martedì 28 maggio 2024

Corso di cucina: Lezione 7 Pane

BAGUETTE
La baguette (dall'italiano bacchetta), in italiano baghetta, francesino o pan francese, è un particolare tipo di pane distinto dalla sua forma molto allungata e dalla sua crosta croccante, originario della Francia.
La forma classica della baguette è di 5 o 6 cm di larghezza e 3 o 4 cm di altezza, lunga circa 65 centimetri e con un peso di circa 250 grammi. Le baguette più corte sono spesso usate per fare i panini, oppure vengono tagliate a fette e servite con formaggio fresco o pâté.
Le baguette sono spesso legate nell'immaginario collettivo come uno dei prodotti culinari più noti della Francia, specialmente a Parigi, ma sono reperibili in tutto il mondo.
La baguette è un discendente del pane sviluppatosi a Vienna nella metà del XIX secolo, quando si iniziò ad utilizzare i forni a vapore, che favorivano la formazione della crosta croccante e dei solchi obliqui che ancora distinguono l'odierna baguette. La forma venne adottata in Francia nell'ottobre del 1920, quando una legge vietò ai fornai di lavorare prima delle quattro, rendendo impossibile cucinare le tradizionali pagnotte rotonde in tempo per la colazione dei clienti: la baguette risolse il problema perché può essere preparata e infornata molto più brevemente.
Le leggi francesi del cibo definiscono come «pane della tradizione francese» un prodotto contenente solo i seguenti 4 ingredienti: acqua, farina, lievito (di birra o pasta madre) e sale.
L'aggiunta di qualsiasi altro ingrediente impedisce di usare il nome di «pane della tradizione francese» per il prodotto finale.

CIABATTA
La ciabatta è un classico tipo di pane italiano con un alto contenuto di liquidi circa il 70% sulla farina, generalmente senza lipidi, riconoscibile dalla grande alveolatura della mollica, dalla crosta generalmente bruna e dalla sua croccantezza.
L'impasto è formato in gran parte da biga a cui verrà aggiunta poi nella fase di impastamento una piccola quantità di farina.
14500 g di biga
4000 g di farina tipo 0 (w 280)
9800 g d'acqua
140 g malto
140 g integratore
280 g sale
1000 g d'olio d'oliva (a scelta)
150 g lievito di birra
Unire farina, biga, i 3/4 dell'acqua, lievito, olio, malto, integratore e fare andare l'impasto in prima velocità affinché non sia ben agglomerato.
Unire il sale e di seguito un goccio d'acqua per facilitarne l'assorbimento, dopodiché fare girare l'impasto in seconda velocità aggiungendo lentamente il restante dell'acqua. Fare impastare bene.
Le tempistiche dell'impasto sono abbastanza lunghe, è preferibile utilizzare acqua fredda.

CIAPPE
Prodotto a base di farina di grano. Si presentano sottili, dal colore dorato, croccanti e saporite in bocca. In dialetto ligure, ciappa significa pietra piatta sottile come la lastra di ardesia il cui nome deriva da ardere: infatti grazie alle sue caratteristiche fu sicuramente uno dei primi metodi di cottura usate dall'uomo.
Ancora oggi si utilizza questo strumento per cucinare la carne e il pesce senza l'aggiunta di grassi; noto è il tonno in sciä ciappa.
Lastra di ardesia è anche la tradizionale copertura dei tetti in Liguria dove le tegole vengono denominate ciappe: la stessa parola nel ponente ligure indica una sorta di schiacciatina, resa croccante e friabile dall'olio extravergine di oliva della Riviera.
Zona di produzione: Costa del ponente ligure, nel territorio del comune di Taggia
Ingredienti: farina, acqua, olio e sale.
Preparazione: la farina (di grano tenero) viene lavorata con acqua, olio e sale e stesa formando dei dischetti dello spessore di pochi millimetri e del diametro di 10/15 cm. Le ciappe vengono cotte al forno e si mantengono per 15/20 giorni.
farina,
acqua,
olio
sale. la farina (di grano tenero) viene lavorata con acqua, olio e sale e stesa formando dei dischetti dello spessore di pochi millimetri e del diametro di 10/15 cm. Le ciappe vengono cotte al forno e si mantengono per 15/20 giorni.
Ciappe La zona di produzione è la Costa del ponente ligure, nel territorio del comune di Taggia. Prodotto a base di farina di grano. Si presentano sottili, dal colore dorato, croccanti e saporite in bocca. In dialetto ligure, ciappa significa pietra piatta sottile come la lastra di ardesia il cui 164 nome deriva da ardere: infatti grazie alle sue caratteristiche fu sicuramente uno dei primi metodi di cottura usate dall'uomo. Ancora oggi si utilizza questo strumento per cucinare la carne e il pesce senza l'aggiunta di grassi; noto è il tonno in sciä ciappa. Lastra di ardesia è anche la tradizionale copertura dei tetti in Liguria dove le tegole vengono denominate ciappe: la stessa parola nel ponente ligure indica una sorta di schiacciatina, resa croccante e friabile dall'olio extravergine di oliva della Riviera.

GALLETTE DEL MARINAIO
gallette del marinaio
500 g Acqua
1000 g Farina w 320
5 g Lievito di birra secco
1 g Sale
Le gallette da Marinaio sono praticamente delle focaccine secche, quasi immangiabili se non bagnate, ed erano utilizzate al posto del pane sia nelle zuppe che nelle insalate.
Pare che sin dal 1500 venisse fatto uso di queste gallette del marinaio sulle navi, insieme ai biscotti, che si conservavano per lunghi periodi. La storia ci narra che queste gallette di pane erano preparate per chi partiva per mare ed era destinato a trascorrerci lunghi periodi. Le gallette del marinaio molto secche e leggere si conservano per mesi e anticamente alla bisogna venivano bagnate nell’acqua di mare per essere ammorbidite; questo è un’altro il motivo per cui nella ricetta c’è pochissimo sale. Una volta ammorbidite venivano sgranocchiate cosi o anche cucinate insieme al pescato. Con il passare degli anni è divenuto sempre più difficile trovare nei forni questo tipo di pane che però sta tornando di moda soprattutto nella cucina casalinga.
Mettiamo nella ciotola dell'impastatrice acqua e lievito e mescoliamo. Aggiungiamo la farina ed iniziamo ad impastare. Appena l'acqua è assorbita aggiungiamo il sale e continuiamo ad impastare finche l'impasto non si compatta. Stacchiamo l'impasto dal gancio e riprendiamo ad impastare per altri 3-5 minuti. Trasferiamo l'impasto sulla spianatoia. Pesiamo dei pezzi da 80 - 90g e formiamo delle palline. Copriamo con la pellicola trasparente e lasciamo riposare 30 minuti. Spianiamo le palline con il matterello fino a 0,5 cm di spessore e copriamo i dischi risultanti con un telo e della pellicola di plastica. Lasciamo lievitare circa 45 minuti. Riprendiamo i dischi di pasta e facciamo su di essi dei fori con una forchetta o con il bucasfoglia. Trasferiamo delicatamente sulle teglie ed inforniamo a circa 220° per 8-10 minuti. Trascorsi 10 minuti trasferiamo le gallette dalle teglie alle griglie e inforniamo di nuovo per circa 5-6 minuti. Trascorsi 5-6 minuti spegnamo il forno apriamo leggermente la porta del forno e lasciamo raffreddare. Ecco le gallette del marinaio che sigillate all'interno di un contenitore dureranno anche mesi.

GRISSINO

Il grissino (ghërsin in piemontese) è uno dei più celebri e diffusi prodotti della gastronomia torinese, nonché uno dei più noti della cucina italiana all'estero. Tradizionalmente la sua nascita si fa risalire al 1679, quando il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico lanzese Teobaldo Pecchio, inventò questo alimento per poter nutrire il futuro re Vittorio Amedeo II, di salute cagionevole ed incapace di digerire la mollica del pane. Re Carlo Felice li prediligeva così tanto che, in palco, al Teatro Regio, ne sgranocchiava per passatempo. Il successo dei grissini fu particolarmente rapido, sia per la maggiore digeribilità rispetto al pane comune, sia per la possibilità di essere conservato anche per diverse settimane senza alcun deterioramento. Fra i grandi estimatori del grissino torinese, non si può non citare Napoleone Bonaparte, il quale creò, all'inizio del XIX secolo un servizio di corriera fra Torino e Parigi prevalentemente dedicato al trasporto di quelli ch'egli chiamava les petits bâtons de Turin. Del tutto identica a quella del pane normale, salvo che la forma lunga e stretta fa sì che la cottura sia più uniforme e quindi, causa la sottigliezza dell'impasto, il prodotto finale in pratica è come pane di sola crosta, cioè privo di mollica. Gli ingredienti sono: farina 00, acqua, lievito e sale. Recentemente sono state introdotte varianti nella composizione che vengono commercializzati come "grissini al...": latte al posto dell'acqua, aggiunta di olio di oliva, aggiunta di grasso animale (strutto in genere), aggiunta di aromatizzanti vari, fino a variarne la forma (più tozza). L'aggiunta di sostanze grasse rende il grissino più "morbido", ma ne limita la durata di conservazione. La forma di grissino più antica e tradizionale è indubbiamente il robatà, che in piemontese significa "caduto" (o anche "rotolato"), di lunghezza variabile dai 40 agli 80 cm, facilmente riconoscibile per la caratteristica nodosità, dovuta alla lavorazione a mano. Il robatà di Chieri è incluso nella lista prodotti agroalimentari tradizionali italiani del ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Sono allo stesso modo considerate zone di produzione classica del robatà il Torinese, la zona di Andezeno e il Monregalese. L'unica altra forma di grissino tradizionale e tutelata è il "grissino stirato". D'invenzione più recente rispetto al robatà, si distingue da questi in quanto la pasta, invece che essere lavorata manualmente per arrotolamento e leggero schiacciamento, viene allungata tendendola dai lembi per la lunghezza delle braccia del panificatore, il che conferisce maggiore friabilità al prodotto finale. Soprattutto questo tipo di lavorazione permise la produzione meccanizzata già a partire dal XVIII secolo. Ne esistono anche diversi tipi aromatizzati (all'origano, al sesamo, al cumino, ecc.).

