiche di budino, dal momento che ci sono riportate ricette dell'antica Roma di dolci a base di creme con uova, miele e latte, cotte e legate da farina. Tuttavia le ricette più comuni dell'epoca, molto probabilmente di derivazione greca, erano salate e quelle dolci erano un'eccezione. Dal momento che gli alimenti a base di uova erano considerati ricostituenti e molto salutari, le preparazioni ebbero fortuna e si diffusero, durante il Medioevo, in tutta l'Europa, tanto che si ritrovano spesso nei ricettari anche molto antichi, come il De Honesta Voluptate di Platina, datato 1476.
Etimologia del nome flan e sue accezioni
L'attuale parola Flan viene dal francese antico flaon a sua volta derivato dal latino flado che significa crema. Secondo Alan Davidson, Oxford Food Companion, la medesima radice latina del nome fu usata dell'inglese medioevale dando origine ai termini flaton e flawn. A seconda dei paesi con il termine flan si intendono preparazioni leggermente diverse. In inglese indica una crostata, probabilmente perché nel Medioevo i flan venivano spesso presentati come patinae, cioè su una base di pasta cotta, chiusa o aperta che fosse, esattamente come le nostre moderne crostate. In spagnolo e portoghese indica preparazioni come la crème caramel. In italiano indica preparazioni salate cotte in stampo a bagnomaria, a base di besciamella e con una presenza di uova abbastanza ridotta. Di derivazione francese, sono molto diffusi nei territori che subirono l'influenza della Francia, come il Piemonte. Qui è tipico, ad esempio, il flan di cardi o di topinanbur con Bagna càuda e di asparagi, eventualmente con fonduta. In generale, quindi, per flan si può anche intendere uno sformato, generalmente di verdure, piuttosto che un vero e proprio dolce.
La famiglia delle creme in tazza
Chiude la famiglia dei flan quella delle creme in tazza: semplici creme che vengono tenute ben legate e di una certa consistenza e presentate in formine, come fossero budini. Anche questo tipo di preparazione è molto antica. Le creme in tazza possono essere quelle classiche come crema pasticcera, crema frangipane, crema di tapioca oppure essere passati di alcuni frutti, come le castagne. Possono anche essere a base di cereali (cui si accompagnano solitamente canditi), come il riso o, più raramente, il grano cotto.
Oggi le forme più diffuse di creme in tazza sono la crema catalana e i suoi derivati. Questa è una crema pasticcera alla vaniglia con copertura di zucchero che si fa caramellare a fiamma viva al momento di servire in tavola, solitamente in coppette individuali. La ricetta, che vede aggiunte di mandorle, pistacchi, limoni e frutti vari, è tipica della Spagna, del Portogallo e delle terre che furono ai due soggette, come il Messico e alcune colonie.
Un'altra ricetta molto antica, tipica del Piemonte, è il Montebianco, un passato di castagne cotte in acqua e zucchero, spremute in tazza con una tasca da pasticcere e guarnite di panna montata. Lo scuro delle castagne ricorda la terra, la panna la neve, la forma una montagna: di qui il nome Montebianco.
Presentazione e guarnizione
Quale che sia la ricetta, il budino viene solitamente preparato in uno stampo grosso o più stampi piccoli, variamente decorati, e a forma di tronco di cono od a punta emisferica, in ogni modo il problema tecnico è quello di far fluire l'aria per evitare fratture del dolce. Si può servire accompagnato o decorato da piccoli biscotti secchi di pasticceria, quali le lingue di gatto o gli amaretti, con creme come la panna montata o con frutta fresca, specie se frutti di bosco.

GRANITA ALLA FRUTTA

Gli ingredienti di una granita sono frutta, acqua (nella stessa quantità della frutta), zucchero (il 20% della quantità della frutta e dell’acqua), un foglio di gelatina per ogni chilo di prodotto. Proviamo a fare una granita al melone. Prendete un melone maturo e togliete i semi. Pesatelo = 
500 grammi. Tagliate il melone a pezzi e mettetelo in una bacinella. Aggiungete 500 grammi di acqua b(pari al peso della frutta). Utilizzando un frullatore a immersione (tipo Minipimer) frullate bene la frutta. Prendete una mestolata di liquido e, a parte, sciogliete un foglio di gelatina (per 500 grammi di frutta e 500 grammi di acqua è sufficiente). Lasciatelo gonfiare una decina di minuti a freddo, e poi scaldate piano (non superate i 40 gradi), mescolando, sino a quando la gelatina si è disciolta. Rimettete il liquido con la gelatina nella ciotola e aggiungete 200 grammi di zucchero (il 20% di 1 chilo). Mescolate bene con un cucchiaio sino a quando lo zucchero è disciolto tutto. Riponete in freezer e ogni 30 minuti tiratelo fuori per raschiare il ghiaccio dalle pareti e rimescolare. Quando la granita ha la consistenza desiderata (più o meno acquosa secondo i gusti) potete servirla.

