martedì 28 marzo 2023

CENA IRLANDESE


cucina irlandese
LA LEGGENDA DELL’IRIS COFFEE
Era il mese di ottobre del 1943: i primi voli internazionali fra l’Europa e gli Stati Uniti avvenivano a bordo di idrovolanti che partivano dal villaggio di Foynes, una piccola cittadina nell’Ovest dell’Irlanda, che ai tempi ospitava un’importante base aerea dei Flying Boats.
Nei primi anni ’40 l’aeroporto vide transitare tanti passeggeri tra cui molti personaggi famosi del mondo della politica e del cinema di Hollywood, e un imprenditore del posto decise di aprire un ristorante al servizio dei VIP dell’epoca. Quel giorno una brutta perturbazione costrinse uno di questi idrovolanti, decollato da Foynes per New York via Botwood, a fare ritorno alla base per aspettare un miglioramento delle condizioni meteo. I passeggeri, stanchi e infreddoliti, vennero accolti all’interno del ristorante del terminal e lo chef e capo dei barman nel bar dell'aeroporto di Shannon, Mr. Joe Sheridan, decise di offrire loro una bevanda speciale con l’intento di riscaldare gli ospiti e risollevarne l’umore. Al caffè caldo e molto forte addolcito con zucchero integrale di canna aggiunse del whiskey irlandese (un abbinamento inusuale fino a quel momento) e completò con una elaborata semimontatura di panna liquida fredda. Un passeggero, deliziato, gli chiese se si trattasse di caffè brasiliano, Sheridan gli rispose: “No, it’s Irish coffee!”. L’Irish Coffee riscosse quindi un grosso successo e Joe lo inserì nel menu del suo ristorante.
Un giorno, Stanton Delaplane, un giornalista del "San Francisco Chronicle", atterrato a Shannon, scoprì la bevanda e l'apprezzò molto, arrivando a dedicarle un articolo sul quotidiano a grande tiratura di cui era corrispondente.
Il 10 novembre 1952, Jack Koeppler del Buena Vista Cafe, mitico bar su Hyde Street, chiese al giornalista di aiutarlo a ricreare il drink che aveva provato all'aeroporto di Shannon in Irlanda. Trascorsero gran parte della serata a sperimentare, modificando attentamente le quantità ma non riuscirono a farlo bene. Il problema lampante era che che la crema non galleggiava sopra il caffè irlandese che erano riusciti a ricreare ma invece affondava, in maniera poco attraente, nel bicchiere. Il loro problema venne risolto addirittura dal sindaco di San Francisco, proprietario di un caseificio: bisognava invecchiare la crema per 48 ore prima di emulsionarla alla consistenza perfetta. In questo modo, galleggiava perfettamente in cima al caffè accuratamente bilanciato e al whiskey irlandese sottostante.
Fu così che i bar di San Francisco cominciarono a preparare l'Irish Coffee, lasciando credere in tutto il mondo che fossero loro gli inventori. Nel 1988, l'Autorità Irlandese degli Standard Nazionali pubblicò lo standard di preparazione dell'Irish Coffee, noto sotto la voce "I.S. 417: Irish Coffee".
LA CUCINA IRLANDESE
La serata in cui ho allestito la mia cena irlandese, i segnaposto a tavola erano decorati con raffigurazioni di trifoglio, di San Patrizio, di Joyce e di lepricauni, gli gnomi tipici del loro folklore. Non è certo stata una cena solo a base di patate declinate in tutte le forme e di grandi boccali di Guinness, la birra scura come la notte, che di lei ha il colore ed il sapore. Gli irlandesi conoscono le gioie e la ricchezza della tavola, a cominciare dall’abbondante, vario ed eclettico irish breakfast. Da lì ho preso l’idea di aprire con la bruschetta irlandese. Si prepara spalmando, sul pane nero ai cereali, il burro salato, quindi su un latticello di rucola cosparsa di capperi sotto sale dissalati, si stende una sottile fetta di salmone affumicato, resa agra da una breve marinatura in succo di limone. Il giro delle birre l’ho aperto con una Beamish, la cosiddetta birra protestante, ho intramezzato con una Murphy's la cosiddetta birra cattolica e, naturalmente, ho chiuso con una Guinness.
Per quanto riguarda il primo ho messo in tavola la regina delle zuppe dell’isola verde: il Colcannon, fatto di patate, verza, cipollotti, cotti nel latte, salati e pepati a dovere e mantecati in chiusura col burro.
Per gli amanti della carne, ho servito uno spezzatino di manzo alla Guinness. Come taglio ho usato il cosiddetto cappello del prete, quel bel pezzo leggermente venato di grasso, di forma stretta e allungata, che si trova nella spalla. Va cotto in un delicato soffritto di carote, cipolle, aglio, poi diluito con Birra Guinness e scurito ancora con concentrato di pomodoro. Per aromatiche e spezie ho usato timo, paprika ed una manciata di prezzemolo trito in uscita.
A fianco del ricco e caldo secondo ho messo un contorno fresco: il Coleslaw. Si tratta di  una insalata con cavolo cappuccio, carote e cipollotto fresco, condita con un elaborato dressing, fatto di yogurt magro, aceto di vino bianco, senape, zucchero, erba cipollina tritata, sale fino, pepe nero e maionese.
Per dessert ho sfoderato delle ricche coppe di Trifle, il più anglosassone dei dolci al cucchiaio. Inzuppato il pan di Spagna con panna fresca liquida resa dolce con zucchero a velo, ho costruito i miei strati alternando fragole con crema pasticcera.
La chiusura è stata a sorpresa. Ho cominciato con una favola. Questa.
Era il mese di ottobre del 1943: i primi voli internazionali fra l’Europa e gli Stati Uniti avvenivano a bordo di idrovolanti che partivano dal villaggio di Foynes, in Irlanda. Quel giorno una brutta perturbazione costrinse uno di questi idrovolanti a fare ritorno alla base per aspettare un miglioramento delle condizioni meteo. I passeggeri, stanchi e infreddoliti, vennero accolti all’interno del ristorante del terminal e lo chef, Joe Sheridan, decise di offrire loro una bevanda speciale con l’intento di riscaldare gli ospiti e risollevarne l’umore. Al caffè caldo addolcito con zucchero integrale di canna aggiunse del whiskey irlandese (un abbinamento inusuale fino a quel momento) e completò con una elaborata semimontatura di panna liquida fredda. Un passeggero, deliziato, gli chiese se si trattasse di caffè brasiliano, Sheridan gli rispose: “No, it’s Irish coffee!”.
La serata è finita sorseggiando quella calda delizia tra canti fraterni in una intemerata imitazione della lingua regina. Oh yes.