MICCA
Con il termine di "miseria" a Busseto si identifica un pane che, al di fuori del paese, viene chiamato "micca", comune a tutta la Padania. Quando il peso è superiore al mezzo kg., allora diventa la "gran      miseria", retaggio di un passato recente dove, quando non c'era nulla da mangiare, si mangiava solo pane: "miseria", se piccolo, e - non senza contraddizione - "gran miseria" se grande.
Composizione: farina di grano tenero, acqua, strutto raffinato, lievito naturale, sale.
La farina viene impastata con lievito di birra sciolto in acqua salata e lo strutto fuso. L'impasto, duro, viene lavorato a lungo lasciandolo fermentare per molte ore. Quando la lievitazione è completata si formano dei pezzi dalla forma oblunga di 30 cm. circa e dal peso di 2 etti e mezzo. Vengono incisi nel centro assumendo la forma di farfalla. Si cuoce nel forno caldo.

PAN MARTÌN
pan Martìn
farina di castagne
farina di grano in parti uguali,
sale
lievito di birra (venti grammi circa per un chilo di farina),
acqua.
Unisco gli ingredienti e li impasto. Faccio riposare il composto per quarantacinque minuti, quindi inforno in una teglia unta con olio d'oliva. Faccio cuocere per circa un'ora e mezza.
Le castagne furono talmente fondamentali per l'alimentazione e, spesso, sopravvivenza delle popolazioni dell'entroterra, da essere considerate il pane dei poveri. Oltre a questa esplicita metafora, va detto che un po' di farina di castagne veniva sempre unita a quella più preziosa e rara di grano per preparare il pane. Tale variante arricchiva di zuccheri il prodotto da forno e lo rendeva più sostanzioso e nutriente. Questo tipo di pane scuro, di tradizione domestica, dall'aroma delicatamente dolce che gli viene conferito dalla presenza della farina di castagne nella miscela di preparazione, prese il nome di Pan Martìn probabilmente dal giorno di San Martino, 11 novembre, quando era pronta la farina di castagna. Il Pan Martìn è ottimo consumato caldo insieme al latte, ai formaggi e ai salumi dell'entroterra. La zona di produzione è l’entroterra spezzino e genovese, in particolare, val di Vara, val Graveglia e valle Sturla Il luogo dove veniva posto tradizionalmente il testo era l'essiccatoio. La parte inferiore delle seccatoio, infatti, fungeva anche da cucina: dal solaio pendeva un gancio al quale si applicava la campana, che creava, calata sul testo con un meccanismo di contrappesi, un rustico forno.

PANE D'ORZO
pan d'ordiu carpasinn-a
Nella valle Argentina in provincia di Imperia, alle falde del monte Grande, sorge un antico paese caratterizzato dall'architettura tipica montana della zona, con i muri in pietra a vista e i tetti in ardesia. È Carpasio, il cui nome sembra derivi da Cara Pax, un trattato di pace stipulato tra i Liguri e i Romani. Carpasinn-a, pane d'orzo, è invece il nome del prodotto tipico di questo borgo dalla storia antica e di Badalucco. C'era un tempo in cui il grano era raro e pertanto si macinavano anche altri cereali per ottenere la preziosa farina, tra questi c'era anche l'orzo che qui sostituiva il frumento nella realizzazione del pane. Oggi l'orzo per la produzione di questo pane arriva ormai dal Piemonte. La carpasinn-a è sostanziosa ma molto dura, tanto da dover essere ammorbidita nell'acqua prima di venir consumato condita con olio, aglio, pomodoro, acciughe e foglie di basilico come accade per le friselle meridionali.
Nel mese di settembre a Carpasio si rivivono i tempi della transumanza e protagonista della festa è la carpasina che insieme al latte e al formaggio, rappresenta il cibo dei pastori quando per alcuni mesi vivevano negli alpeggi.
Pane d'orzo biscottato, di consistenza dura e dal caratteristico colore dorato.
Ingredienti:
farina d'orzo, acqua, lievito di birra.
Lavorazione:
impastare la farina con l'acqua e il lievito di birra. Lasciare in riposo l'impasto coperto con la farina di orzo. Riprendere l'impasto lavorandolo bene e a lungo, formando poi delle lunghe pagnotte. Con un filo di spago tagliare delle fette che devono essere disposte nelle teglie e cotte nel forno a legna non troppo caldo per un'ora. Togliere dal forno, girare dall'altra parte e rimettere in forno, completare la cottura per un'ora ancora, sempre a bassa temperatura.

PANE DI CASTAGNE
pane di castagne calabrese
Il Pane dei castagne (o di castagna) è un tipico alimento che veniva usato dalle popolazioni più disagiate, soprattutto nei centri delle aree interne delle Calabria, come alimento alternativo al più costoso pane tradizionale ottenuto dalla farina 00, ma anche per sfruttare la castagna, di cui sono molto ricche alcune aree della regione. Il pane veniva prodotto e consumato soprattutto nei periodi invernali, quando molti centri montani rimanevano completamente isolati a causa delle abbondanti nevicate, e risultava difficile il reperimento della farina per la produzione del pane.
Questo prodotto assume forma circolare, di piccole dimensioni e del peso di 1 o 1,5 kg. E' un prodotto ricavato dalla lavorazione della farina di castagne, farina prodotta per metodo di essiccazioni delle castagne dopo adeguata lessatura e successiva trasformazione in purea, oppure con le castagne macinate dopo essiccazione.

PANE DI PATATE

Questo tipo di pane è sinonimo di povertà: era infatti consumato soprattutto dalle famiglie meno abbienti che utilizzavano le patate in sostituzione di parte della farina di grano, economiche e sostanziose, la cui produzione risulta tutt'oggi notevole nelle valli del Casale e del Pignone in Comune di Pignone. Rappresenta un modo di mangiare povero legato strettamente alle condizioni socio-economiche di queste valli. I panini sono ottimi se serviti unitamente a saporiti insaccati.
Pane ottenuto dall'impasto di farina e patate, di forma tonda o allungata e di piccole dimensioni: il suo peso massimo è infatti di mezzo chilo. Il colore è dorato, la crosta è molto saporita e racchiude un interno morbido.
1 Kg farina di grano, 

2 Kg di patate di Pignone, 
sale q.b., 
poco olio e lievito. 
Con queste dosi si ottengono circa 3 Kg di pane.
Nel tondo della farina opportunamente lavorata mettere le patate bollite e passate, aggiungendo un pizzico di sale e poco olio. Dividere il composto ottenuto in piccoli pezzi, schiacciandoli leggermente con il palmo della mano. Lasciare lievitare per un ora circa in ambiente caldo. Intanto, portare il forno a 150°C di temperatura, quindi mettere i panini in una grande teglia unta con poco olio e infornare il pane. Qualora si disponga di un forno a legna non occorre la teglia. Il pane sarà pronto quando inizia ad acquisire la classica doratura. Si consiglia di consumare il pane entro due giorni.

PANE DI SEGALE
Il pane nero, o pane di segale, è un tipo di pane di colore più scuro, usato in sostituzione al pane bianco, soprattutto nelle regioni di lingua tedesca e scandinava.
Questo pane viene impastato usando la farina di segale, al posto di quella bianca, dato che la segala era maggiormente resistente ai climi freddi tipici dei paesi montani, ma anche all'aridità.
Nella cucina altoatesina esistono storicamente tre variazioni di pane nero:
il Vinschger Paarl: questo pane viene impastato usando farina di segale e grano; il panino viene ottenuto unendo due pani rotondi e piatti, da qui il nome “paarl”, ovvero coppia. Di questo pane si è riscoperta la ricetta, che era custodita dai frati benedettini dell'Abbazia di Monte Maria, sopra Burgusio nel comune di Malles.
il Schüttelbrot (letteralmente: pane scosso), la schiacciata tradizionale della val d'Isarco. Il nome del pane è dovuto al fatto che l'impasto a tre quarti della lievitazione viene battuto e appiattito utilizzando un’assicella di legno rotonda.
il Pusterer Breatl della val Pusteria, si ottiene impastando farina di segale e di grano.
Queste tipologie di pane sono nate come un pane per poveri, che veniva cotto soltanto due/tre volte l'anno e conservato al buio.
In Valtellina il pane di segale, pan de séghel è prodotto in tre varianti:
la ciambella del diametro di circa 15 cm e di 1,5 cm di altezza
la Brazzadéla ossia la ciambella fatta essiccare al sole infilzandola su pioli di legno.
la ciambella con aggiunta di anice.
In Valtellina è possibile trovare ogni giorno il pane di segale fresco oppure la Brazzadelà confezionata. Il pane di segale con l'anice è reperibile soprattutto in alta Valtellina.