GELATI E SORBETTI

Tecniche di base per gelati cremosi e alla frutta
La preparazione del gelato artigianale si basa su cinque processi fondamentali: la preparazione della miscela di base, la pastorizzazione, la maturazione, la mantecatura e il rassodamento finale. Nelle preparazioni casalinghe alcuni di questi passaggi vengono talvolta elusi, in particolare la pastorizzazione e la maturazione, anche se le difficoltà connesse a tali operazioni non sono eccessive: è infatti sufficiente un po’ di pazienza per ottenere prodotti più fini e cremosi. Miscele di base del gelato cremoso Se desiderate preparare gusti diversi (in un arco di tempo non superiore a 2 giorni), anziché realizzare ogni volta le singole preparazioni, potete adottare la tecnica dei gelatai. I produttori di gelato artigianale generalmente preparano due miscele di base e da queste ricavano tutti gli altri gusti: la base bianca e la base gialla.
Nella preparazione dei gelati è importante comprendere un concetto fondamentale: affinché il gelato incorpori la giusta quantità di aria, non granisca, non unga il palato e si mantenga stabile nel tempo, occorre bilanciare nel modo migliore le diverse quantità di zuccheri, lipidi, componenti solidi e sostanze anticongelanti. I componenti delle miscele dei gelati cremosi sono generalmente compresi tra i valori seguenti: acqua al 60-65%; zucchero al 16-20%; lipidi al 5-10%; solidi del latte (esclusi i grassi) all’8-10%; solidi totali al 35-40%. Conoscendo la composizione chimica degli ingredienti, è già possibile preparare una miscela ben bilanciata.
Base bianca
1 l di latte fresco
2 dl di panna
240 g di zucchero
50 g di destrosio
50 g di latte magro in polvere
Da questa base, corrispondente al classico gusto “fior di latte”, tramite l’aggiunta di vari ingredienti si possono ottenere diverse varianti (stracciatella, torroncino, cassata, croccantino, nocciola, caffè, meringa, bacio, cocco, pistacchio, yogurt). La ricetta proposta di seguito prevede l’utilizzo di un numero limitato di ingredienti e consente di ottenere un prodotto finale caratterizzato da un discreto potere anticongelante e sufficientemente “magro” (zucchero al 18,6%, lipidi al 6,5%, solidi del latte non grassi al 9,7%, solidi totali al 34,8%); quest’ultima caratteristica consente di agevolare il bilanciamento dei valori al momento di preparare i diversi gusti. La maggior parte degli ingredienti che vengono aggiunti a questa base presenta infatti quantità elevate di lipidi e sostanze solide (basti pensare, per esempio, alla frutta secca e al cacao).
Per la pastorizzazione della miscela: versate in una casseruola zucchero, destrosio e latte in polvere, quindi aggiungete il latte fresco e amalgamate con una frusta. Ponete sul fuoco e, mescolando di tanto in tanto, portate la miscela alla temperatura di 85 °C: dopo qualche secondo togliete dal fuoco, unite la panna e fate raffreddare il più velocemente possibile (eventualmente mettendo la preparazione in un bagnomaria con acqua e ghiaccio). Per la maturazione della miscela: quando la base ha raggiunto la temperatura ambiente, mettetela in frigorifero per almeno 5-6 ore o, ancor meglio, 12 ore: durante questo periodo ricordate di mescolare periodicamente la miscela.
Trucchi e consigli
La procedura più corretta per la preparazione della miscela richiede l’aggiunta degli elementi solidi solo quando i liquidi in fase di riscaldamento hanno raggiunto la temperatura di 35-40 °C; questo accorgimento è però necessario solo quando si preparano grandi quantità di miscela. Per migliorare la struttura del prodotto, i gelatai aggiungono generalmente 5 g di stabilizzante per ogni litro di latte. La pastorizzazione è un’operazione fondamentale (obbligatoria in gelateria), poiché riduce drasticamente la carica batterica e permette di conservare la miscela fino a 3 giorni alla temperatura di 2-4 °C; inoltre il riscaldamento consente di sciogliere le componenti solide. La pastorizzazione può essere effettuata anche mantenendo la miscela a 65 °C per 30 minuti. La fase di maturazione serve principalmente a migliorare l’idratazione delle sostanze solide, grazie a una graduale azione delle proteine del latte: questo processo consente di ridurre la formazione di cristalli di ghiaccio grossolani durante il raffreddamento.
Base gialla
1 l di latte fresco
1 dl di panna fresca
8 tuorli (150 g)
250 g di zucchero
50 g di destrosio
50 g di latte magro in polvere
1 baccello di vaniglia
È il tradizionale gusto crema, utilizzato come base nella preparazione di mascarpone, spagnola e zabaione. La ricetta proposta è molto semplice, con una quantità non eccessiva di lipidi (zucchero al 18,5%, lipidi al 7,1%, solidi del latte non grassi al 9%, solidi totali al 36,4%). Il procedimento è identico a quello della crema all’inglese.
Per la pastorizzazione e la maturazione della miscela: incidete il baccello di vaniglia nel senso della lunghezza, ponetelo in una casseruola dal fondo spesso insieme con il latte fresco e portate il tutto a bollore. Nel frattempo sbattete i tuorli in una bastardella con i due tipi di zucchero fino a rendere il composto cremoso e chiaro, quindi incorporate il latte in polvere. Versate a poco a poco il latte bollente sul composto, mescolando con una frusta e facendo attenzione a non creare troppa schiuma. Trasferite il tutto nella stessa casseruola in cui avete bollito il latte e ponetela sul fuoco a calore moderato, mescolando costantemente con una spatola. Portate la miscela alla temperatura di 85 °C, togliete dal fuoco, unite la panna e fate raffeddare il più velocemente possibile. Prima dell’utilizzo, lasciate maturare la base per almeno 5-6 ore in frigorifero.
Preparare i gusti del gelato
Per preparare un gusto, occorre aggiungere alla miscela l’ingrediente caratteristico (in pasta oppure tritato molto finemente) più altri elementi, al fine di bilanciare i valori percentuali di zuccheri, grassi e sostanze solide. Ben diversa è infatti la composizione chimica del mascarpone e del gelato al caffè, ottenuta mediante il bilanciamento dei vari componenti previsti nella ricetta.
Il procedimento non è particolarmente complesso: per esempio, se desiderate ottenere il gusto cioccolato partendo dalla base bianca, dovrete aggiungere cacao (che apporta grassi e sostanze solide), zucchero e acqua (per riequilibrare i rapporti). È inoltre molto importante amalgamare accuratamente gli ingredienti che vengono aggiunti: può risultare utile omogeneizzare per circa 1 minuto il gusto preparato con il mixer a immersione. Per semplificare l’operazione, classifichiamo i gusti in due grandi gruppi (grassi e non grassi) e mostriamo nella tabella come bilanciare alcuni di essi (800 g di base corrispondono a metà dose). Mantecare e conservare il gelato Produrre da soli e conservare al meglio il gelato è piuttosto semplice: è infatti sufficiente adottare alcuni piccoli accorgimenti per non commettere errori banali e ottenere ottimi risultati.
Introducete la miscela ben fredda (3-4 °C) nella gelatiera, facendo attenzione a non superare i due terzi del contenitore, e azionate la macchina: mediante un veloce movimento questa omogeneizzerà e mantecherà la miscela, incorporandovi aria via via che questa acquista consistenza. La riuscita dell’operazione dipende dalla rapidità del congelamento: per ottenere un gelato con una struttura ben liscia, con piccoli cristalli distribuiti in modo uniforme, sono necessarie temperature di raffreddamento molto basse e una perfetta omogeneizzazione del prodotto. Per quanto riguarda le modalità e i tempi, seguite le istruzioni allegate alla macchina; è tuttavia preferibile lasciare mantecare la miscela un paio di minuti in più anziché per un tempo leggermente inferiore: la temperatura del gelato estratto dovrebbe essere di circa –8 °C. Una volta terminato il processo di mantecatura, dovrete lasciar rassodare il gelato in congelatore finché raggiungerà la temperatura di –12/–14 °C (se deve essere utilizzato immediatamente), oppure di –20 °C (se desiderate conservarlo). È importante che durante la conservazione il gelato venga mantenuto coperto affinché non assorba odori estranei e che la temperatura sia costante, poiché un eventuale innalzamento della stessa porterebbe allo scongelamento di una parte del prodotto e quindi alla formazione di grossolani cristalli di ghiaccio.
Preparare il gelato alla frutta
1 l di acqua
800 g di zucchero
200 g di destrosio
Come i gelati cremosi, anche quelli alla frutta sono preparati partendo da un’unica miscela, chiamata “base di frutta”. Si tratta di un composto generalmente privo di ingredienti di origine animale, preparato solo con zucchero e acqua: per questo motivo può essere conservato per più di 1 settimana. A questa miscela si aggiunge poi poco succo di limone e la purea del frutto o del vegetale che caratterizza il gelato.
Per la “base di frutta”: versate gli ingredienti in una casseruola e portate a bollore, mescolando frequentemente. Lasciate sobbollire il tutto per 2 minuti, schiumando all’occorrenza. Fate raffreddare la miscela e conservatela in frigorifero fino al momento dell’utilizzo. Per il gelato alla frutta: in un recipiente stretto e alto versate la purea di frutta prevista dalla ricetta, aggiungete il succo di limone, la miscela di base e l’acqua, se richiesta: frullate il tutto per 1 minuto con un mixer a immersione per amalgamare bene gli ingredienti, quindi versate il composto nella gelatiera e procedete come per i gelati cremosi.
Varianti di gelati alla frutta
Potete personalizzare le ricette stabilendo la quantità di frutta e il grado di dolcezza desiderato e calcolando le dosi mediante una semplice proporzione. Se, per esempio, desiderate ottenere un gelato alla fragola, con il 28% di zucchero e il 45% di frutta (i valori si riferiscono a una gelatiera in grado di mantecare 800 g di composto), potete calcolare la quantità di purea di fragole mediante una semplice operazione: 800 x 45% = 360 g. Per stabilire la quantità di zucchero totale, occorre invece eseguire il calcolo seguente: 800 x 28% = 224 g. Poiché le fragole contengono cica 5,3 g di zucchero ogni 100 g, 360 g di prodotto contengono circa 19 g di zucchero: dovrete aggiungere
quindi altri 205 g di zucchero. Se vi servite di una base di frutta al 50% di zucchero, per calcolare la quantità di miscela occorrente dovete semplicemente moltiplicare per 2: per 205 g di zucchero dovrete utilizzare 410 g di miscela di base. Generalmente occorrono circa 10 g di succo di limone. È necessario ora stabilire se servirà acqua per raggiungere 800 g di composto: addizionando la purea, la base di frutta e il succo di limone (360 + 410 + 10 = 780), riuscirete a stabilire che si devono aggiungere 20 g di acqua. 