5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER
 

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini.
Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine). 

lunedì 27 marzo 2023

CENA TEDESCA

OKTOBERFEST DE NOATRI

Ottobre è stato il mese della birra e credo che valga la pena condividere con voi una cena un po’ speciale di stampo teutonico che ho avuto il piacere-onere di mettere su per i miei adorati (ma severissimi) commensali. Teutonica sì, ma rivisitata all’italiana, perché la gioia più grande del “cuoco amatoriale” è vedere gli occhi dei propri ospiti quando il boccone dal palato scende giù con un lieve sospiro di soddisfazione. Insomma non Wagner ma un romantico lied.
In tavola pane con farina di segale integrale e farro, quel pane dal tipico colore scuro, fatto con un cereale di montagna che si adatta molto bene ad altitudini elevate e resiste ai climi freddi; che cresce in terreni difficili e poveri e matura in fretta. Un pane, una volta, considerato povero, consumato dagli agricoltori, ma oggi decisamente gourmand, molto gustoso, specie arricchito di semi misti, di lino, sesamo o girasole, che gli vengono fatti aderire spennellandolo con poca acqua.
Apriamo con un currywürst, uno street food berlinese, creato da tal Herta Heuwer nel suo chiosco ambulante, nel dopoguerra, quando ottenne dai soldati inglesi – in cambio di alcune bottiglie di liquore – dell’ottima polvere di curry, che pensò subito di utilizzare per insaporire e condire i bratwürst, ossia quei salsicciotti scuri che dopo essere stati bolliti vengono cosparsi con una salsa a base di pomodoro, ketchup e abbondante curry giallo. Li ho abbinati con delle alette di pollo cucinate in un intingolo a base di una salsina alla birra, servite con della senape tedesca, più delicata di quella di Digione.
Per rompere il gusto ho messo lì accanto, in un cestello, i miei nodi d’amore, i pretzel, dal colore marron bruciato, con la superficie lucida, illuminata dai granelli di sale grosso. Sono andati a ruba ed il sale ha decisamente aumentato la sete.
Per preparare lo stomaco al piattoforte ho servito una bier suppe, minestra di birra chiara con l’orzo, in cui galleggiano isole fluttuanti di bianchi d’uovo montati. Il piattoforte era costituito da una variante triveneta del gulash, più delicata di quella strong ungherese, uno spezzatino di manzo, insaporito da cipolle, patate, peperoni e paprika che conferisce al piatto un gusto dolce, deciso e regala quel bel colore rosso acceso. Al gulash, per completare la gamma dei quattro gusti base, ho abbinato i classicissimi crauti con mele (che sono ricchi di vitamina C, minerali e oligoelementi e che, in più, favoriscono la digestione).
Un tris di dolci ha concluso la cena. Sorvolo sul classico strudel di mele, che in definitiva è una rivisitazione asburgica della turca baklava, e passo al bienenstich, una delicatissima torta lievitata farcita di crema diplomatica (misto di pasticcera e chantilly) e sovrastata da un leggero strato di caramello alle mandorle e miele. Ha origini a Magonza, sul fiume Reno, ed il suo nome, puntura d’ape, rievoca la sua creazione, una eroica vittoria militare su nemico preminente e meglio armato, le cui orde furono scacciate lanciandogli contro degli alveari. Al candore del ripieno della precedente contrappunto quello scuro della Baumkuchen, la torta a tronco d’albero, dove diversi strati di impasto sottile, cotti in forno con funzione grill, sono farciti con marmellata di albicocche e cioccolato fondente.
E la birra? È scorsa a fiumi naturalmente. Cela va sans dire, mais ça va mieux en le disant. Le sei classiche Märzen (rigorosamente fatte a marzo) della Oktoberfest di Monaco di Baviera: Augustiner (6,0%), Hofbräu (6,3%), Hacker-Pschorr (5,8%), Löwenbräu (6,1%), Paulaner München (5,8%) e Spaten Bräu (5,9%).

5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER

 
“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini.
Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).