PANELLA
La panella, detta anche pattona, decisamente sostanziosa e saporita, era consumata come piatto unico dai contadini. La totale mancanza di grassi non permetteva però un apporto nutrizionale completo che veniva soddisfatto da altri piatti. In valle Sturla la panella era utilizzata anche in sostituzione del pane. Veloce da preparare e da cuocere, si trovava sulle mense ad accompagnare il pasto giornaliero. Per le occasioni si arricchiva di pezzi di salsiccia. Lo stesso piatto era anche preparato sostituendo alla farina di castagna quella di mais.
Tipica del Levante ligure è una preparazione a base di farina di castagne, di forma circolare e con un colore marrone più o meno intenso a seconda del grado di cottura.
Ingredienti: 1 chilo di farina di castagne, acqua, sale, olio extravergine d'oliva
Preparazione: ponete la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, e aggiungete acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Quindi procedete alla cottura versando la pastella in una teglia unta e ponendo in forno a 180° per circa un'ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.
Nella versione antica la panella si cuoceva su fuoco a legna in un testo in terracotta o ghisa. In questo modo era possibile arricchire la preparazione con foglie di castagno, usate per evitare che il composto si attaccasse come una sorta di antica carta-forno.
Le foglie di castagno si dovevano raccogliere a fine luglio direttamente dagli alberi oppure a settembre-ottobre prima che cadessero (la tradizione vuole che il giorno di San Lorenzo non si dovessero raccogliere foglie, in quanto non si sarebbe riusciti a conservarle). Queste foglie ordinate in fasci di spago erano poste ad essiccare al chiuso o all'aperto. Così conservate, a causa dei bordi troppo stropicciati, non sarebbero state adatte all'uso: si provvedeva quindi alla loro preparazione qualche giorno prima di usarle. Bagnate in acqua bollente, si lasciavano scolare (per evitare formazione di muffa) e si ponevano sotto peso in careghèira per circa mezza giornata. Rimaneva quindi solo da applicare l'arte della loro corretta disposizione sul tagliere, pena l'imperfetta riuscita del piatto, e ricoprirle con il composto steso.
Intanto il testo, generalmente posto nell'essiccatoio delle castagne, veniva fatto scaldare con fuoco di legna per circa 20-30 minuti. Si asportavano quindi le braci, e si faceva scivolare dal tagliere sul basamento l'alimento da cuocere, si chiudeva la campana (cioè la parte superiore del testo) e si lasciava per il tempo necessario alla cottura, senza mai aprire. Il coperchio o campana del testo, era movimentata attraverso un contrappeso, per permettere con minimo sforzo la regolazione della sua altezza.

1 chilo di farina di castagne,
acqua,
sale,
olio extravergine d'oliva
Ponete la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, e aggiungete acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Quindi procedete alla cottura versando la pastella in una teglia unta e ponendo in forno a 180° per circa un'ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.

PANIGACCIO
Il panigaccio è un tipo di pane rotondo, non lievitato, cotto in uno speciale piatto di terracotta e mica, chiamato Testo, arroventato a fuoco vivo in un falò o in un forno a legna. Una pastella di farina, acqua e sale si frappone tra un testo e l'altro, sino a formare una pila. La consistenza finale è morbida o croccante a seconda del tempo di cottura.
Si possono gustare con gli affettati, formaggi molli come lo stracchino e e il gorgonzola, o con vari sughi, da quello di funghi al pesto. Il modo più adatto per gustarli con dei sughi è quello di farli bollire una volta raffreddati, servirli e versare il sugo, creando un primo piatto originale. In alcuni ristoranti della Lunigiana esiste la variante "dolce": si servono a fine pasto con della cioccolata da spalmare.
I panigacci hanno origini molto antiche, sono diffusi nella Lunigiana ed hanno i natali nel paese di Podenzana, dove è stato costituito un consorzio tra i ristoratori, per mantenere inalterato il sapore antico di questo semplice prodotto. In Liguria i testi di terracotta e mica, vengono fabbricati da tempo immemorabile ad Iscioli, nel comune di Ne, nell'entroterra di Chiavari e si possono trovare nei negozi e nei consorzi agrari del chiavarese. Nella seconda guerra mondiale, quando i tedeschi distrussero un ponte che collegava il comune di Podenzana con il resto della regione, gli abitanti del comune sopravvissero mangiando panigacci fatti con farina di ghiande e castagne. A Ponzanello (Comune di Fosdinovo) un piatto tipico sono le focaccette, una variante dei panigacci.
Sono fatti con acqua, farina e sale e si preparano mescolando gli ingredienti fino a ottenere una pastella fluida. Tale pastella viene quindi versata nei testi, precedentemente lasciati arroventare su di un fuoco vivace, tipicamente in un falò o in un forno a legna. Quando sono roventi al calor rosso, vengono estratti dal forno e fatti raffreddare un poco poi viene fatta una pila di testi, in modo tale che stando nel mezzo la pastella si cuocia sui due lati. Una volta "smontata" la pila i panigacci si servono in cestini di vimini e usati come companatico di salumi e formaggi cremosi. In Liguria i panigacci si chiamano testaieu e si servono durante le feste di paese autunnali, nell'entroterra del levante, con un sostanzioso strato di pesto alla genovese, con parmigiano grattugiato o dolci al miele e naturalmente un vino nuovo nostralino.
I panigacci cuociono in pochi minuti a temperature molto alte e non necessitano di lievitazione.

PIADINA
La piadina romagnola, è un prodotto alimentare composto da una sfoglia di farina di frumento, strutto (o olio di oliva), sale e acqua, che viene tradizionalmente cotta su un piatto di terracotta, detto teglia (teggia in romagnolo), ma oggi più comunemente viene cotta su piastre di metallo oppure su lastre di pietra refrattaria chiamate "testo" (test in dialetto). È, per dirla con Giovanni Pascoli, «il pane, anzi il cibo nazionale dei Romagnoli»: in realtà, lo era innanzitutto per i più poveri.
La piadina romagnola è inserita nell'elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani della regione Emilia-Romagna.
Diverse sono le correnti sull'origine della piadina e sulla sua forma e impasto originale. Fin dagli antichi Romani ci sono tracce di questa forma di "pane". La prima testimonianza scritta della piadina risale all'anno 1371. Nella Descriptio Romandiolae, il cardinal Legato Anglico de Grimoard, ne fissa per la prima volta la ricetta: "Si fa con farina di grano intrisa d'acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po' di strutto". I prodromi dell'odierna piada possono essere individuati anche in una focaccia a base di farina di ghianda ed altre farine povere in uso in tempi antichi nel territorio del Montefeltro.
L'etimologia è incerta; i più riconducono il termine piada (piê, pièda, pìda) al greco placus, focaccia. Originariamente, in effetti, è una schiacciata lievitata e ben condita cotta nel forno: come tale è citata nel 1371 nella Descriptio Romandiole. In seguito (dal Cinquecento all'Ottocento), mentre assume la forma attuale, altro non è che un surrogato del pane confezionato con ingredienti per lo più vili e impanificabili (spelta, fava, ghianda, crusca, sarmenti, mais, ecc.). La piadina di farina di grano è relativamente recente, così come le sue varianti ricche: la piadina unta, quella sfogliata e quella fritta. Un'altra ipotesi interessante consiste nel riscontrare la somiglianza con i termini utilizzati in altre lingue per indicare piatti simili, nell'ambito di tutti i paesi che ruotavano nell'orbita dell'Impero Romano d'Oriente (tra i quali anche la Romagna, ovviamente). Basti pensare all'ebraico pat, che significa "pagnotta" o "pezzetto", a "pita", che esiste ancora nell'aramaico del Talmud babilonese ed indica il pane in generale, o a "pide" in turco. È facile pensare, nel caso della piadina, al pane in uso presso l'esercito bizantino, di stanza per secoli in Romagna, nel nord delle Marche (fino a buona parte della provincia di Ancona), e nella valle umbra attraversata dalla via Flaminia.
Usi
Può essere mangiata come surrogato del pane per accompagnare varie pietanze nel corso del pasto.
Piadina farcita
Più spesso però viene piegata a metà e farcita in vario modo: con pezzi di salsiccia cotti alla brace o alla piastra e cipolla; con affettati vari di suino; con la porchetta; con rucola e squacquerone; con erbette o verdure gratinate; con crema gianduia, confetture o Nutella.
Cassone o crescione
Il cassone o cascione o crescione (in romagnolo carson o casòun) è una tipica preparazione basata sulla piadina dove la sfoglia viene farcita, ripiegata e chiusa prima della cottura. La farcitura di erba crescione, che ora è difficile da trovare, ma un tempo abbondava lungo i fossati, ne darebbe il nome: questa erba - di per sé già saporita - poteva venire ulteriormente insaporita con aglio, cipolla, o scalogno. Questa usanza deriverebbe dal largo uso che si è sempre fatto nella cucina romagnola di erbe (compresa la "bietola", ovvero le foglie della barbabietola che si raccoglievano per diradarne la coltura)
Oggi le farciture più comuni, con variazioni da luogo a luogo, sono: alle erbe, chiamato anche 'cassone verde', (può trattarsi di spinaci e/o bietole, e nel riminese anche 'rosole' (papaveri,  macerate nel sale), con o senza ricotta e formaggio grattugiato; con una base di mozzarella e pomodoro abbinata o meno con salumi, e chiamato anche 'rosso'; con zucca e patate, spesso arricchite di salsiccia o pancetta.
Tortello alla lastra
Il tortello alla lastra, forma tipica della Romagna Toscana, si prepara stendendo l'impasto della piadina con il matterello, per ottenere una sfoglia sottile. Questa viene farcita con un ripieno che può essere di patate lesse passate e condite con cipolla, pecorino, noce moscata, pancetta e sale, o con erbe (biete o spinaci) lessate, ricotta e formaggio grattugiato. Il ripieno viene distribuito su metà della sfoglia e coperto con l'altra metà; con la rotella si chiudono i tortelli, dividendoli in forme quadrate di 5–10 cm di lato circa. I tortelli vengono poi cotti sulla lastra per alcuni minuti, girandoli più volte come si fa con i crescioni.
Forme recenti
Forme recenti, e meno diffuse, sono il cosiddetto rotolo, preparato farcendo una piadina sottile che viene poi avvolta su sé stessa, e la piadizza®, recentemente registrata dal gruppo Piada & Piada che opera in USA così chiamata perché farcita da stesa come una pizza. Esiste anche una diversa piadina chiamata sfogliata che risulta più friabile dato che contiene un quantitativo consistente di strutto.
Diffusione
Commercializzata fresca, realizzata sul momento, in appositi chioschi anche detti piadinerie diffusi in tutta la Romagna, diffusissimi nella Riviera Romagnola, è possibile trovarla anche confezionata precotta presso la grande distribuzione. I chioschi della piadina sono colorati a bande verticali, con colori standardizzati per varie località romagnole.
A seconda della zona di preparazione ci sono alcune differenze tra piadina e piadina, per quanto riguarda la forma e la consistenza. Nel ravennate e nel forlivese è spessa e soffice, mentre nel riminese e nel pesarese è più sottile e talvolta di diametro leggermente maggiore. La piadina pesarese, poi, chiamata anche crescia o crostolo nell'entroterra, è sfogliata e saporita.
Pur essendo tipica della Romagna è ormai conosciuta in tutta l'Italia ed all'estero.
Promozione e protezione
Fra il 2002 e il 2003 si sono costituite tre associazioni per la promozione e la tutela della piadina romagnola e promotrici dell'attribuzione dell'Indicazione Geografica Protetta (marchio IGP): l'Associazione per la valorizzazione della Piadina Romagnola, l'Associazione per la promozione della Piadina Romagnola e il Comitato per la valorizzazione della piada riminese com'era e dov'era.
I marchi IGP richiesti sono: Piadina Terre di Romagna e Piada Romagnola di Rimini, differenziate fra loro principalmente per spessore e dimensioni.
Il marchio Piadina è registrato in più di 30 paesi da una ditta svizzera (Renzi AG) alla WIPO e non può essere prodotto o diffuso in questi paesi senza l'autorizzazione di questa.