 
COMPOSTA DI FRUTTA

La composta di frutta si distingue dalla marmellata o dalla confettura per il maggior contenuto di frutta e conseguentemente il minor quantitativo di zucchero aggiunto. La percentuale di frutta deve essere, per legge, superiore al 65%. 

candire la frutta
CANDITURA

La canditura è un metodo di conservazione di parti di piante commestibili (solitamente frutta) mediante immersione in uno sciroppo di zucchero. La parola "candire" viene dall'arabo qandat, trascrizione della parola in sanscrito khandakah ("zucchero"). I prodotti ottenuti mediante canditura si chiamano canditi o frutta candita.
Nel processo di canditura, per osmosi viene ridotto il contenuto in acqua della frutta e il contenuto in zucchero viene gradualmente portato a più di 70%. Le qualità nutrizionali della materia prima utilizzata vanno quasi del tutto perdute, anche se alcune vitamine si mantengono. La conservazione degli aromi dipende dal tipo di procedura e dall'abilità del dolciere: possono sparire quasi del tutto, come nei canditi di lavorazione industriale, ma anche addensarsi in un concentrato di aromi. L'opportunità che la canditura offre al pasticciere è infatti quella di poter effettuare l'intero ciclo di lavorazione a freddo, senza snaturare per effetto di riscaldamenti le componenti aromatiche dei frutti utilizzati.
Normalmente, si impiega zucchero di barbabietola, ma tutti gli zuccheri alimentari sono (almeno teoricamente) utilizzabili. Della frutta candita particolarmente pregiata si ottiene mediante canditura nel miele, in Italia esistono ancora pregiatissime preparazioni in cui la frutta è candita e conservata nel mosto cotto, una di queste è la saba o sapa dell'Emilia-Romagna.
Già le antiche culture della Cina e della Mesopotamia conoscevano la conservazione mediante zuccheri (sciroppo di palma e miele). Spesso era l'unico metodo di conservazione conosciuto: gli antichi Romani mantenevano addirittura il pesce immergendolo nel miele. I veri precursori della canditura moderna sono gli arabi, che servivano agrumi e rose candite nei momenti topici dei loro banchetti. Grazie ai mercanti veneziani prima e genovesi poi, la canditura si fece strada in Occidente, anche se già la Sicilia, tra il IX e XII sec., proprio grazie agli Arabi, la conosceva. I primi documenti che testimoniano l'uso di frutta candita in Europa risalgono al Cinquecento. All'epoca, i canditi venivano assimilati alle spezie. In Italia, diventano un ingrediente cardine di alcuni dei dolci più famosi della tradizione culinaria: tra questi, il panettone milanese e la cassata siciliana.
La materia prima viene posta in una vasca di canditura e coperta di sciroppo. Per osmosi, avviene uno scambio del liquido cellulare con la soluzione zuccherina. Dopo un certo periodo di tempo (da un giorno ad una settimana), lo sciroppo, ormai diluito, viene separato dalla materia prima e riscaldato al fine di fargli perdere acqua per evaporazione ed eventualmente rinforzato con aggiunta di altro zucchero. Arrivato alla concentrazione desiderata, lo sciroppo viene nuovamente versato sulla frutta. Questa operazione, chiamata giulebbatura (dall'arabo giulab, "acqua di rose"), viene poi ripetuta finché la concentrazione di zucchero nei canditi non si sarà stabilizzata. A questo punto questi possono essere consumati oppure conservati nello sciroppo di canditura fino al momento dell'utilizzo.
Per facilitare il processo osmotico, la frutta da candire viene porzionata; se si vuole candire un frutto intero, è necessario inciderlo o praticarvi dei fori con un ago. Anche una previa sbollentatura può essere utile per avviare l'osmosi.
I canditi possono ulteriormente essere ghiacciati, cioè ricoperti di uno strato di zucchero (canditi "alla parigina").
Vengono spesso utilizzate delle autoclavi di canditura: si tratta di recipienti a chiusura ermetica, dentro i quali frutta e sciroppo vengono tenuti a bassa pressione. Il punto di ebollizione risulta così abbassato a 55-60 °C. L'autoclave è riscaldata alla temperatura corrispondente, finché non si giunge, per evaporazione, alla concentrazione finale.
La temuta gommosità dei canditi industriali è dovuta ad un uso massiccio di glucosio, che evita il formarsi di cristalli anche ad elevate concentrazioni zuccherine. Inoltre, la grande industria fa uso massiccio di additivi alimentari (coloranti, aromatizzanti e conservanti), fino a snaturare il gusto della materia prima. Come conservante è ampiamente impiegato l'anidride solforosa e suoi derivati (E220-E229), approfittando anche del fatto che tali additivi per una legislazione tollerante non devono essere dichiarati se sono contenuti nella materia prima e non aggiunti durante la lavorazione.