CENA CAMPANA

Quando nel mondo si parla di cucina italiana, nell’immaginario gastronomico mondiale si pensa alla cucina della Campania, alla sua pizza ed ai “suoi” spaghetti. La regione conta ben 330 prodotti agroalimentari tradizionali.
Sulla tavola spicca il pane cafone o dei Camaldoli, accanto a pizze ripiene di scarola e casatiello, rustico pasquale di pasta di pane, formaggio, salame, strutto, uova. Accanto fanno mostra di sé sontuosi taglieri di formaggi e di salumi. Mozzarelle di bufala di Battipaglia, burrielli e burrini, cacio forte, pecorini e provole, ricotte e scamorze. Capicollo e salsiccia col peperoncino detta pezzent, sanguinacci e soppressate, salame di Mugnano, salame nero del casertano e salamine, salsicce fresche di bufala e tarantiello, un salame a base di ventresca di tonno.
Aprono gli antipasti: crocché di patate, isciurilli coi fiori di zucca, scagliozzi di polenta, pastecresciute, mozzarelle in carrozza (fette di pane ripiene di mozzarella e alici, passate in farina, nell’uovo e poi fritte), uova fritte alla napoletana con spaghetti fritti e mozzarella, frittate di cipolle e di maccheroni.
E vai con i primi. Spaghetti, maccheroni, vermicelli, paccheri, ziti: la pasta in Campania non manca, con una particolare attenzione per quella lunga con condimenti di carne e di pesce: ragù alla napoletana, puttanesca (con pomodoro, olive di Gaeta e capperi), marinara coi sughi alle alici, alle cozze ed alle vongole. La classica pasta e patate va insaporita con pomodori e grasso di maiale; per palati tosti c’è il timpano di scamorza, per non dire degli gnocchi alla sorrentina, cotti nel pignatiello di coccio. Tra le preparazioni col riso spicca il sartù, un timballo ripieno con carne di maiale, pollo, polpettine, piselli, provola. Tra i capolavori ecco la “minestra maritata”, il cui nome deriva dall’unione fra carne e verdure, poiché prevede gallina, manzo, salame, prosciutto, guanciale, cotenne, e poi cavolo, cicoria, scarola, pintarelle, cipolle, carote e sedano per il soffritto.
Il capitolo pesce va aperto citando l’impepata di cozze, che vede protagoniste cozze, olio evo, aglio, prezzemolo e, ovviamente, pepe. Alici in tutte le fogge, impanate e fritte, “araganate” in forno, marinate; cefali e orate, cicenielli e sarde alla napoletana, da cuocere alla marinara o all’acqua pazza; frittura di paranza, di crostacei sauté o gratin, e soprattutto polpi, come quelli “alla Luciana”, con pomodoro, aglio, prezzemolo e peperoncino.
Per la carne si spazia dalle braciole ripiene, alle bistecchine alla pizzaiola, ma impagabile è il coniglio all’ischitana. A fare da contorno c’è l’insalata di rinforzo, in cui domina il cavolfiore.
Un cesto di frutta fa cornucopia: arance di Sorrento, mele renetta e annurca, pere sorba e spadona, ciliegie di Siano, fichi, castagne, marroni, nocciole e noci di Sorrento.
I dessert chiudono in bellezza. Babà al rum, sfogliatelle, torta caprese, pastiera, di pasta frolla con ricotta, grano bollito, canditi, uova.
Annaffiamo tutto coi celebri Docg Aglianico del Taburno, Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi; o i Doc Falanghina del Sannio e Falerno del Massico. Brindisi finale col limoncello, anzi limoncella.
UNA COVIGLIA PER MATILDE
Di ritorno da un “meritato” viaggio a Napoli mi sento ancora partenopeo nello spirito, anche se ne sono ormai lontano. Ed è anche per consolarmi che condivido con voi il ricordo di un sapore che mi ritorna in mente dopo questo viaggio: quello della coviglia napoletana.
Tornato a casa, corrotto da una formazione classica solo stemperata da un laurea in ingegneria, mi sono subito messo a cercare documentazione… e l’ho trovata. Sentite.
Antonio Latini nel suo Lo scalco alla moderna (1694) riporta la prima ricetta italiana di sorbetto: Sorbetta alla cioccolata scomiglia” (cioccolata schiumata) da cui deriverebbe la coviglia napoletana di cui era grande appassionata Matilde Serao che la descriveva nel suo libro Paese di Cuccagna del 1891.
È nel 1700, quando il gusto delle dame di «buon garbo» sensibili e disappetenti esige diete leggere e carezzevoli, voluttuose, morbide e dolci, che due oggetti di lusso, di delicatezza e di gusto in Italia portano il vanto in tutta Europa: liqueurs d’Italie e glaces à l’italienne vogliono gli stranieri. La città di Napoli è rinomata per i gelati e per i sorbetti. La coviglia è il sapore del mio gelato da bambina. Mia madre lo comprava in una pasticceria di Mergellina, e appena a casa veniva conservato con sacro rispetto nel freezer. Erano bicchierini bianchi o di metallo, ciascuno di un colore diverso. Ma il sapore della coviglia, quello non lo dimenticherò più. A metà strada tra un gelato e un pasticcino. Unico. Appartiene alla stessa famiglia dello spumone e dello zuccotto. Si fanno di tantissimi gusti, ma la classica è al cioccolato o al caffè. Spumoni, metà crema e metà gelato, di tutte le mescolanze, … adorazione delle donne e dei ragazzi… entusiaste erano le signore che vedevano apparire gli spumoni, dai colori seducenti nella loro tenerezza, dal candido fiocco di spuma nel mezzo, e davano un gridolino di commozione e tendevano le mani, involontariamente…
Mentre vi do la ricetta della coviglia al caffè, concludo frammischiandola con alcune informazioni su questa eccezionale donna e giornalista.
Montate 2 tuorli con 75 g di zucchero.
Matilde Serao, nata a Patrasso nel 1856 e morta a Napoli nel 1927, fu  la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Mattino e quindi Il Giorno. Cominciò sul Giornale di Napoli con lo pseudonimo di Tuffolina. Poi a Roma sul Capitan Fracassa sotto lo pseudonimo di Ciquita.
Unite 20 g di farina, diluite con 2,5 dl di latte caldo e cuocete, finché si addenserà.
Si sposò con Edoardo Scarfoglio e sul quotidiano La Tribuna apparve la cronaca della giornata scritta da Gabriele D'Annunzio sotto il titolo Nuptialia. Ebbero quattro figli, tutti maschi: Antonio, Carlo e Paolo (gemelli) e Michele. Insieme con lui Matilde realizzò il suo progetto e fondarono il Corriere di Roma.
Versate 2 caffè ristretti, fate raffreddare e unite 2 dl di panna montata.
Ritornata a Napoli scrisse sul Corriere del Mattino chiamando a collaborare firme prestigiose come Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio. Quindi fondò Il Mattino e firmò i suoi articoli con lo pseudonimo di Gibus (cappello a cilindro che si chiude a scatto).
Suddividete la crema in 6 coppette e mettetele in freezer per 6 ore.
La sua rubrica, Api, mosconi e vespe, durò per 41 anni ed ebbe grande successo tanto che le valse l’appellativo di “Signora Mosconi”.