Farina 500 g
Strutto 125 g
Sale fino 17,5 g
Acqua 90 ml
Lievito chimico in polvere per preparazioni salate 7,5 g
Miele 5 g
Zucchero semolato 15 g
Latte 100 ml
Per realizzare la piadina setacciate la farina e il lievito nella tazza di una planetaria munita di foglia, aggiungete lo strutto (in alternativa sostituitelo con la stessa quantità di olio di semi), il miele e azionate la macchina a velocità media per 5 minuti. Poi fermate la planetaria, incorporate lo zucchero e versate il latte a filo e sostituite la foglia con il gancio e continuate ad impastare. Mentre la planetaria impasta aggiungete l’acqua poco alla volta e per ultimo unite il sale. Quando l’impasto sarà omogeneo e si staccherà dalle pareti della tazza, spegnete la planetaria e riponete il panetto ottenuto in una ciotola e copritelo con la pellicola trasparente. Lasciate lievitare l’impasto per un ora in un luogo tiepido come il forno spento con la luce accesa. Trascorso il tempo si riposo riprendete l’impasto e stendetelo con il mattarello su un piano di lavoro leggermente infarinato, dovete ottenere una sfoglia di 2 mm circa. Ritagliate le piadine con un coppapasta da 24 cm di diametro. I ritaglia avanzati si possono lasciare riposare qualche minuto e poi impastare nuovamente. Le piadine sono pronte per la cottura: scaldate una padella dal fondo basso e cuocete le piadine su entrambi i lato per 2 minuti. Durante la cottura bucherellate la piadina con una forchetta e, se si formeranno delle bolle in superficie, schiacciatele con un coltellino o i rebbi della forchetta. Una volta cotta, trasferite la piadina su un piatto di portata e farcitela con salumi e formaggi a vostro piacimento e poi gustatela ben calda.

PIRILLA
La pirilla è un pane prodotto durante la panificazione casalinga tradizionale, ottenuto con impasto lievitato di acqua e farina di grano duro. Ottenuta per colatura diretta sulla pietra di un forno a legna con l’aiuto di una paletta. Ha una forma rotondeggiante di circa 20 cm di diametro e pochi centimetri di spessore, presenta la faccia superiore liscia, quasi levigata, dura ma non croccante. La pasta interna ha un aspetto compatto e quasi gommoso con piccoli alveoli. Richiede brevi tempi di cottura (meno di un'ora).
Nella pasta, specie se nata per essere mangiata senza condimento, possono essere inserite olive nere intere per dare sapore, a volte uva passa. Se la pirilla contiene altri ingredienti, come pomodoro, pezzi di zucca, cipolla, ecc. può prendere localmente un nome più specifico (ad esempio cucuzzata).
Lo spessore e la pasta compatta permettono un comodo spacco per la farcitura. La farcitura più usata era il pomodoro fresco, spesso solo il seme e gli umori interni del pomodoro, olio e sale. Pure peperoni fritti, a volte pure accompagnati da pomodoro fresco. Vanno molto bene le farciture che bagnano la pasta e l’ammorbidiscono un po', come i sughetti di pomodoro, cipolla e peperoni ma pure i pezzetti di carne di cavallo. Una variante sfiziosa della farcitura sono i peperoni fritti con fette di mortadella.
Presenta vari sinonimi nel Salento. I più usati sono pirilla (Ortelle, Castro), pitilla (Specchia Gallone, Poggiardo, San Cesario di Lecce), 'mpilla (Sannicola), pilla (Cursi, Cutrofiano, Melpignano, Otranto), simeddhra (Tricase, Depressa).
La pastina era preparata coi resti degli impasti recuperati dai lavaggi dei contenitori. Nella panificazione tradizionale era prodotta in pochi pezzi e generalmente destinata al consumo degli stessi panificatori occupati per diverse ore nelle operazioni di impasto e cottura. A volte era prodotta      appositamente con impasti ad hoc per il consumo casalingo e per distribuzione tra parenti e amici. Non era destinata alla vendita. Con la riscoperta delle antiche tradizioni alcuni forni industriali la producono e la vendono.
Nella tradizione salentina, comune ad altre tradizioni contadine, si procedeva con cadenza regolare alla panificazione, spesso in capientissimi forni a legna pubblici. Gli intervalli di panificazione potevano essere variabili, da cadenze bisettimanali fino a periodi di oltre tre mesi, per cui il quantitativo di farina di una o più famiglie associate, poteva costituirsi anche da un impasto di 100-200 kg. Nella panificazione una quota limitata (20%) si costituiva da pezzi pane morbido da consumarsi nei primissimi giorni in genere da tagliarsi a fette. Moltissime risultano le varianti del pane fresco spesso associate alla presenza nell'impasto di olive nere, zucca, cipolla, ecc.. o a particolari lavorazioni (taralli, pirille, ecc..) per il consumo diretto senza particolari condimenti aggiunti. La quota maggiore dell'impasto di panificazione veniva riservato, in genere, alla produzione di friselle, un biscotto di più lunga conservazione rispetto al pane fresco garantendo intervalli di panificazione maggiori.
Al termine della infornatura, i recipienti e le madie sporche dell'impasto lievitato venivano sciacquate con pochissima acqua e la pastina ottenuta calata direttamente sul piano arroventato del forno. Si cuoceva molto in fretta e veniva consumata nel forno stesso per una colazione di ristoro tra gli addetti.
La pirilla, pertanto, rappresenta più che un tipo di pane, una testimonianza del mondo agricolo arcaico ormai scomparso e molti comuni nel leccese la omaggiano con feste e sagre. La più importante e consolidata è la Festa della Pirilla nel Comune di Ortelle che nell'estate del 2009 si è svolta per la ventinovesima volta, essendo tra l'altro una delle più antiche sagre gastronomiche in assoluto nella Provincia di Lecce. All'evento è accordato il patrocinio da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri - Ministero per i Rapporti con le Regioni, del Presidente della Regione Puglia e del Comune stesso.

PITTA

La pitta è un tipico prodotto di panetteria calabrese. La pitta generalmente è una specialità da forno (tipo una focaccia) preparata con l'impasto per il pane che accompagna tradizionalmente il Morzeddhu alla catanzarisi.
farina 0 (1000gr)
lievito di birra fresco (25 gr) o una bustina di quello secco
1 cucchiaio raso di sale fino
strutto(60 gr)
1 cucchiaino di malto (facoltativo)
acqua (575 ml).
In Calabria assieme al pane "normale" per la famiglia, si faceva spesso anche una pitta chjina (pitta ripiena, dove pitta è un nome generale per una forma di pane). Tale prodotto ha l'aspetto di una pizza chiusa, ovvero formata da due strati di pasta con il ripieno al loro interno.