ZUCCHERO ED EDULCORANTI

Il saccarosio è un composto chimico organico della famiglia dei glucidi disaccaridi, comunemente chiamato zucchero, sebbene quest'ultimo termine indichi un qualsiasi generico glucide (detto anche carboidrato o idrato del carbonio semplice), al quale appartiene anche il saccarosio. In relazione alla sua struttura chimica, il saccarosio è classificabile come un disaccaride, in quanto la sua molecola è costituita da due monosaccaridi, più precisamente glucosio fruttosio. A temperatura ambiente e pressione atmosferica si presenta sotto forma di solido (in cristalli) o disciolto in soluzione. Lo si trova largamente in natura, nella frutta e nel miele (in percentuale più bassa rispetto al fruttosio), sebbene, da sempre, esso si estragga dalle piante della barbabietola da zucchero (soprattutto in Europa) e dalla canna da zucchero (nel resto del mondo). Il saccarosio così estratto viene utilizzato nell'ambito dell'industria alimentare, specialmente dolciaria e pasticciera, prendendo il nome di comune zucchero da cucina (raffinato bianco oppure integrale "grezzo").
Storia
Già nel 5000 a.C. si produceva un succo zuccherino attraverso la bollitura e spremitura della canna da zucchero, che pare sia stata esportata dai polinesiani col nome di poba, dapprima in Cina e in India, quindi in Australia. Altre tracce storiche di tale lavorazione vi sono anche nell'America Latina del X secolo a.C. circa. In Europa, i persiani di Dario I nel 510 a.C. trovarono un vegetale dal quale si ricavava uno "sciroppo denso e dolcissimo". Fatto asciugare su larghe foglie, esso produceva cristalli che duravano a lungo, e dalle spiccate proprietà energetiche. I Persiani ne estesero la coltivazione a tutto il Medio Oriente.
Nel 325 a.C., Alessandro Magno portò la notizia che nei territori orientali si trovava un «...miele che non aveva bisogno di api». Furono però gli arabi, presso cui era già in uso nel VI secolo d.C., che ne estesero la coltivazione.
La canna da zucchero venne importata in Sicilia e in Spagna dagli Arabi nel IX secolo. Lo scrittore arabo Ibn Ankal scriveva: «Lungo la spiaggia, nei dintorni di Palermo, cresce vigorosamente la canna di Persia e copre interamente il suolo; da essa il sugo si estrae per pressione.» Nell'XI secolo, i Genovesi e i Veneziani presero ad importare modeste quantità di ciò che veniva chiamato "sale arabo", che le crociate resero ancora più diffuso. Federico II di Svevia provvide a far coltivare la canna da zucchero in Sicilia (ov'era già stata introdotta dagli arabi), ma lo zucchero restò per molto tempo una spezia rara e preziosa, venduta dagli speziali e dai farmacisti a carissimo prezzo come medicina in uso per sciroppi, impacchi ed enteroclismi. Solo i ricchi potevano permettersi di usarlo come dolcificante, anche se il suo più antico surrogato, il miele, non era certo prodotto in quantità tali da poter comparire sulla tavola della popolazione come un dolcificante di tutti i giorni.
Con la scoperta dell'America, gli spagnoli introdussero la coltivazione della canna da zucchero sia a Cuba che nel Messico, i portoghesi in Brasile, inglesi e francesi nelle Antille, in quei territori cioè dell'America centrale e meridionale che ancora oggi ne sono tra i maggiori produttori. Poiché lo zucchero delle Americhe era migliore e meno costoso, le coltivazioni spagnole e italiane scomparvero, insieme ai traffici con i territori arabi. Nacque un fiorente traffico d'importazione, che rese il prodotto, per quanto di lusso, più comune. Questo diede una spinta notevole all'arte culinaria, permettendo la nascita della pasticceria europea come arte autonoma, anche grazie al connubio di zucchero con cacao, con latte e con caffè.
I dieci maggiori produttori di zucchero da canna
Paese
Produzione (tonnellate)
Brasile
672.157.000
India
285.029.000
Cina
116.221.272
Thailandia
66.816.400
Pakistan
50.045.400
Messico
49.492.700
Colombia
38.500.000
Filippine
32.500.000
Australia
30.284.000
Argentina
29.000.000
Mondo
1.743.068.525
Nel 1575, l'agronomo francese Olivier de Serres osservò che un ortaggio comunissimo ed ampiamente coltivato, prevalentemente ad uso foraggio, la barbabietola (Beta vulgaris), se cotto produce uno sciroppo simile a quello della canna da zucchero, molto dolce. L'osservazione rimase tuttavia lettera morta e lo zucchero di canna rimase l'unico disponibile ancora per molto tempo. Nel giro di un secolo, tra il 1640 e il 1750, il consumo della sostanza triplicò, incentivando il fenomeno della tratta degli schiavi dall'Africa, che venivano catturati e deportati per lavorare nelle piantagioni.
Con l'ascesa di Napoleone, s'intensificarono i contrasti tra Francia e Inghilterra, che portarono ad un blocco delle importazioni inglesi (decreto di Berlino, 1806). Lo zucchero di canna, che giungeva in Europa via mare, sparì in breve tempo dagli scaffali dei negozi, poiché gli inglesi reagirono al blocco sequestrando a loro volta le navi dirette a porti francesi o dei loro alleati aderenti al blocco (in un secondo tempo si "limitarono" a costringere queste navi a passare da porti inglesi e pagare una forte tassa sul carico). Sulla spinta della necessità, gli europei si adoperarono per trovare un'alternativa. Nel 1747, il chimico tedesco Andreas Sigismund Marggraf era riuscito a dimostrare la presenza di saccarosio nelle barbabietole e alcuni decenni dopo il suo allievo Franz Karl Achard selezionò alcune varietà di barbabietola ad elevato contenuto zuccherino e ideò un processo industriale idoneo alla sua estrazione: è a lui che si deve il primo zuccherificio industriale, sorto a Kunern (Slesia) nel 1801.
Per espressa volontà di Napoleone, la produzione di zucchero da bieta fu incoraggiata in tutti i territori sotto il suo controllo e furono aperti altri stabilimenti in Francia, grazie anche ai perfezionamenti apportati dall'imprenditore francese Benjamin Delessert al procedimento di Achard.
Con il Congresso di Vienna (1814-1815) e la conseguente fine del blocco continentale, il "ritorno" dello zucchero di canna provocò un calo dei prezzi, mentre la produzione di quello dalla bieta non aveva ancora potuto raggiungere livelli quantitativi tali da farne scendere il prezzo alla portata di tutte le tasche. Il processo di coltivazione della bieta e di estrazione industriale dello zucchero subì quindi un arresto, stante la minor rimuneratività dell'investimento in stabilimenti ed in coltivazioni. Tuttavia il processo "sostitutivo" sul mercato europeo fu lento, ma inarrestabile e lo zucchero da bieta cominciò a far concorrenza a quello di canna dalla seconda metà dell'Ottocento; il fenomeno fu favorito anche dalla graduale abolizione dello schiavismo nei paesi dell'America ove veniva prodotto, che determinò un aumento dei costi di raccolta e lavorazione della canna e quindi anche del prodotto finito.
In Italia, negli anni '80 del novecento, l'industria zuccheriera, per contrastare la concorrenza crescente dei dolcificanti, diede luogo a una massiccia campagna pubblicitaria in cui si collegava l'utilizzo dello zucchero allo sviluppo cerebrale, ma senza alcun fondamento scientifico.

I dieci maggiori produttori di zucchero da barbabietole
Paese
Produzione(Tonnellate)       
Francia
35.066.600
Stati Uniti
26.779.200
Germania
25.919.000
Russia
24.892.000
Turchia
17.274.700
Polonia
10.849.200
Ucraina
10.067.500
Regno Unito
8.333.000
Paesi Bassi
5.735.000
Belgio
5.186.180
Mondo
209.393.000

Caramellizzazione
La caramellizzazione è un fenomeno di imbrunimento della frazione zuccherina del liquido sottoposto a trattamento termico che conferisce un colore ambrato allo stesso, trasformandolo così in caramello. Avviene a temperature superiori ai 100 °C, con formazioni di aromi e pigmenti. È un tipo di imbrunimento non enzimatico, in presenza di luce, calore, ossigeno, tracce di metalli durante la cottura degli alimenti, sostanze basiche, e un intervallo di pH compreso tra 3 e 10. Anche il sapore si modifica e vira verso un sentore di "strinato" peraltro apprezzato nel caso di diverse preparazioni gastronomiche utilizzanti zuccheri caramellati. In particolare da menzionare la ricerca di questo fenomeno durante la preparazione della base di mosto cotto per l'aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia e di Modena.
Temperatura di caramellizzazione
Zucchero       Temperatura
Fruttosio     110 °C
Glucosio     160 °C
Saccarosio   160 °C
Solitamente il caramello si ottiene mettendo in una casseruola di rame stagnato o di acciaio dello zucchero e un goccio d'acqua. Si porta il fuoco a fiamma media e si mescola sino a raggiungere i gradi di cottura dello zucchero desiderati: il Caramello chiaro, che si raggiunge a 160-170° o il Caramello scuro, che si raggiunge a 165-177°. Oltre tali temperature lo zucchero brucia divenendo amaro e inutilizzabile.