Servite con panna montata e cioccolato grattugiato.
TORTE CAPRESI E GANGSTER
Oggi si va a Capri. Guardatevi pure tutti i faraglioni che volete, riconoscete tutte le celebrità che oziano in piazzetta, ma poi gustatevi la torta caprese, il dolce napoletano, specifico dell'Isola di Capri, ma diffuso anche in Costiera Amalfitana e nella Penisola Sorrentina.
È a base di cioccolato fondente e mandorle, fuori croccante e dal cuore umido e morbidissimo.
Come tanti altri dolci tipici della tradizione italiana, ha un’origine curiosa.
Un secolo fa, nel 1920, in un laboratorio artigianale dell’Isola di Capri, un pasticcere di nome Carmine di Fiore creò, involontariamente, il golosissimo capolavoro dell’arte dolciaria partenopea.
Si narra che Carmine fosse nel suo piccolo “regno” culinario, circondato dai suoi utensili ed ingredienti, impegnato con estrema cura nella preparazione di una torta alle mandorle.
Entrarono senza bussare tre malavitosi giunti a Capri per comprare una partita di ghette per Al Capone lo “Scarface” di Broccolino, e gli ordinarono una torta.
Tutto procedeva al meglio, ma per timore e per la fretta di finire, commise un errore che gli avrebbe sicuramente rovinato la reputazione e forse anche i connotati, poiché avrebbe dovuto fare i conti con dei malavitosi irritati per il dolce sbagliato: dimenticò di aggiungere la dose di farina necessaria per completare l’impasto della torta.
La infornò ed a fine cottura, con sommo stupore, la torta risultò una vera e propria prelibatezza: morbida al centro e croccante fuori. I tre americani furono soddisfatti al 100%, addirittura da chiedere la ricetta.
Carmine la diede loro senza esitare. Una torta sbagliata gli aveva salvato la faccia, da una sfregiatura, come non era successo a “Scarface” Al Capone.
L’aneddoto fu la migliore pubblicità e la sua torta ebbe un gran successo.
Eccovi la ricetta. Non è necessario dopo averla degustata fumarsi un sigaro.
Ingredienti: 125 g di burro, 140 g di zucchero, 3 uova, 140 g di cioccolato fondente al 70%, 175 g di farina di mandorle, sale, zucchero a velo