ROSETTA
La michetta, conosciuta in buona parte d'Italia anche come "rosetta", è un tipo di pane soffiato (quindi cavo al suo interno) che si riconosce dal tipico stampo a stella con "cappello" centrale.
Molto diffusa in Lombardia, specialmente a Milano, la michetta è stata il pane degli operai fin dal 1700, epoca durante la quale la lavorazione del pane era quasi completamente manuale.
I funzionari dell'Impero Austro-Ungarico, cui faceva capo la Lombardia dopo il trattato di Utrecht del 1713, portarono con sé a Milano alcune novità alimentari (che i Milanesi fecero proprie fino al punto di farle diventare un prodotto della loro tradizione alimentare), come l'allora famoso Kaisersemmel, un panino variabile da 50 a 90 grammi e dalla forma di una piccola rosa.
I risultati non furono, però, incoraggianti: il Kaisersemmel a Milano non rimaneva, come a Vienna, fresco e fragrante fino a sera: si rammolliva velocemente, divenendo "gommoso". L’umidità del clima lombardo penetrava eccessivamente in un prodotto igroscopico come il pane, a differenza di quanto accadeva nel più asciutto clima viennese.
Bisognava privare quel pane della mollica, svuotarlo, alleggerirlo, renderlo "soffiato": così sarebbe stato fragrante e digeribile, garantendone una migliore conservazione. I maestri panificatori milanesi riuscirono nel loro intento, creando un pane unico le cui caratteristiche l’hanno reso famoso.
Il termine michetta nasce in questo periodo. Infatti i Milanesi chiamarono il Kaisersemmel con il diminutivo di “micca”, ossia “michetta”, micchetta in milanese. La "micca", o "mica", era un pane che aveva una certa diffusione nell’Italia del nord e il cui termine, in origine, significava briciola.
Nel 2007 la michetta ottiene, dal Comune di Milano, il riconoscimento “De.Co.”(Denominazione Comunale), assegnato dal capoluogo lombardo ai prodotti gastronomici tradizionali milanesi.
La preparazione della "biga", ovvero la pasta lievitata e fermentata, avviene mescolando ed impastando farina di forza (100%), acqua (35%) con malto (0,1%) e lievito (1%) fino ad ottenere un impasto piuttosto sostenuto dalla texture perfettamente omogenea, viene quindi lasciato riposare per almeno 16 ore (tempo che varia in funzione della temperatura ambientale). La preparazione dei pastoni (forme di pasta arrotondate) avviene impastando la biga con farina di forza (20% della dose iniziale) acqua (quanto basta per ottenere un impasto asciutto e morbido) e sale (0,5% del peso totale).
Questo impasto deve avere una buona elasticità ed una texture perfetta (impastare almeno 30 min con la macchina al minimo), viene quindi passato al cilindro (macchina che ha la funzione di raffinare ulteriormente la pasta) e poi suddiviso in pezzi di circa 3kg che adeguatamente arrotondati vengono "puntati" cioè lasciati a lievitare per circa 30 min. In seguito alla lievitazione dei pastoni avviene la "spezzatura della pasta" con apposite macchine automatiche o manuali, che dividono il pastone in 37 pezzi esagonali nella forma e di ugual peso, a questo segue immediatamente l'operazione di stampa mediante macchina stampatrice o stampo a mano; vengono messe le michette su appositi telai per infornare, coperte con tela o fogli di plastica per conservarne l'umidità e lasciate lievitare per altri 30 min.
Le Michette vengono infornate tra i 220° ed i 250° a discrezione del fornaio, viene immesso abbondante vapore acqueo all'interno della camera di cottura. La cottura richiede circa 25 minuti. nei primi minuti di cottura la superficie gelatinizza a causa del rilascio di amilopectina dai granuli di amido presenti nella farina che si rompono per effetto del calore aumentando così la viscosità dell'impasto che imbastisce una trama reticolare formata dalle glutanine aumentandone l'elasticità, il lievito per effetto del calore sviluppa anidride carbonica ed etanolo che gonfiano il prodotto creando un cavo all'interno del pane che dona alla Michetta la caratteristica soffiatura.
Esistono altri pani che seguono gli ingredienti ed il processo di lavorazione della michetta, come il “maggiolino” e la “tartaruga”.

SGABEI
SGABEI
400 g di farina,
20 g di lievito di birra,
sale,
un bicchiere e ½ di acqua,
½ litro di olio evo (per friggere).
Lavorare bene l'impasto che dovrà presentarsi morbido. Lasciare lievitare per circa un'ora, quindi stendere la pasta e tagliare a strisce della larghezza di cm. 3 e della lunghezza di cm. 15 circa. Fare riposare per mezz'ora, poi friggere in olio caldo e abbondante. Quando diventano dorati, sgocciolarli, asciugarli e servirli caldi aggiungendo sale. Si servono con formaggi e salumi.
Gli sgabei sono strisce di pasta lievitata della larghezza di circa 3 cm e della lunghezza di circa 15 cm. Vengono fritti in olio evo e quando raggiungono la giusta doratura si servono caldi. La ricetta degli sgabei ha radici nella val di Magra, dove le donne friggevano la pasta avanzata del pane trasformandola in un gustoso pane fritto croccante, da mangiare con i salumi o i formaggi. Alla farina bianca veniva mescolata un po' di farina gialla che ha il potere di renderli più croccanti e asciutti. Si portavano all'ora di pranzo agli agricoltori avventizi che andavano a giornata. Allora venivano fritti nello strutto e a volte arricchiti con uva passa. Oggi, diversi ristoranti della provincia li cucinano per i propri clienti, contribuendo a conservare le tradizioni e a rispettare la memoria storica della val di Magra.
Gli sgabei sono strisce di pasta lievitata per circa un'ora in luogo caldo, della larghezza di circa 3 cm e della lunghezza di circa 15 cm. Vengono fritti in olio extravergine di oliva e quando raggiungono la giusta doratura si servono caldi. La ricetta degli sgabei ha radici nella val di Magra, dove le donne friggevano la pasta avanzata del pane trasformandola in un gustoso pane fritto croccante, da mangiare con i salumi o i formaggi. Alla farina bianca veniva mescolata un po' di farina gialla che ha il potere di renderli più croccanti e asciutti. Si portavano all'ora di pranzo agli agricoltori avventizi che andavano in giornata. Allora venivano fritti nello strutto e a volte arricchiti con uva passa. Oggi, diversi ristoranti della provincia li preparano e li cucinano per i propri clienti, contribuendo a conservare le tradizioni e a rispettare la memoria storica della val di Magra. È facile trovarli di accompagnamento ad altri piatti nelle sagre paesane estive.

TARALLO
Olio extravergine di oliva 125 gr
Vino bianco secco 200 ml
Sale 10 g
Pepe q.b.
un cucchiaino di semi di finocchietto
Farina tipo 00, 500 gr
Versate in una ciotola la farina e aggiungete l’olio, il sale, il pepe (o i semi di finocchietto) e infine il vino bianco. Impastate gli ingredienti e quando saranno amalgamati trasferite il tutto su di un piano di lavoro (meglio se su di un’asse di legno) e impastate per almeno 20 minuti fino a che il composto sarà liscio ed elastico; la sua consistenza deve essere più compatta dell’impasto del pane. Mettete l’impasto per i taralli in una ciotola e copritelo con della pellicola, quindi fatelo riposare per almeno mezz’ora al fresco. Trascorso il tempo indicato dividete l’impasto in pezzetti del peso di 7-8 gr l’uno e con il palmo della mano ricavate dei bastoncini del diametro di 1 cm circa lunghi 8 cm. Unite le due estremità del bastoncino per formare un cerchio o una goccia (come più vi piace). Ponete tutti i taralli ottenuti su di un canovaccio pulito e poi portate a bollore un tegame contenente dell’acqua: buttateci dentro una dozzina di taralli. Non appena i taralli verranno a galla scolateli e adagiateli in un vassoio foderato con un canovaccio pulito. Dopo un minuto trasferite i taralli su di una teglia foderata con carta forno e infornateli in forno già caldo a 200 ° per circa 30 minuti (o fino a che non saranno appena dorati). Estraete i taralli dal forno, toglieteli dalla teglia e lasciate raffreddare completamente i taralli prima di gustarli.
Il Tarallo è un prodotto da forno tipico della Puglia, della Campania e della Calabria classificato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali come Prodotto agroalimentare tradizionale. Viene comunque prodotto anche in altre regioni d'Italia, ad esempio in Basilicata ove esiste una variante (il tarallo aviglianese) fatta con glassa di zucchero fondente, che gli permette di assumere una colorazione bianco neve, e profumata all’anice. Principalmente si tratta di un anello di pasta non lievitata cotto in forno. L'impasto base è composto di farina, acqua, olio e sale.

TIROTTO
Il paese di Sassello, l'antica Salsole, in provincia di Savona, sembra essere stato già abitato dai tempi della preistoria, come dimostrano ritrovamenti litici. Intorno all'anno mille la sua storia è legata a quella dell'impero di Sassonia e nel Medioevo i Trovatori dedicarono più canzoni alla bellezza delle dame locali che non alle qualità d'arme dei suoi cavalieri.
Ricco di emergenze storico naturalistiche, Sassello è stato insignito della Bandiera arancione testimone dell'alta qualità ambientale. L'eccellente composizione oligominerale dell'acqua e la purezza dell'aria sono fattori fondamentali per la riuscita del pane qui prodotto, il tirotto.
Il nome deriva dal nome del pane detto tira, di forma arrotolata che prima della cottura viene leggermente tirato.
Il tirotto è un pane speciale e ne esistono diverse tipologie: tirotto comune, senza grassi aggiunti; tirotto all'olio, con aggiunta di olio; tirotto di patate, arricchito di olio e patate.
Prodotto a base di farina di grano e patate, dalla forma tirata e arrotolata leggermente, può essere condito (pane speciale) e non.
farina, 

acqua, 
sale, 
lievito, 
olio e patate.
Unire la farina con l'acqua il sale e il lievito e formare delle pagnotte di forma allungata. Dopo la lievitazione, usare le dita per formare i caratteristici buchi sulla superficie, che deve essere oliata e salata. Dopo un ulteriore periodo di lievitazione, si possono infornare.