Il caramello chiaro è di colore biondo, simile a quello del miele di Acacia, e resta semiliquido. Viene utilizzato come salsa su dessert quali panna cotta, charlotte, creme in tazza o gelati, soprattutto se in coppa. Non mancano sue applicazioni anche nel salato, in accompagnamento a carni di maiale e talvolta di selvaggina, o verdure.
Il caramello scuro è di colore decisamente ambrato, e resta semiliquido per brevissimo tempo, cristallizzandosi nella forma in cui lo si è lasciato non appena si sia freddato. Viene utilizzato sostanzialmente solo in pasticceria per foderare le pareti di stampi dove si andranno a cuocere dolci quali il Bônet, la Crème caramel e simili. Nella cottura a bagnomaria che questi dolci richiedono, il caramello scuro penetra nel dolce stesso formando una sorta di crosticina. Quando non penetra si scioglie per effetto del calore in un liquido leggero color ambra. Il caramello scuro è anche alla base di dolci antichi quali i croccanti, e le varie noci pralinate.
La crosta del pane è croccante grazie alla caramellizzazione degli zuccheri della farina.
Il caramello scuro viene usato spesso per creare decorazioni a completamento di dolci o pasticceria minuta di una certa elaborazione. Tra le decorazioni più usate troviamo i cestini di filo, i pizzi, e vari tipi di copertura. I cestini di filo e i pizzi si ottengono con il medesimo principio: si fa colare un filo sottile di caramello sopra una forma opportunamente resa antiaderente, ad esempio il retro di una ciotola tonda. Cristallizzandosi, i fili mantengono la forma e possono venire usati come decorazioni o come piccoli contenitori di creme o frutta. I pizzi vengono solitamente eseguiti in piano, seguendo un disegno traforato: cuori, fiori, monogrammi sono i più usati.
In alcune preparazioni si desidera avere un caramello liquido, ma di gusto più deciso e di colore più scuro di quanto ottenibile con il caramello biondo: è spesso il caso dei gelati, delle bombe gelate, di alcune millefoglie. In questi casi si prepara un caramello scuro e, quando sia quasi cotto ed abbia raggiunto la sua consistenza sciropposa, vi si versa una pari quantità d'acqua bollente sopra. Il caramello scuro si scioglierà poco a poco, dando luogo ad una salsa variabilmente densa, che non cristallizzerà, conservandosi a lungo. Con la medesima tecnica si prepara il toffee, avendo cura di sostituire il latte all'acqua. Una comune variante alla ricetta, vede l'uso della panna liquida al posto, in tutto o in parte, del latte.
Il caramello come lo conosciamo oggi, è quello ricavato dallo zucchero della barbabietola raffinato, cioè il comune zucchero bianco da cucina. Tuttavia tutti gli zuccheri caramellano se sottoposti ad adeguato trattamento. Il miele caramellato è più lungo da ottenere dato il suo contenuto in acqua, ma dà luogo a preparazioni di gusto delicato e particolare, la più famosa delle quali è senza dubbio il torrone. Per caramellare il miele si lavora, di solito, a bagnomaria in un polsonetto.

Il caramello si scioglie con i succhi generati dal cibo e diviene salsa, con cui si avrà cura di spennellare la superficie della preparazione prima di servire. Questo produce una superficie più liscia, setosa e lucida. Tra i piatti più noti ricordiamo le carni in agrodolce, specie di maiale e di pollo, le carote caramellate e alcune verdure in agrodolce: zucchine, cipolline, rape. Alcune antiche ricette con la selvaggina di derivazione medioevale, sono state recentemente riscoperte e spesso usano una commistione di dolce e salato che talvolta vede l'uso della caramellatura. Possono essere stufate, arrostite o in crosta.
Un'altra tecnica frequentemente in uso è quella della caramellatura in cottura. È solitamente applicata a carni e verdura, cui spesso si accompagna una nota di agro, dando luogo ai vari piatti in agrodolce, molto amati in diversi paesi del mondo. È una caramellatura leggera, che si attua su cibi che cuociano a stufare. Si aggiunge dello zucchero o del miele alla preparazione e si continua la cottura a lungo ed a fuoco lento.
Inversione del saccarosio
Il saccarosio ha un potere rotatorio per la luce polarizzata di +66,5º; tuttavia l'idrolisi della molecola porta alla formazione di una soluzione 1:1 di glucosio e fruttosio che hanno rispettivamente potere rotatorio pari a +52,7º e −92º. Detta soluzione ha quindi un potere rotatorio di circa −20º. A causa di questo cambiamento di segno, la reazione prende il nome di "inversione". Le miscele di glucosio e fruttosio prendono dunque il nome di "zucchero invertito".
Lo zucchero invertito è una miscela di glucosio e fruttosio ottenuta dal saccarosio in seguito all'azione dell'invertasi o all'idrolisi catalizzata da acidi diluiti. È presente naturalmente nei succhi di alcuni frutti, principalmente quello d'uva.
Industrialmente si prepara trattando le soluzioni di saccarosio con acidi come l'acido solforico o l'acido cloridrico, oppure con l'utilizzo di enzimi, come l'invertasi, che agiscono senza l'aggiunta di acidi. In ambito alimentare viene convenientemente effettuata l'idrolisi utilizzando acido citrico, acido ascorbico o cremor tartaro.
Lo zucchero invertito si utilizza in sostituzione dello zucchero nella fabbricazione di marmellate, conserve, frutta sciroppata essendo più dolce di circa 1/4 del saccarosio; è utilizzato anche nella birra, nello zuccheraggio dei mosti e per mantenere l'umidità nel tabacco e nelle sigarette.
Lo zucchero invertito viene così definito in virtù delle sue proprietà fisiche. Il saccarosio ha un potere rotatorio specifico pari a +66,5°, il che significa che la rotazione della luce polarizzata avviene in senso orario. Se si analizza con un polarimetro lo zucchero invertito si nota invece una rotazione in senso antiorario, quindi invertita. Il potere rotatorio specifico dello zucchero invertito è infatti di -20,2°.
Estrazione
Dall'alto a sinistra, in senso orario: zucchero di canna bianco raffinato, non raffinato, marrone e non lavorato. A livello industriale, lo zucchero viene estratto principalmente dalla barbabietola da zucchero (in Europa) e dalla canna da zucchero (nel resto del mondo). La produzione di zucchero da altre fonti, quali ad esempio l'acero e la palma da dattero, riveste invece un ruolo minoritario.
Da tali vegetali si estrae il cosiddetto "sugo zuccherino", di colore bruno, ma le modalità con le quali lo si estrae sono differenti nei due casi, in quanto sono differenti le parti della pianta da cui viene estratto e le impurità che è necessario allontanare.
Canna