Procedimento: Spezzettare il cioccolato e farlo fondere a bagnomaria. Unire nella planetaria burro, zucchero e sale; e lavorare a pasta con la frusta K. Unire uova, cioccolato fuso e farina di mandorle. Versare l’impasto, livellandolo bene in uno stampo a cerniera (20-22 cm di diametro) imburrato e infarinato. Cuocere in forno preriscaldato a 170° per 45’. Sfornare su gratella e far raffreddare. Spolverare generosamente di zucchero a velo.
LA VERA STORIA DEL SARTU’
La gente di Napoli è incline al riso. Nell’accezione di “risata”, effettivamente il riso abbonda sulla bocca dei suoi abitanti. Se invece la parola “riso” la leggiamo nel suo significato di alimento, dobbiamo riconoscere che nei suoi confronti l’atteggiamento dei napoletani è stato sempre ambivalente. Alla fine del 1300, da “mangiafoglia”: consumatori di verdura, e segnatamente di cavolo – per necessità, non essendovi cibo altrettanto economico da mettere sotto i denti,- i napoletani stavano diventando un po’ alla volta “mangiamaccheroni”. Un appellativo assai più lusinghiero, al quale a tutt’oggi  non hanno alcuna intenzione di rinunciare. Più o meno nello stesso periodo, dunque alla fine del XIV secolo, era arrivato a Napoli un altro alimento: per l’appunto, il riso. Non da troppo lontano; dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi che venivano a prendere possesso del regno di Napoli.La pasta ed il riso, giunte a Napoli per vie diverse (pur provenendo dallo stesso luogo: l’estremo Oriente), presero anche strade diverse. In verità, la pasta non ne prese alcuna: a Napoli si trovò benissimo, ed elesse la città partenopea a propria dimora ufficiale. Invece il riso a Napoli non si fermò più di tanto. In men che non si dica si spostò al Nord, e vi si installò stabilmente. Perché là trovò l’acqua, indispensabile perla sua crescita, dicono alcuni; ma forse la verità è un’altra. E’ che a Napoli il riso non aveva avuto troppo successo. Sì, era un cibo nutriente, che dava un senso di sazietà, ed era relativamente poco costoso; ma i napoletani non ebbero mai per lui lo stesso feeling che stavano invece sperimentando per la pasta. Ne fanno fede i nomi che al riso venivano affibbiati, e che in parte gli sono  rimasti, a tanti secoli di distanza: “sciacquapanza” e “sciacquabudella”. A motivare questa diffidenza, che non di rado si tingeva di ostilità, sta il fatto che il riso sbarcato a Napoli con gli Aragonesi era un’assoluta novità, almeno per l’Italia, in quanto all’ impiego alimentare. Finora quel momento, il riso era stato utilizzato solo come medicamento, per malattie gastriche o intestinali. La schola medica salernitana (Salerno è a un tiro di schioppo da Napoli) consigliava il riso in tutte le salse, anzi in nessuna (veniva infatti prescritto rigorosamente in bianco). A Napoli, in quel periodo, le malattie infettive trascorrevano il  tempo fra endemia ed epidemia; e in molti casi (si pensi al colera) il riso era l’unico alimento consigliato, e consigliabile. Il riso Purificatore veniva insomma associato a condizioni di salute precarie, sulle quali non c’era niente da ridere. E’ probabilmente per questo motivo che i napoletani non si strapparono i capelli  quando il riso, pur avendo avuto Napoli come prima destinazione, scelse di stabilirsi in Lombardia, in Piemonte e in Veneto. I napoletani ignoravano però che, come gli emigranti che fanno fortuna lontano dal luogo da cui sono partiti, il riso un giorno sarebbe tornato. E che loro stessi lo avrebbero accolto con tutti gli onori. E gli odori. Ma il riso si rivelò piuttosto furbo: non tornò infatti così com’era partito, nudo e crudo. Tornò cotto, e sottomentite spoglie. Per dir meglio, in abiti diversi. Assai più ricchi, e più belli. Se gli artefici dell’arrivo del riso a Napoli furono gli Spagnoli, i protagonisti del suo ritorno furono invece i Francesi. Per il tramite dei loro cuochi. Nel ‘700, erano loro, i cuochi francesi, a regnare su Napoli. I nobili, che vivevano nei palazzi del Centro Storico e di Monte di Dio, nella adiacenze di Palazzo Reale, in quel periodo per apparire chic, parlavano francese, e nella stessa lingua mangiavano. I loro cuochi (sia quelli autenticamente francesi, sia quelli napoletani, che si erano comunque impratichiti nella cucina d’Oltralpe) erano chiamati, in un francese napoletanizzato, “Monsù” (da “Monsieur”). Questi poveri cuochi dovevano scontrarsi quotidianamente con l’idiosincrasia dei loro padroni… nei confronti del riso, che invece in Francia andava alla grande. Un’avversione (ma forse si potrebbe definire meglio un non-amore: un’indifferenza) che andava avanti da secoli. Cosa pensarono allora di fare, i Monsù? Si mobilitarono per nobilitare il riso. Per renderlo più gradevole ai palati partenopei. Per cominciare, ci misero dentro della salsa “c’a pummarola”: il pomodoro, a quei tempi, a Napoli era già una sorta di passepartout, un viatico. Questo però non poteva bastare: anche se rosso, il riso restava uno sciacquapanza. I Monsù decisero perciò di  arricchirlo con melanzane fritte, polpettine e piselli. Tutte queste prelibatezze le piazzarono sopra il  riso, a guarnizione: come specchietto per le allodole. In cima a tutto: in francese, “sur-tout”. Da “sur-tout” a “sartù” non c’è che lo spazio di un sospiro, e il tempo necessario ad emetterlo. Poi la bocca sarà occupata in (sar)tutt’altro .I loro padroni, i nobili napoletani, fecero da cavie a questo “nuovo” piatto. E mostrarono di gradire il sartù quanto avevano disdegnato il riso: vale a dire, moltissimo. Un po’ per volta il sartù, pur rimanendo sulle tavole dei ricchi, passò pure su quelle dei poveri. Diventando, come molti cibi, a Napoli e altrove, una splendida metafora dell’egualitarismo. A conferma che la legge (della buona cucina) è uguale per tutti.

A NASCITA D’O SARTÙ
‘O tiempo vola, corre troppo ampressa.
‘O munno cagna, ‘a storia è semp’a stessa.
Napule s’a pigliava il re di Spagna?
“Giuvinò, stamm’a posto, mò se magna!”

Quann invece arrivava ‘o re di Francia,
“Stavota sì, ca ce regnimm’a pancia!”
Se, se. Cà so’venute tutte quante,
ma ‘a panza nosta sta sempe vacante.

Che dite? Non dobbiamo farne un dramma?
‘O sazio nun capisce a chi ave famma.
Simme abituate, a non avere niente.
Almeno ci’a pigliammo alleramente….

A nuje napulitane ciann’acciso,
però c’abbascio avimme sempe riso.
Ci’o purtajeno ch’e nave, all’Aragona;
però so’ sempe meglio ‘e maccarone.