Corso di cucina: Lezione 6 Pizze

ALL'ANDREA
pizza all'Andrea
1 kg di farina,
g 75 di lievito di birra,
mezzo bicchiere d'olio di oliva,
mezzo bicchiere di vino bianco,
cinque acciughe salate,
due spicchi di aglio,
origano,
basilico,
mezza cipolla,
olive di riviera,
salsa di pomodoro,
olio e sale.
Per l'impasto si procede come per la focaccia all'olio. Sulla superficie della focaccia si spalma poca salsa di pomodoro e si dispongono le acciughe tagliate a pezzi, le foglie di basilico intere, le olive e una spolverata di origano. Si cosparge di olio e si inforna.
Se nella composizione della farcitura entrano i prodotti del mare ecco allora l’ennesima variante della pizza ligure. Il nome è curioso pizza all’Andrea. Ai cittadini illustri di solito si dedica un monumento, spesso equestre. Al celeberrimo Andrea D'Oria (1466-1560), invece, gli onegliesi consacrarono una pizza.
Ecco spiegato il nome che è strettamente legato a quello dell'importante ammiraglio, che sembra ne fosse particolarmente ghiotto. Questa pizza, differente da quella napoletana perché cotta nel tegame, è diffusissima in tutto il Ponente ligure anche oltre gli attuali confini nazionali. La ritroviamo infatti nel sud della Francia antica ultima propaggine della Repubblica di Genova, con il nome di pissalandière o pizzalandeira, leggermente più bassa e croccante.
La ricetta originale si è nei secoli arricchita di nuovi ingredienti, a cominciare dal pomodoro e dalle olive. Ricordiamo che esiste anche la sardenaira, cioè pizza con sardine, altra versione dello stesso piatto dove le acciughe sono sostituite appunto dalle sardine.
Non sempre le regole sono rispettate e le due varianti tendono spesso a omogeneizzarsi, ottenendo un unico piatto dai nomi diversi: pisciadela, piscirà, sardenaira, machetaera, machetusa, pasta cu a pumata.
Si tratta di una Focaccia ai pesci salati con parecchi nomi locali: Macchettusa (Apricale), Pissadala (Bordighera), Pissalandrea (Imperia), Pissaladiere (Nizza), Piscarada (Pigna), Sardenaire (Sanremo).

CARCIOFI SPINACI E RASPADURA
La pizza ortolana con carciofi spinaci e raspadura
q.b. pepe
1 cipolla rossa
2 cucchiaino cappero sott'aceto
q.b. olio di oliva extravergine
4 cucchiaio vino bianco
4 cucchiaio salsa di pomodoro
4 carciofo
q.b. sale
2 cucchiaino olive taggiasche
50 grammi raspadura
40 grammi spinaci germogli
300 grammi pasta per pizza
1) Stendi la pasta da pizza e disponila in una teglia rettangolare o su una placca da forno oleata. Copri con un telo e fai lievitare per mezz’ora. Nel frattempo, metti in una terrina la salsa di pomodoro con un cucchiaio d’olio e uno d’acqua. Mescola il tutto e regola di sale. A parte, affetta la cipolla sottile.
2) Monda i carciofi, tagliali a spicchi e falli bollire per 5 minuti in acqua salata e acidulata con aceto. Terminata la cottura, sgocciola i carciofi e saltali in padella per qualche minuto con poco olio.
3) Condisci la pizza ortolana con la salsa di pomodoro e la cipolla a fettine, quindi cuoci per 20 minuti in forno preriscaldato a 220°. Trascorso il tempo, tira fuori dal forno, aggiungi capperi, carciofi e olive, quindi cuoci per altri 5 minuti.
4) Servi la pizza ortolana aggiungendo i germogli di spinaci crudi, la raspadura e una macinata di pepe appena prima di portare in tavola.

DATTERINI CON MELANZANE PINOLI STRACCIATELLA
forno
3 rametti basilico
475 grammi farina per celiaci
2 grammi lievito di birra
1 melanzane
3 rametti menta
1 cucchiaio olio di oliva extravergine
2 cucchiai patate
2 cucchiai pinoli
q.b. pomodoro datterino
q.b. sale
300 grammi stracciatella
2.5 grammi zucchero
Come preparare la pizza senza glutine al sugo di datterini con melanzane, pinoli e stracciatella
1) In una ciotola sciogli il lievito e lo zucchero in 2,5 dl d'acqua tiepida, aggiungi metà della farina e mescola rigorosamente. Aggiungi la patata schiacciata e l'olio, amalgama e aggiungi il sale; poi incorpora la farina rimasta e lavora tutto fino a quando gli ingredienti sono ben amalgamati e l'impasto risulta liscio e omogeneo.
2) Dai alla pasta della pizza senza glutine una forma sferica, mettila dentro una ciotola pulita e coprila con pellicola per alimenti e un canovaccio umido, per impedire che si secchi. Metti la ciotola in frigorifero per circa 1 ora, quindi trasferisci in luogo tiepido lasciando lievitare per almeno 3 ore.
3) Stendi l'impasto in un cerchio di 32 cm di diametro (ricorda che è privo di glutine e quindi poco elastico); trasferisci la base sopra un foglio di carta da forno e sistemala sulla placca del forno. Sala la passata di datterini, distribuiscila sopra la pasta e cuoci in forno a 220° per 15 minuti.
3) Nel frattempo, taglia a metà i datterini, saltali in padella con lo spicchio d'aglio, i pinoli e 2 cucchiai d'olio, poi salali. Taglia la melanzana a fettine sottili, condisci con sale e olio. Guarnisci la pizza con i pomodori saltati e le fettine di melanzana, cuoci per altri 15 minuti. Fuori dal forno distribuisci sulla superficie la stracciatella, le foglie di menta e di basilico. Servi subito la pizza senza glutine al sugo di datterini con melanzane, pinoli, stracciatella.

FOGGIANA
La cucina foggiana, pur mantenendo elementi tipicamente pugliesi, ha ricevuto grande influenza dalla tradizione culinaria napoletana. Per questo motivo, le caratteristiche della pizza foggiana risultano pressoché simili, almeno nell'aspetto, a quella partenopea; cucinata rigorosamente in forno a legna, di forma tonda, morbida e dai bordi piuttosto alti con la differenza che viene utilizzato come pomodoro quello tipico del Tavoliere delle Puglie.

GENOVESE
La pizza genovese è una specialità della cucina ligure che deriva dalla focaccia genovese, diffusa sin dall'antichità.
Fu preparata a Genova nel 1490, e venne chiamata "Pissa d'Andrea" in onore dell'ammiraglio genovese Andrea Doria che ne era particolarmente ghiotto. Questa focaccia, detta 'pissa' (ovvero 'pezza' in Genovese), differiva dall'odierna napoletana poiché veniva cotta in un tegame; è tuttora diffusissima in tutto il Ponente ligure ed anche oltre gli attuali confini nazionali, la ritroviamo infatti nel sud della Francia, ultima propaggine della Repubblica di Genova, con il nome di Pissaladière o Pizzalandeira, leggermente più bassa e croccante.
La ricetta originale si è nei secoli arricchita di nuovi ingredienti a cominciare dal pomodoro (dopo che si è imparato a conoscerlo ed usarlo conseguentemente alla scoperta dell'America) che si aggiungeva alle olive rivierasche, cipolle, ad un formaggio molle ligure quasi liquefatto anche noto come squaquerone, ed alle acciughe, uno dei pesci tipici della tradizione ligure. Una antica variante era la 'Sardenaira', cioè pizza con sardine, altra versione dello stesso piatto genovese, dove le acciughe sono sostituite appunto dalle sardine. Non sempre, oggigiorno, la tradizione viene rispettata e le due varianti tendono spesso ad omogeneizzarsi ottenendo un unico piatto dai nomi diversi più o meno derivanti e storpiati dalla dizione originaria: pisciadela, piscirà, sardenaira, machetaera, machetusa, pasta cu a pumata. La preparazione originaria della pizza prevedeva: focaccia di farina alla Genovese, acqua, sale, olio e lievito, ricoperta di un battuto di cipolla, salsa di pomodoro e di acciughe (Macchettu).