Raggiunta la maturità della pianta Saccharum officinarum, ne vengono raccolti i soli fusti, lavati e quindi macinati meccanicamente già nello zuccherificio industriale. Quindi ne viene estratto un liquido, detto "sugo", fluido e di colore bruno-scuro, e quindi immagazzinato. Gli scarti della canna vengono chiamati bagassa ed usati come concime o come combustibile organico naturale. Da qualche tempo, questi scarti vengono utilizzati anche per estrarne dell'alcol per il mercato di biocombustibile per i veicoli (specialmente in Brasile), tuttavia questi processi di estrazione sono ancora molto costosi
.
Barbabietola
Il fittone della pianta viene raccolto, lavato, selezionato e sminuzzato in piccoli pezzi bislunghi, di circa 4 cm, e di aspetto colore bruno scuro, detti cossettes o "fettucce". Vengono dunque spediti allo zuccherificio e passati al processo di "diffusione", e cioè posti sotto un flusso torrentizio di acqua molto calda, che estrae la gran parte delle sostanze, compresi gli zuccheri, e generando anche qui il "sugo" di colore bruno-scuro. Il sugo poi viene purificato per mezzo di calce e di anidride carbonica, quindi viene filtrato. Il sugo che si ricava viene decolorato e concentrato. La massa cotta viene centrifugata e si ottiene lo zucchero grezzo. Lo zucchero grezzo successivamente viene raffinato e assume un colore bianco. I residui delle biete passate vengono usati, poi, come mangime per animali o fertilizzante per piante.
Tipi di zucchero
Esistono in commercio vari tipi di zucchero:
zucchero agglomerato: quando è ancora umido gli viene dato la forma a zolletta ed essiccato;
zuccheri macinati e setacciati: in uscita alla raffinazione lo zucchero viene macinato e setacciato, la parte più grossolana è lo zucchero semolato mentre quella più fine viene ulteriormente macinata e diviene zucchero a velo;
zuccheri speciali: fanno parte di questa categoria gli sciroppi (soluzioni acquose al 70%), lo zucchero candito (zucchero in cristalli di 1-2 cm) e lo zucchero istantaneo (zucchero molto solubile ottenuto portando a secchezza uno sciroppo di elevata purezza).
In relazione al tipo di materia prima utilizzata per la sua produzione, si hanno i seguenti tipi di zucchero: zucchero di canna, zucchero di barbabietola, zucchero d'acero, zucchero di palma, zucchero di cocco, zucchero non raffinato: jaggery e muscovado.


EDULCORANTI
Un edulcorante (o dolcificante) è una sostanza usata per addolcire alimenti o altri prodotti destinati all'uso orale (ad esempio un collutorio o farmaci altrimenti amari). Alcuni tipi si trovano in natura, altri vengono prodotti in laboratorio. Gli edulcoranti intensi sono ingredienti con un potere dolcificante di gran lunga superiore allo zucchero, solitamente tra le 150 e le 600 volte superiore al saccarosio (normale zucchero da cucina, utilizzato come termine di paragone standard). Altri dolcificanti, come il neotamo, hanno un potere dolcificante addirittura migliaia di volte superiore al saccarosio. Il contenuto calorico è variabile, ma siccome sono utilizzati in dosi minime, apportano tutti una quantità calorie vicina allo zero.
In epoca moderna lo zucchero, ricavato dalla barbabietola o dalla canna, ha avuto la parte del padrone tra i dolcificanti, mentre il primo edulcorante ipocalorico, la saccarina, è stato scoperto nel 1879 da Constantin Fahlberg.
La saccarina è stata utilizzata come sostituto dello zucchero nei momenti di scarsità, come durante la prima guerra mondiale, ma l'alternativa ha suscitato un'attenzione piuttosto scarsa per oltre un secolo, mentre fu molto pubblicizzata con l'introduzione dell'aspartame, prodotto dalla Searle.
Nel ventesimo secolo si è assistito a un cambio delle possibilità di alimentazione oltre che delle condizioni di vita della popolazione occidentale, per cui i problemi legati alla sottonutrizione sono praticamente scomparsi, mentre sono aumentati il sovrappeso e l'obesità. Le persone affette da questi problemi devono ridurre il valore calorico della loro dieta, ma desiderano comunque i cibi dolci; per questa ragione ricorrono spesso all'uso di dolcificanti ipocalorici. Oltre a questo bisogna dire che il gusto di questi dolcificanti è molto migliorato nel tempo grazie a nuove sostanze scoperte e alla messa a punto di miscele di vari edulcoranti semplici, che riescono a dare un senso di dolcezza maggiore della somma delle loro parti.

Potere edulcorante
I principali edulcoranti intensi
Edulcorante
Anno
Codice
Potere edulcorante
Note sul sapore
Sucralosio
1976
E955
600