Si staje diuno, sì, t’o mange ‘o stesso,
 ma il riso, come piatto, è un poco fesso.
Lesso, c’o burro, in bianco, è consigliato
espressamente, quanno staje malato;

ma si staje buono, detto con creanza,
che ten’ea fa, di questo sciacquapanza?
E’ meglio ca te faje nu piatt’ e pasta!
‘O riso s’a pigliaje. Dicette “Basta!

Sai che faccio? La lascio, sta città,
che non mi apprezza, e mai m’apprezzerà.
Stu riso era davvero fino fino.
Se ne fujette al nord, verso Torino,

e là, poiché non era affatto fesso,
crescette buono, e avette assai successo.
Ma Napule ‘a teneva dint’o core.
“Napoletani, voglio il vostro amore!

I’ so tuosto, guagliò: saccio aspettà.
Nu juorno, prim’o doppo, aggia turnà!”
L’anne vanno veloce comm’o viento.
Stammo oramai nel mille e setteciento,

e nel Palazzo mò stann’ e Francesi.
Nuje? Dint’e viche: famma, e panni stesi.
Ma stu sfaccimm’e riso, che ce tene!
’A ditto ca turnava? E mò mantene.

A sta là ‘ncoppa, al nord, nun cià fa chiù.
In segreto s’incontra cu Monsù
(‘o cuoco d’e francese): “E’ il mio momento!
Mi devi fare un bel travestimento…

Dai, truccami con arte e fantasia:
nisciun’ adda capì ca so’ semp’io…..”
“Ne pas paura – le dicett’o cuoco
franco-napulitano- Sce vo poco:

assiem’a te – le risò – je sce mette
melanzane e pesielle, e deu purpette,
e poi, per non lasciarle troppo seule,
un petit peu de sause de pomarole.

Ci’o mette tout ncoppa : là, sur-tout.
C’est la nouvelle cuisine ! Le nom ? SARTU’!”
‘O sartù zitto zitto, chainechiane,
trasette ‘a casa d’e napulitane.

S’ o mettetten’ annanze, e ditto ‘nfatto
se mangajeno ‘o riso, e pure ‘o piatto.
“Chillu riso scaldato era na zoza.
Fatt’a sartù, ma è tutta n’ata cosa.

Ma quale pizz’e riso, qua timballo!
Stu sartù è nu miracolo, è nu sballo.
Nennì, t’o giuro ‘ncopp’a chi vuò tu:
è chiù meglio d’a pasta c’o rraù!”

5 SETTE 
ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER
 

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini. Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).

domenica 26 marzo 2023

CENA FRANCESE

CUCINARE ALLA FRANCESE 
Complici le feste natalizie si rinsaldano legami antichi di amicizia e lavoro. Il virtuale WhatsApp quotidiano lascia il posto delle parole agli analogici fatti.
E quale fatto migliore di un momento conviviale?
L’occasione è una cena alla francese cucinata per i miei colleghi universitari d’oltralpe, partner di tanti Progetti Interreg Europei, che mi permette lo spunto di questa riflessione.
Già, ho cucinato alla francese. Ma che vuol dire?
Non esiste una, singola, cucina francese. Esistono tante variopinte espressioni regionali, così come in Italia, diversissime fra loro, i cui piatti più noti e gustosi hanno contribuito, tutti insieme, a dare vita all’idea di cucina francese, per poi approdare alla cucina tout court.
Quanti sono i termini francesi transitati nel vocabolario internazionale? Vediamo: chef, haute cuisine, nouvelle cuisine, hors d'œuvre, dessert, pasta choux, bigné, crêpes, paté, quiche, canapé, gratin, croissant, soufflé, béchamel, bouillabaisse, puré, omelette, crème caramel, mousse, crème brûlée, mayonnaise, ecc.
Apro la mia cena con una Quiche Lorraine, che è un trionfo di uova, parmigiano pancetta e bechamelle, salsa base per le cosiddette salse bianche, amalgamate e stese su di una brisée, dorata a puntino in una cottura al forno.
A seguire una Fondue Savoyarde à la Baguette, il tipico pane lungo affettato a tocchetti resi ancora più croccanti da una rapida passata in forno. Infilzati in appositi spiedini li si intinge nello splendido caquelon, che mi hanno portato in dono, recipiente che serve a tenere in caldo una crema al cucchiaio fatta di comtébeaufortgruyère, rinforzata da vin bianco aromatico e coagulata con maizena.
Proseguo con una Soupe à l’oignon à la Pompadour, in cui le cipolle si sperdono in una buona quantità di brodo di carne, reso cremoso da farina, burro e formaggio (ho usato gruyère grattugiata a filetti), reso gustoso da sale e pepe.
Il piattoforte è una classicissima Sole à la meunière Parisienne, marinata in un bicchiere di latte, infarinata e fritta nel burro, resa agretta giusta col succo di mezzo limone e insaporita con sale, pepe ed un cucchiaino di prezzemolo tritato, sparso giusto prima di andare in tavola per dare una nota di verde freschezza.
Servo un contorno di patate cucinate come Gratin Dauphinois, cotto in forno, con latte, panna, formaggio, burro e l’onnipresente aglio.
Concludo con un dessert Napoleon Varennaise, una Millefeuille farcita con crema pasticcera, crema al cioccolato e decorata con ghirigori di crema chantilly.
Ho stappato Beaujolais nouveau e Gewurztraminer.
Abbiamo concluso con un virile Calvados (che portava in remota memoria le mele del sidro da cui era stato distillato) ed un Grand Marnier, per le signore.
Questa è la Francia in tavola? Sarebbe superbo sostenerlo.
Si è trattato di un piccolo tour de France nei meandri di una cucina ricchissima che riserva sorprese a non finire.