NAPOLETANA
La pizza napoletana, dalla pasta morbida e sottile ma dai bordi alti (detti "cornicione"), è la versione partenopea della pizza tonda ed inoltre, su scala mondiale, è anche intesa come la pizza italiana per antonomasia.
Dal 5 febbraio 2010 è ufficialmente riconosciuta come specialità tradizionale garantita della Comunità Europea.
Nel 2011, la pizza napoletana è stata presentata dall'Italia come candidata al riconoscimento UNESCO come Patrimonio immateriale dell'umanità.
L'espressione pizza napoletana, data la sua importanza nella storia o nel territorio, viene usata in alcune regioni come sinonimo per pizza tonda.
Le prime notizie riguardo alla Pizza Napoletana vengono fatte risalire al periodo che va dal 1715 al 1725. Vincenzo Corrado alla metà del Settecento scrisse un pregevole trattato sulle abitudini alimentari della città di Napoli, in cui osservò come fosse costume del popolo condire la pizza ed i maccheroni con il pomodoro. L'associazione di questi prodotti e le sue osservazioni diedero di fatto inizio alla fama gastronomica della città di Napoli ed attribuirono al Corrado un ruolo importante nella storia della gastronomia. Quelle stesse osservazioni costituiscono la data di nascita della Pizza Napoletana, un sottile disco di pasta condito con pomodoro. Le prime pizzerie comparvero a Napoli nel corso del XIX secolo e fino alla metà del XX secolo esse furono un fenomeno esclusivo di quella città. A partire dalla seconda metà del Novecento le pizzerie si sono diffuse ovunque nel mondo, sempre con il termine di Pizza Napoletana, anche se a volte non si sa neanche dove sia la città in questione.
La peculiarità della pizza napoletana è dovuta soprattutto alla sua pasta che deve essere prodotta con un impasto simile a quello per pane - ossia completamente privo di grassi - morbido ed elastico, steso a mano in forma di disco senza toccare i bordi che formeranno in cottura un tipico "cornicione" di 1 o 2 cm mentre la pasta al centro sarà alta circa 3 mm. Un veloce passaggio in un forno molto caldo deve lasciarla umida e soffice, non troppo cotta.
Nella più stretta tradizione della cucina napoletana sono previste solo due varianti per quanto riguarda il condimento:
Pizza marinara: con pomodoro, aglio, origano e olio.
Pizza Margherita: con pomodoro, mozzarella STG a listelli, mozzarella di bufala campana DOP a cubetti o Fior di latte, basilico e olio.
Alcuni ritengono che il pomodoro debba essere di tipo San Marzano.
Ricordando che i puristi di questo piatto considerano solo due tipi di pizza tradizionale, la Margherita e la Marinara, sono comunque diffusi numerosi altri tipi di condimento che prevedono l'aggiunta di diversi ingredienti sopra la pizza.
Non è possibile elencare le innumerevoli varietà di pizze che sono state via via inventate e, dal momento che ogni pizzeria agisce a propria discrezione, è molto difficile individuare standard sempre validi. Si riportano comunque alcune tra le altre varianti di pizza napoletana più comuni nella tradizione italiana.
Capricciosa: pomodoro, mozzarella, grana grattugiato, basilico, funghi, carciofini, prosciutto cotto, olive, olio. Non a Napoli, in alcuni casi vengono aggiunti anche acciughe e uova sode.
Quattro stagioni: normalmente gli stessi ingredienti della capricciosa, disposti ognuno in uno dei quattro quadranti in cui viene suddivisa la pizza, a volte con delle sottili striscioline di pasta per suddividerli.
Quattro formaggi: pomodoro (facoltativo), mozzarella, altri formaggi a discrezione, basilico. In genere, soprattutto nel nord Italia, tra i formaggi è presente il gorgonzola. A Napoli è perlopiù bianca (ossia senza pomodoro).
Ripieno al forno (o Calzone): pomodoro,provola, formaggio grattugiato, ricotta e (a scelta) salame o prosciutto cotto.
Ripieno fritto: ricotta, provola e (a scelta) salame o prosciutto cotto.
Diavola: pomodoro, mozzarella, grana grattugiato, basilico e pezzettini di salame piccante. È praticamente una variante della Margherita, divenuta anch'essa negli ultimi anni un classico.
Negli ultimi anni a Napoli si sono diffuse, fino a raggiungere capillarmente praticamente ogni pizzeria, la pizza bianca con panna, mozzarella, prosciutto e mais, da molti chiamata "mimosa", e la pizza bianca con panna, mozzarella, prosciutto e funghi, detta anche "chef".
Secondo il disciplinare per la definizione di standard internazionali per l'ottenimento del marchio "Pizza Napoletana" la cottura deve avvenire in forno a legna a circa 485 °C per circa 90 secondi.
Per versare l'olio, i pizzaioli tradizionali utilizzano l'agliara, un contenitore in rame, internamente stagnato, con il becco lungo e stretto, in modo da far fuoriuscire un filo d'olio sottile e continuo.
Per infornare e governare la pizza in forno si utilizzano due pale a manico lungo: una più larga, di forma quadrata, dove la pizza viene stesa cruda e con la quale la pizza viene infornata, ritirandola con un rapido colpo di braccio. Questa pala era tradizionalmente in legno, ma per motivi igienici è stata recentemente sostituita da una versione in alluminio. Un'altra pala più piccola, tonda e di ferro, usata per far ruotare la pizza nel forno in modo fa farla cuocere uniformemente su tutti i lati.
Nel 2004 è iniziato l'iter per far ottenere alla pizza napoletana il marchio di qualità "Specialità Tradizionale Garantita" (STG) Per potersi fregiare di tale marchio, la pizza deve essere preparata con ingredienti e metodiche codificate. In particolare, l'unica operazione che può essere effettuata a macchina è la preparazione dell'impasto. Il taglio in panetti e la manipolazione della pasta per ottenere il disco devono essere fatti a mano.
Dal 5 febbraio 2010 è ufficialmente riconosciuto come specialità tradizionale garantita della Comunità Europea.

PAN FRATTAU
200gr di pane carasau,
4 uova,
400gr di passata di pomodoro,
50 gr di pecorino sardo,
1 litro di brodo vegetale,
1 spicchio di aglio,
1 ciuffo di basilico,
1 cucchiaio di aceto di vino bianco,
3 cucchiai di olio di oliva
sale fino.
In origine era un sistema utile per consumare tutti i resti del tipico pane conosciuto anche col nome "carta da musica"(anche se tale denominazione in riferimento al pane carasau è da considerarsi errata). Infatti quello che restava a piccoli pezzi lo si metteva nell'acqua bollente salata e poi lo si disponeva a strati sul piatto ricoprendolo con il formaggio pecorino grattugiato e con il sugo se disponibile. Questa preparazione molto semplice (ed ancora oggi attuale) poteva essere arricchita con un uovo fatto cuocere nella stessa acqua e adagiato in cima al pane ormai ammorbidito (questo però solo in tempi molto più recenti). Gli ingredienti del pane frattau variano a seconda della zona. I più comuni sono un uovo di gallina (cotto in camicia), del pane carasau (ammorbidito nell'acqua, nel brodo o direttamente dal sugo di pomodoro), della cipolla, del basilico fresco, del sugo di pomodoro e parmigiano o pecorino sardo. In alcune zone si utilizzano erbe aromatiche per l'insaporimento della pietanza, come la cicoria, il rosmarino, il timo o l'origano.
Il pane frattau, noto talvolta anche con la variante pane vrattau, è un piatto tradizionale della Sardegna, preparato specialmente nella regione della Barbagia, e nella parte centrale dell'isola.
Il pane carasau, che è alla basa della ricetta, veniva posto dai pastori che prima dell'alba andavano al lavoro in sa "taschedda" vale a dire uno zaino di pelle, insieme a del pecorino e dell'acqua. Questo era il cibo che mangiavano durante la giornata. Al tramonto, al rientro a casa, il pane così conservato si sminuzzava (vrattau/frattau) dentro la " taschedda" e tutto ciò non veniva mai buttato, ma veniva ammorbidito nel brodo, o nell'acqua calda , condito con un poco di "bagna" e col pecorino rimasto e mangiato per cena. Queste sono le tradizioni pastorali più povere che hanno portato oggi a quella saporitissima pietanza arricchita dall'uovo in camicia. Il pane frattau è una pietanza composta da ingredienti semplici quali le uova, il pane carasau, tipico pane sardo, la salsa di pomodoro, l'olio d'oliva e il pecorino. Le tradizioni sulla preparazione del piatto variano a seconda della zona, per esempio mentre nella Gallura si prepara con questi soli ingredienti, in Barbagia si adoperano anche erbe aromatiche come prezzemolo, rosmarino e cicoria, per insaporire. Due sono le tradizioni sull'origine di questo piatto: Nacque con l'arrivo della II guerra mondiale; a seguito dello scarseggiare di cibo, i contadini, specialmente, utilizzavano i pochi ingredienti che avevano a disposizione. Una leggenda dice che venne inventato come piatto da presentare al re Umberto I: due donne per la fretta e per il ritardo, durante una visita del re in Sardegna, cercarono di arrangiarsi con ciò che trovarono per dare forma ad un piatto da porgere al monarca. Corsero a prendere della conserva di pomodoro, due uova nel pollaio, del basilico e della cipolla dall'orto e infine presero del pane dalla credenza. Prepararono in fretta e furia il tutto, disponendo il piatto in maniera frettolosa. Offertolo al sovrano, a quanto narra la leggenda, quest'ultimo gradì particolarmente la pietanza. Il nome "frattau" deriva dall'espressione "casu vrattau" cioè formaggio grattugiato, componente importante della pietanza. La sua diffusione è avvenuta grazie agli agriturismo ed ai famosi "pranzi con i pastori" dove specialmente in Barbagia si è conservato questo modo di mangiare il "Pane carasau".

PEPERONI ARROSTITI PATATE E ROBIOLA DI ROCCAVERANO
Pizza con peperoni arrostiti, patate e robiola di Roccaverano
280 grammi base per pizza
10 grammi menta
100 grammi mozzarella
q.b. olio di oliva extravergine
50 grammi patate
100 grammi peperoni
80 grammi robiola
1 rametto rosmarino
q.b. grammi sale
q.b. semola
1) Per prima cosa, prepara l'impasto per la pizza. Recuperare 280 grammi di base per la pizza oppure preparare l'impasto. Metti sulla spianatoia 1 kg di farina bianca tipo 1, fai la fontana, aggiungi 750 g di acqua, 20 g di sale e 100 g di lievito madre rinfrescato. Impasta il tutto e lavora la pasta energicamente.
2) Stendi l'impasto, sistemalo nella teglia e lascialo lievitare a temperatura ambiente per 4-6 ore. Lava i peperoni, asciugali e arrostiscili interi su una piastra ben calda.
3) A questo punto, lasciali intiepidire, quindi pelali.
4) Aprili con un coltello, elimina i semi e le nervature interne, quindi tagliali a strisce e condiscili con un filo di olio e un pizzico di sale.
5) Taglia le patate prima a fette di 1 cm, poi a cubetti.
6) Distribuisci i cubetti di patata in una teglia unta di olio e condiscili con olio, sale e rosmarino.
7) Introduci la teglia in forno già caldo a 180° e cuoci le patate per 12-15 minuti; sfornale ben cotte e dorate.
8) Distribuisci la mozzarella sulla pasta lievitata e inforna la pizza con peperoni arrostiti, patate e robiola di Roccaverano a 220° per 15 minuti. Sfornala e sistemate sopra le patate, tagliala a spicchi, distribuisci i peperoni e la robiola e termina con un giro di olio che avrai profumato con le foglie di menta.