Monellina
1969

1500

Miracolina
1968

2000-3000

Acesulfame K
1967
E950
130-250
retrogusto amaro
Aspartame
1965
E951
100-250

Ciclamato
1937
E952
30-80

Stevioside
1931
E960
300

Saccarina
1879
E954
300-500
retrogusto amaro

Miti culinari: le virtù dello zucchero di canna
Si dice che lo zucchero di canna faccia meglio. Il saccarosio, il comune zucchero da tavola, viene estratto sia dalla canna da zucchero sia dalla barbabietola da zucchero. La molecola estratta è esattamente la stessa. Identica. Uguale. Indistinguibile.
Diversi sono però i residui: quelli della barbabietola non sono molto gradevoli e sono completamente purificati, quelli presenti nella canna da zucchero invece sono apprezzabili al palato. Lo zucchero di canna quindi può subire vari gradi di raffinazione dallo zucchero bianco, identico a prodotti più scuri. Quello in bustine che troviamo al bar, con cristalli ben visibili e leggermente giallognoli, è del tipo:
Turbinado (Isole Hawaii) o Muscovado (Barbados) o Demerara (Isole Mauritius)
Dal punto di vista calorico questo prodotto è praticamente identico al normale zucchero bianco e a volte viene addirittura prodotto a partire da questo, a cui viene aggiunta a posteriori una piccola percentuale di melassa per colorarlo. Chiariamo anche che il saccarosio cristallino puro è bianco, bianchissimo. E non si usano certo dei coloranti per renderlo bianco, come invece si legge in molti articoli allarmistici in rete e completamente privi di senso. Spesso, sul web, si legge che lo zucchero grezzo di canna sarebbe ricco di minerali per cui sarebbe più salutare di quello raffinato. In effetti il loro contenuto è bassissimo rispetto alla quantità ingeribile di zucchero. Insomma, quello dello zucchero di canna “migliore” di quello bianco è un mito. Come dice anche un opuscolo dell'INRAN: l'Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione.
Invece sul certo web antagonista, vengono spesso decantate le lodi allo zucchero di canna grezzo o a quello integrale. Trattare meno la pianta invece non è detto che dia sempre dei vantaggi. In realtà la pianta "se ne frega" di  noi, la "Natura benigna" non esiste, le sue componenti tossiche possono prevalere. Quindi, solitamente, il saccarosio "raffinato" è meglio.
Diverso è il discorso gastronomico. Avendo appurato che al momento non vi sono validi motivi nutrizionali o salutistici per preferire lo zucchero più o meno grezzo o integrale a quello raffinato, ve ne sono di più prettamente culinari? Certamente. O meglio, i due hanno proprietà un poco diverse e quindi a volte può essere più conveniente utilizzare l’uno o l’altro. Per prima cosa lo zucchero integrale ha un retrogusto e un aroma differente, dovuto alla presenza della melassa. Quel gusto leggero simile alla liquirizia può dare un tocco particolare a certi dolci. Lo zucchero bruno più igroscopico assorbe più acqua mantenendo più umide le torte. Biscotti che con lo zucchero bianco sarebbero friabili e rigidi, diventano morbidi e un poco gommosi se si utilizza lo zucchero integrale. Ciò però sarebbe deleterio per le meringhe.
Miti culinari: lo zucchero veleno bianco
L'eccesso di consumo di zucchero può dare problemi ma c'è chi considera lo zucchero raffinato un vero e proprio "veleno bianco". In alcuni blog scritti da incompetenti si cerca di spaventare il lettore con l’uso di parole quali "perdita e distruzione", "velenosissimo acido", "complesse trasformazioni industriali", "cancerogeno". Carbone attivo, anidride solforosa, calce. In realtà se rimangono dei riflessi giallognoli dovuti alla presenza di melassa, si eliminano utilizzando dell'innocuo carbone attivo, che viene utilizzato anche negli acquedotti per rendere potabile l'acqua dei nostri rubinetti. Il "velenosissimo acido solforoso" (in realtà anidride solforosa) viene comunemente utilizzata come conservante. Il vino la contiene naturalmente specie nei vini dolci e spumanti in quantità almeno dieci volte superiori a quelli dello zucchero. La calce poi si usa, tradizionalmente, per trattare le olive e vari altri alimenti.
Ma chi sono i "terroristi dello zucchero"? Quei siti web che cercano di guadagnare lettori, e soldi, parlando di complotti e scagliandosi contro qualche sostanza o alimento. Il cattivo maestro di tanta letteratura allarmistica è Günter Schwab autore de "La Cucina del Diavolo" che riesce a totalizzare un filotti di sciocchezze a mazzi. Sul saccarosio si legge “Lo zucchero, quale prodotto naturale "vivo" è nutrimento necessario e di valore completo, insuperabile e insostituibile per le necessarie sostanze plastiche minerali, che contiene in forma organica" "Negli zuccherifici però viene sottoposto ad un lungo e complicato processo industriale" "Il prodotto così ottenuto, già senza vita, passa quindi alla raffineria. Il risultato finale di questo processo complicato è una sostanza chimica chiamata saccarosio, smerciato nei negozi come zucchero cristallino, in polvere, a quadretti, in pani o candito. Ecco che, con scaltrezza e perfidia, abbiamo ridotto a strumento di morte una sostanza vivente della natura". La strategia è quella di voler descrivere il prodotto di partenza come se fosse un organismo vivo, ciò è completamente privo di senso, ma che l’industria cattiva rende morto, uccidendo e sottraendo tutte le sostanze vitali e le vitamine presenti in origine. Quindi lo zucchero raffinato è "strumento di morte", e se ingerito dagli esseri umani fornisce calorie vuote o nude, cioè se ingerito consuma vitamine e sali minerali già presenti nell’organismo per riequilibrare le perdite subite. E siamo alla follia. Defecheremmo allora canne e barbabietole?
La cosa più ridicola è che suggerisce di utilizzare lo zucchero di canna grezzo, che è chimicamente e nutrizionalmente equivalente allo zucchero bianco tanto vituperato e subisce comunque trasformazioni tanto quanto lo zucchero bianco. Ovviamente una componente fondamentale per rendere credibile affermazioni così assurde è la multinazionale cattiva che su molte persone ha una presa incredibile. Basta davvero un po' di "complottismo" per riuscire a far credere qualsiasi cosa? Parrebbe di sì.

MIELE

Esistono due tipologie di miele prodotto dalle api: il miele prodotto partendo dal nettare dei fiori e quello prodotto dalla melata che si trova principalmente sulle foglie delle piante.
La produzione del miele di nettare segue il periodo delle fioriture e termina quindi ad agosto.
Le api bottinatrici raccolgono il nettare nella sacca mellifera dopo averlo diluito con la saliva ghiandolare.
Con passaggi da un'ape all'altra (la trofallassi) lo arricchiscono di enzimi, trasformandolo in miele.
Questo viene "asciugato" dalle api ventilatrici per rimuoverne l'eccessiva umidità e immagazzinato nelle celle esagonali del favo, ciascuna chiusa con un opercolo di cera prodotto dalle api ceraiole.
Il miele di melata deriva, invece, dalla linfa delle piante rielaborata da insetti parassiti come afidi e cocciniglie. La melata attira le api come il polline, perché è molto zuccherina.
La produzione del miele di melata avviene dopo le fioriture estive.
In Italia i mieli prodotti sono:
·        i multifloreali specificatamente il millefiori
·        gli unifloreali di acacia, castagno, erica, melata e tiglio.

Il miele di acacia
colore chiaro, trasparente
dolce e delicato, vanigliato
tenue e floreale
molto ricco in fruttosio
liquido
non altera il sapore dei cibi con cui viene abbinato

Il miele di castagno
scuro, da ambrato a quasi nero
intenso che tende all'amaro
forte e pungente
molto ricco in principi minerali e di polline
fluido, ma corposo
ottimo ricostituente

Il miele di erica arborea
ambrato con tonalità arancioni
intenso e persistente, d'anice
caramellato
miele primaverile, tipico di pochissime zone del levante
pastoso
diuretico e antireumatico

Il miele di melata
scuro, con tonalità dal rossastro all'ebano
poco dolce, a volte leggermente salato
vegetale
ricchissima di sali minerali
vischioso
antibatterico e antisettico

Il miele di tiglio
dall'ambra giallognolo allo scuro rossastro
balsamico, con leggero retrogusto
profumo assai pronunciato, mentolato
ricco di sostanze zuccherine
pastoso
consigliato contro emicranie e nervosismo