Charles De Gaulle sosteneva l’impossibilità di governare un popolo con così tanti formaggi (350 tipi). Beh, l’Italia ne ha più del doppio!
IL PRANZO DI BABETTE
Il pranzo di Babette (Babettes gæstebud) è un film del 1987, sceneggiato e diretto da Gabriel Axel, tratto dall'omonimo racconto di Karen Blixen, vincitore dell'Oscar al miglior film straniero. È stato presentato nella sezione Un Certain Regard al 40º Festival di Cannes, ottenendo la menzione speciale della giuria ecumenica.
Trama
Alla fine dell'Ottocento in un piccolo villaggio della Danimarca vivono due anziane sorelle, Martina e Philippa, così chiamate in onore di Martin Lutero e Filippo Melantone. Figlie di un pastore protestante, decano e guida spirituale del posto, dopo la sua morte hanno ereditato la direzione della locale comunità religiosa respingendo le proposte di matrimonio e continuando a vivere una vita semplice e frugale, per aiutare i compaesani in difficoltà. Un giorno si presenta alla loro porta, stremata, la parigina Babette Hersant, sfuggita alla repressione della Comune di Parigi, durante la quale il generale Galliffet le ha fatto uccidere il figlio e il marito. Babette viene accolta dalle anziane signorine grazie alla lettera di Achille Papin, un vecchio corteggiatore di una delle due, e si guadagna l'ospitalità facendo da governante e contribuendo all'attività di beneficenza. Dopo quattordici anni da Parigi arriva a Babette la vincita di diecimila franchi d'oro alla lotteria. Le due sorelle pensano che Babette userà la grossa somma per tornare in Francia, ma lei chiede di poter dedicare un pranzo alla memoria del pastore loro padre, nel centenario della sua nascita. Martina e Philippa, anche se lusingate, vedono il banchetto come una minaccia alla loro vita tranquilla, e ottengono dagli abitanti del villaggio la promessa di non proferire parola sul cibo. I dodici invitati arrivano e con loro il generale Lorens Lowenhielm, in gioventù spasimante di una delle sorelle, che capisce subito che quello sarà un pranzo speciale. Aiutati dalla bontà del cibo, dall'atmosfera e dall'amore con cui i piatti sono stati cucinati da Babette, tutti diventano gioviali e felici. Mentre i ricordi passati riaffiorano, arrivano le splendide quaglie en sarcophage. Il generale racconta del Café Anglais di Parigi, dove cucinava uno chef donna che avrebbe fatto poi perdere le proprie tracce, una persona che riusciva con la sua cucina sublime a trasformare un banchetto «in una avventura amorosa». I commensali, seguaci di una vita priva di piaceri, saranno letteralmente sedotti ed inebriati dal pranzo che Babette – è proprio lei la cuoca del Café Anglais, ma loro non lo sanno – ha voluto organizzare per poter nuovamente esprimere il suo talento di artista. Pur evitando ogni commento sulle vivande ed eludendo i commenti entusiasti del generale, trovano la forza per superare le discordie che li dividevano, arrivando alla fine a danzare tutti insieme tenendosi per mano sotto il cielo stellato, prima di riguadagnare le proprie abitazioni. Il generale durante il brindisi dice che a quel pranzo «rettitudine e felicità si sono baciate», riprendendo le parole che il decano aveva pronunciato in presenza di Babette molti anni prima. La cuoca, per procurarsi gli ingredienti, le bevande, i cristalli e le stoviglie, senza dirlo a nessuno ha speso tutto il suo denaro e, nuovamente povera, rimane in Danimarca – del resto, in Francia non ha più nessuno – ma, come lei sottolinea alle due sorelle quando tutti gli invitati sono andati via ignari della sua identità, «un artista non è mai povero».
Menù
Brodo di tartaruga
Blinis Dermidoff
Quaglie in crosta
Insalata mista:
Radicchio belga e noci in vinaigrette
Formaggi francesi
Savarin al rum
Frutta mista:
Uva, pesche, papaia, ananas e melograne
Caffé
Friandises
Vini
Amontillado
Clos de Vougeot 1845
Champagne Veuve Clicquot 1860

BRODO DI TARTARUGA
Ingredienti
1 tartaruga marina,
1 cipolla,
1 spicchio d’aglio,
2 rametti di rosmarino,
qualche foglia di salvia,
qualche foglia di alloro,
3 chiodi di garofano,
1 noce moscata,
un po’ di zenzero,
un bicchiere di vino Vernaccia,
olio extravergine d’oliva,
aceto,
burro,
sale, pepe, crostini di pane.
Preparazione
Tagliare la testa alla tartaruga quindi appenderla per gli arti posteriori affinché fuoriesca tutto il sangue. Conclusa l’operazione, adagiare la tartaruga in una capiente pentola colma d’acqua bollente e separarne la carne dal guscio. sciacquare poi la carne, inciderla e ripulirla dalle interiora. Disporla ora in un recipiente con olio, sale, aceto, pepe ed erbe aromatiche, lasciandola a marinare per almeno 3 ore. Fare sgocciolare la carne e sistemarla in una casseruola con l’aggiunta di olio, qualche noce di burro, sale, spezie, un po’ di zenzero, un trito di cipolla e aglio e far rosolare il tutto; unire un cucchiaino di zafferano, un bicchiere di vernaccia e coprire con acqua cuocere a fuoco moderato per un’ora e servire con crostini di pane.
BLINIS DERMIDOFF CON SALSA SMETANA
Ingredienti e dosi per 4 persone
150 g di farina di grano tenero tipo 00,
2 uova,
100 ml di panna da montare,
10 g di lievito di birra,
250 ml di latte,
burro q.b,
1 pizzico di sale
per la Salsa Smetana 500 gr. di panna da montare,
60 gr. di Yogurt naturale,
3 gocce di limone.
Preparazione
Per la Salsa Smetana. Mescolare gli ingredienti e lasciare maturare coperto per 2 giorni a temperatura ambiente. Filtrare, montare con le fruste, condire con sale, pepe, limone. E’ pronta quando il cucchiaio resta in piedi.
In una terrina sciogliete il lievito di birra con il latte tiepido; unite metà farina mescolando bene con una frusta e lasciate riposare l’impasto coperto da un canovaccio per almeno 2 ore. Trascorso il tempo di riposo, incorporate al composto la restante farina e 2 tuorli, facendo attenzione che non si formino dei grumi. Montate la panna e gli albumi a neve con un pizzico di sale, aggiungete entrambi all’impasto e lasciate riposare per circa 30 minuti. Cuocete quindi le frittelle per pochi minuti mettendo un mestolo dell’impasto in un padellino imburrato e rigirandole una sola volta a metà cottura. I blinis dovranno risultare soffici e dorati.
QUAGLIE IN CROSTA
Ingredienti e dosi per 4 persone
4 Quaglie disossate,
tartufo nero,
2 cucchiai di vino Madera,
brodo,
4 vol-au-vent,
Per il paté
75 gr. Fegatini di pollo,
50 gr. di champignons tritati,
12 scalogni tritati,
60 gr. di lardo a cubetti,
4 fettine di lardo,
50 gr. di burro,
sale,
pepe,
timo,
vino bianco.
Preparazione
Rosolate il lardo nel burro, toglietelo e nel fondo rosolate i fegatini, riaggiungete il lardo, gli champignons, lo scalogno, il timo, il sale, il pepe e saltate tutto per 2 minuti. Togliete i fegatini e sfumate col vino bianco, poi passate tutto al mixer aggiungendo il burro. Mettete in frigorifero. Riempite le quaglie col patè, mettetevi sopra una lamella di tartufo e avvolgete con la fetta di pancetta. Cuocete in pirofila con burro a 200 gradi per 15-18 minuti.
Togliete le quaglie e diluite il fondo con il madera e il brodo. Mettete le quaglie nei vol-au-vent, bagnate col fondo e infornate per 5 minuti.
SAVARIN AL RUM CON FRUTTA GLASSATA
Ingredienti
Per la pasta Farina 450 gr
Burro 120 gr
Zucchero 40 gr
Uova 4
Latte intero 500 ml
Lievito di birra 15 gr
Gelatina neutra per lucidare 100 gr
Sale 1 cucchiaio da tè
Per la bagna Acqua 500 Ml, Zucchero 250 Gr, Rum 100 Ml
Per farcire Panna montata zuccherata - 250 ml, Frutti rossi misti 200 gr
Preparazione
Sciogliete il lievito di birra e impastate il composto con 150 g della farina a disposizione. Amalgamate gli ingredienti e mettete il composto a lievitare per un'ora. Trascorsa l'ora, riprendete il lievitino ed unitevi lo zucchero, le uova e la farina; lavorate l'impasto fino ad ottenere una buona incordatura ovvero il composto deve essere bello elastico. Aggiungete, quindi il burro morbido a fiocchetti e continuate la lavorazione dell'impasto fino a quando quest'ultimo ingredienti risulti completamente incorporato e assorbito. Trasferitelo in uno stampo per savarin. Coprite lo stampo con un canovaccio e lasciate lievitare per circa 2 ore. Infornate i savarin a 200°C per 20 minuti verificando la cottura con la prova stecchino. Sfornate i savarin, lasciateli riposare per un paio di minuti, quindi sformateli. Mentre i savarin si raffreddano, preparate la bagna: fate bollire l'acqua con lo zucchero, spegnete il fuoco ed unite il rum. Bagnate i savarin immergendoli nella bagna ancora tiepida, quindi trasferiteli su di una griglia a scolare dalla bagna in eccesso. Lasciate riposare il tutto per circa 3 ore, spennellate con della gelatina neutra. Prima di servirli decorate con la panna montata e i frutti rossi.

CENA TIROLESE

Al Caffé del Duomo di Savona rivive la cucina della periferia d'Italia
CENA TIROLESE
Giovedì 26 Gennaio 2017 alle ore 20.30 al Caffè del Duomo di Savona in via Manzoni Casa Bergese organizza con Casa Kettmeier una cena degustazione denominata Cena Tirolese. Nat Russo parlerà sul tema Cucina di confine. Interprete della serata lo chef Christian Stantero. Lo spartito prevede il seguente concerto di sapori:
Entrées
Tirtlen
Smacafam
Minestre
Knödelsuppe
Spätzle
Piattoforte
Capriolo con mirtilli
Rape alla trentina
Dessert
Pane dolce alla tirolese con frutta secca
Mousse di panpepato
Alcools
Hugo
Alto Adige Metodo Classico Brut DOC Kettmeier
Alto Adige Pinot Nero DOC Kettmeier
Bombardino
 
Cena 25 euro (tutto incluso).


5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER

 
“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini.
Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, mii, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).