La tecnica apistica
La relazione tra uomo e api affonda le sue radici nell'antichissimo passato. Il miele infatti ha rappresentato per millenni l'unico alimento zuccherino concentrato disponibile. Gli uomini primitivi saccheggiavano gli alveari selvatici per trafugare miele e cera.
Questi piccoli insetti erano considerati in Grecia veri maestri di geometria per la perfezione delle loro celle esagonali, tutte rigorosamente inclinate lungo lo stesso asse geometrico.
Gli egizi credevano ad un'origine divina: le lacrime del dio Ra, il Sole, prima di toccare il suolo si trasformarono in api.
Capite quindi quanto fosse importante far fermare uno sciame di api in volo e appropriarsene. Si usavano svariati mezzi come ad esempio battere uno strumento metallico. Una antica legge romana attribuiva lo sciame a chi lo avesse subito segnalato battendo su una pentola. Un poco rozzo ma efficace.
Nel corso del tempo l'apicoltura è divenuta più razionale: le api selvatiche venivano allevate in tronchi cavi (bugni villici), ma per l'estrazione del miele si ricorreva ancora all'apicidio, cioè alla distruzione dell'intera famiglia.
Solo nell'ultimo secolo l'uomo ha imparato a costruire le arnie a telai mobili e ad allevare le api domestiche, nel rispetto della loro vita… e del loro valore economico. Tenendo presente che una famiglia costa almeno 100 euro.
L'apicoltore modella il suo lavoro sui comportamenti istintivi dei suoi insetti. La sua attività principale consiste nell'indurre le api ad accumulare più scorte di quelle che effettivamente servirebbero, per poter poi asportare la maggior parte della produzione.
Per favorire la produzione di miele gli alveari possono venire trasportati sul luogo delle fioriture più importanti (nomadismo).
L'ape domestica più allevata è la mellifera ligustica, originaria della nostra regione e usata in tutto il mondo per la sua laboriosità, docilità e il forte senso della famiglia.
Ma come si fa oggi a recuperare il miele? Per recuperare i telai delle arnie ricolmi è necessario innanzitutto allontanare e calmare le api.
La tecnica più accreditata è quella dell'affumicamento: il fumo infatti ammansisce le api poichè lo spavento le porta ad ingoiare miele e ciò le ostacola nell'estrazione del pungiglione.
Per passare dall'alveare alla tavola il miele richiede alcuni passaggi:

·        disopercolatura elimina lo strato di cera che chiude le cellette contenenti il miele
·        estrazione vera e propria, condotta con smelatori centrifughi
·        purificazione che può avvenire per filtrazione o per decantazione

Al termine di queste operazioni il miele può già essere invasettato.
Per ottenere un prodotto cristallizzato in maniera fine ed omogenea (miele cremoso) si usa la tecnica della cristallizzazione guidata che, migliora le caratteristiche fisiche ed estetiche del miele ma non ne altera la sostanza.
Trattamenti termici possono essere utilizzati per fluidificare i mieli già cristallizzati o per allungare il tempo di vita del prodotto allo stato liquido, ma hanno effetto negativo per la perdita di aroma e qualità strutturali.

Gli altri prodotti dell'alveare
Nell'alveare non si produce solo il miele ma numerosi altri prodotti utili all'uomo.

La propoli
É una miscela resinosa che le api raccolgono sulle gemme di alcune piante e modificano con secrezioni salivari e cera. Il suo nome deriva dal greco pro polis "davanti alla città", probabilmente legato al fatto che questa sostanza viene messa dalle api all'ingresso dell'alveare come protezione da insetti e corpi estranei. Serve per chiudere interstizi e fessure delle arnie o per imbalsamare piccoli predatori entrati nell'alveare ed uccisi, ma troppo grossi per essere espulsi.
É una sostanza balsamica, composta da olii essenziali, resine, cere, polline, sali minerali, zuccheri e vitamine. Al gusto è cerosa e pizzicante, il colore varia dal giallo al bruno scuro.
Può essere consumata al naturale, come pasta o granuli da masticare, oppure diluita in alcool.
La propoli ha molteplici usi: come antibiotico per le patologie del cavo orale, per uso esterno come disinfettante e cicatrizzante, per uso agronomico come antimicotico e antiparassitario.

La pappa reale
Detta anche gelatina reale, è un prodotto eccezionale per le sue caratteristiche nutrizionali.
Viene prodotta, partendo dal polline, dalle ghiandole sopracerebrali delle giovani operaie per nutrire tutta la covata fino al terzo giorno di vita. Successivamente viene riservata solo alle larve che dovranno evolversi a regina, mentre le altre riceveranno solo una meno nobile mescolanza di miele e polline. Ha una consistenza gelatinosa, un sapore acidulo e un colore biancastro.
É però ricchissima di proteine altamente digeribili, di zuccheri (fruttosio e saccarosio) e di grassi aventi attività antibatteriche, enzimi, vitamine, sali minerali, ormoni, antibiotici e fattori di crescita.
Essendo un naturale integratore alimentare è indicata nei casi di stanchezza psico-fisica e depressione, specialmente per i bambini e le persone anziane. La pappa reale può essere assunta al naturale, liofilizzata o mescolata ad altre sostanze, come il miele. Si conserva al riparo dalla luce e in frigorifero.
Viene impiegata anche in cosmesi come base di creme.

Il polline
Costituisce un'altra componente essenziale nell'alimentazione delle api operaie e della covata. Raccolto sui fiori dalle bottinatrici non viene mai mescolato al miele, ma raccolto in altre cellette e arricchito con nettare e saliva.
L'apicoltore lo preleva mediante apposite trappole che obbligano l'ape che rientra nell'alveare a transitare in piccole aperture nelle quali il polline si distacca cadendo in un contenitore sottostante.
Il polline si presenta sotto forma di granelli di varia colorazione secondo l'origine botanica.
É un alimento ricco di proteine, vitamine, sali minerali enzimi che gli conferiscono proprietà tonificanti e stimolanti. E' indicato per ovviare alle carenze nutrizionali in gravidanza, durante l'allattamento, in periodi di stress da prolungato lavoro. Si assume preferibilmente al mattino, masticandolo con cura. Può essere aggiunto anche ai piatti a base di verdura. Si conserva in vetro a circa 14° gradi.

La cera
É il prodotto della secrezione delle ghiandole ceripare delle api. La cera fuoriesce dagli spazi tra gli anelli dell'addome delle ceraiole sotto forma liquida poi a contatto con l'aria si solidifica sotto forma di scaglie che l'ape prende con le mandibole, arricchisce di polline e propoli e modella per costruire i favi. La cera appena secreta è bianca, ingiallisce per la presenza del polline e nel giro di qualche anno diventa molto scura. Per la sua produzione le api devono nutrirsi di un'abbondante dose di miele: dai cinque ai dieci chili per ogni chilo di cera prodotta.
La cera si usa in diversi campi, dalla produzione di candele al campo industriale. Ma possiede anche virtù insospettate: quella pura di favo viene masticata dagli apicoltori esperti contro le affezioni polmonari croniche.
La produzione del miele è assai diffusa in Liguria. Esistono diverse razze geografiche di Apis mellifica ma quella presente in Italia è l'ape gialla, che è poi la nostra Apis mellifica ligustica Spinola. dal nome dello scienziato che la studiò.
Gli apicoltori sono oggi molto interessati alla conservazione delle razze locali che si sono adattate alla regione in cui lavorano; infatti l'introduzione di razze straniere comporta un incremento di produzione immediata ma nel lungo periodo pone problemi di ibridazione.

5 DESSERT (2^ Edizione)
In queste 400 pagine sono raccolte oltre 250 ricette di dessert pubblicate nel corso degli anni sul blog DALLA PARTE DEL GUSTO (https://dallapartedelgusto.blogspot.com/). 
Desidero infatti condividere con voi la mia passione per la cucina. Dessert. Che delizia. Buoni da gustare, belli da ammirare. Ne ho una passione sfrenata. Questo volume è dedicato a chi come me condivide l'amore per il dolce. Tantissime preparazioni di base, paste, creme, semilavorati, piccola, media e grande pasticceria. Semplicissimo e complesso.