PESTO BUFALA E POMODORINI
Pizza multicereali con pesto bufala e pomodorini
q.b. basilico
150 grammi farina
150 grammi farina multicereali
20 grammi lievito madre
250 grammi mozzarella
3 pezzi mozzarella di bufala
q.b. olio di oliva extravergine
2 cucchiai pesto
80 grammi pomodoro semisecco
150 grammi provola affumicata
1) Per la pizza multicereali con pesto, bufala e pomodorini sciogli il lievito in poca acqua tiepida, tolta da un totale di 225 ml, e lascialo riposare qualche istante. Disponi a fontana le due farine setacciate, aggiungi il lievito e l'acqua rimasta e lavora l'impasto fino ottenere una palla elastica.
2) Mettila in una ciotola e lasciata lievitare a temperatura ambiente per 6-8 ore: se vuoi preparare l'impasto il giorno prima, puoi farlo lievitare in frigo durante la notte; ci vorranno 12 ore.
3) Al raddoppio del volume, dividi la pasta in due porzioni, allargala con le mani formando due larghi dischi e disponili in due teglie di 30 cm di diametro foderate con carta da forno leggermente oliata. Copri le pizze con la mozzarella fiordilatte tritata, irrora con un filo di olio ed infornate a 220° per 10 minuti.
4) Poi aggiungi anche la provola a fettine e i bocconcini di bufala e prosegui la cottura per 2 minuti. Completa con il pesto, i pomodorini, un giro d'olio e qualche foglia di basilico e servi subito la pizza multicereali.

POMODORI FRESCHI E CRESCENZA
Pizza con pomodori freschi e crescenza

2 cucchiai pesto
500 grammi pasta da pane
200 grammi crescenza
6 pomodoro perino
2 cipollotto
q.b. sale
q.b. olio di oliva extravergine
1) Taglia i pomodori a fette spesse circa mezzo cm. Pulisci i cipollotti, eliminando la radice e la parte verde, e riducili a rondelle.
2) Dividi la pasta in 2 panetti, ricavane 2 dischi del diametro di 22 cm e sistemali in 2 teglie del diametro di 23 cm foderate con carta da forno.
3) Bucherella il fondo con una forchetta, disponici sopra i pomodori, salandoli leggermente, e su questi i cipollotti.
4) Completa con un filo di olio e cuoci in forno preriscaldato a 225° per circa 10 minuti, fino a quando cioè la pasta inizia a dorare.
5) Leva le pizze dal forno, disponici sopra la crescenza tagliata a fiocchetti e prosegui la cottura, sempre in forno, per altri 10 minuti, fino a quando il formaggio si sarà sciolto.
6) A fine cottura, distribuisci sulle pizze il pesto diluito con un cucchiaio di olio e servi. 

POMODORINI BURRATA E CIPOLLA DI TROPEA
Pizza con pomodorini burrata e cipolla di Tropea
280 grammi base per pizza
4 foglie basilico
100 grammi burrata
1 cipolle di tropea
100 grammi mozzarella
q.b. olio extra vergine di oliva
100 grammi pomodorino datterino
q.b. sale
q.b. semola
Come preparare la pizza con pomodorini, burrata e cipolla di Tropea
1) Prendi l'impasto per la pizza, cospargilo di semola e allargalo con le mani.
2) Stendilo sulla spianatoia dandogli forma rotonda e mantenendo il bordo un po' alto.
3) Sistemalo in una teglia del diametro di 30 cm, precedentemente unta di olio, coprilo con pellicola e lascialo lievitare per circa un'ora.
4) Taglia la mozzarella a cubetti, distribuiscila sulla pizza cruda e inforna a 220° per 15 minuti.
5) Rompi la burrata in una ciotola spezzettandola prima con le mani poi con un cucchiaio.
6) Taglia i pomodorini a pezzetti, raccoglili in una ciotola, aggiungi qualche foglia di basilico e condisci con un pizzico di sale e un fllo di olio.
7) Affetta la cipolla di Tropea e immergila in una ciotola piena di acqua fredda.
8) A cottura ultimata sforna la pizza, sistemala su un tagliere e tagliala a spicchi.
9) Con un cucchiaio distribuisci sui tranci di pizza la burrata, i pomodorini scolati dal loro condimento.
10) Completa con la cipolla, e un giro di olio e servi la pizza con pomodorini, burrata e cipolla di Tropea.

ROMANA
La pizza romana è una pizza tonda dalla pasta molto sottile e croccante. L'impasto viene prodotto con farina di grano tenero tipo 00 o 0, acqua, lievito di birra (oppure lievito naturale), olio d'oliva (oppure per ottenere una pizza più croccante si utilizza l'olio di semi) e sale in proporzioni tali che risulti duro e consistente, tanto da rendere spesso necessaria la stesura con il mattarello. Diffusasi a partire appunto dalla capitale solo dopo l'ultimo dopoguerra, si chiama Napoli la variante di condimento con pomodoro, mozzarella e alici. I libri di cucina tradizionale romana, sembrerebbero avvalorare che la variante con le acciughe sia un'usanza propria della Capitale; la pizza romana, secondo gli stessi ricettari, dovrebbe comprendere anche basilico tagliuzzato, pecorino e pepe.

SALSICCIA DI POLLO CETRIOLI E TZATZIKI
Pizza con salsiccia di pollo cetrioli e tzatziki
5 grammi aceto bianco
1 spicchio aglio
280 grammi base per pizza
2 cetrioli
0.5 limone
80 grammi mozzarella
q.b. olio di oliva extravergine
q.b. pepe
q.b prezzemolo
q.b. 1 sale
100 grammi salsiccia di pollo
100 grammi yogurt greco
1 grammi zucchero
1) Per prima cosa, prepara l'impasto per la pizza con salsiccia di pollo, cetrioli e salsa tzatziki. Recuperare 280 grammi di base per la pizza oppure preparare l'impasto. Metti sulla spianatoia 1 kg di farina bianca tipo 1, fai la fontana, aggiungi 750 g di acqua, 20 g di sale e 100 g di lievito madre rinfrescato. Impasta il tutto e lavora la pasta energicamente.
2) Stendi l'impasto nella teglia e fallo lievitare per 3-4 ore a temperatura ambiente. Distribuisci sopra la mozzarella tritata e la salsiccia spezzettata e cuocila in forno a 220° per 15 minuti.
3) Trita finemente l'aglio e il prezzemolo.
4) Preparate lo tzatziki: riunisci in una ciotola lo yogurt, l'aceto, lo zucchero, il trito di aglio e prezzemolo e il succo di limone, amalgama il tutto con una frustina.
5) Sbuccia i cetrioli con un pelapatate.Grattugiali con la grattugia a fori grossi, mettili in una ciotola e condisci con sale e olio.
6) Sforna la pizza, tagliala a spicchi e guarniscila con la salsa e i cetrioli grattugiati.
7) Servi la pizza con salsiccia di pollo, cetrioli e salsa tzatziki ben calda

SARDENAIRA
1 kg di farina, 
g 75 di lievito di birra, 
mezzo bicchiere d'olio di oliva, 
mezzo bicchiere di vino bianco, 
cinque acciughe salate, 
due spicchi di aglio, 
origano, 
basilico, 
mezza cipolla, 
olive taggiasche, 
salsa di pomodoro, 
sale.
Per l'impasto si procede come per la focaccia all'olio. Si fa un battuto con vino, cipolla, salsa di pomodoro e acciughe (lavate dal sale) da spalmare sulle superficie della focaccia. Si dispongono sopra alcune acciughe tagliate a pezzi, le foglie di basilico intere, gli spicchi di aglio interi, le olive taggiasche e una spolverata di origano. Si cosparge di olio e si inforna.

SCAROLA CIPOLLA E POMODORI CILIEGIA
Pizza con scarola cipolla e pomodori ciliegia
2 cucchiai capperino
600 grammi pasta da pizza
100 grammi pecorino
120 grammi olive verdi piccanti
2 cipolla
2 cespi insalata scarola
2 acciughe o alici sotto sale
16 pomodorino ciliegia
q.b. aceto bianco
q.b. sale
q.b. origano
q.b. olio di oliva extravergine
q.b. pepe
Come preparare la pizza con scarola, cipolla e pomodori ciliegia
1) Prepara il ripieno: pulisci le cipolle e affettale sottili; pulisci anche la scarola e tagliala a listarelle. Lava le acciughe sotto acqua fredda corrente, sfilettale e mettile a bagno per qualche minuto in acqua e aceto. Lava i pomodori ciliegia e tagliali a spicchietti; poi snocciola le olive verdi piccanti schiacciate.
2) Fai rosolare in una padella le cipolle con 4-5 cucchiai di olio e un pizzico di sale, aggiungendo di tanto in tanto qualche cucchiaio di acqua, finché saranno ammorbidite. Unisci quindi la scarola e lasciala cuocere per 5 minuti a fuoco vivo, finché  il liquido sarà evaporato. Alla fine regola di sale e pepe.
3) Dividi la pasta da pizza in 4 porzioni e stendile a dischi di un cm scarso di spessore. Fodera di carta da forno 2 placche e disponi 2 pizze su ciascuna, tenendole leggermente distanziate.
4) Distribuisci sulle pizze il composto di cipolla e scarola e decora con le olive, i capperini, le acciughe tagliate a pezzetti e i pomodori ciliegia.
5) Aromatizza con l'origano, irrora con un filo d'olio e cuoci le pizze in forno già caldo a 250°. Dopo 15 minuti di cottura, ricoprile con il pecorino non troppo stagionato tagliato a cubetti o a fettine, lascialo sciogliere per qualche istante in forno e servi immediatamente.

TONNO E PEPERONE ROSSO
 Pizza di farro con tonno e peperone rosso

500 grammi farina di farro
1/2 bustina lievito di birra secco
15 grammi sale rosa
1 peperone rosso
1 spicchio aglio
q.b. basilico greco
100 grammi fior di latte
200 grammi tonno fresco
q.b. rucola
q.b. olio al peperoncino
q.b. sale
q.b. olio di oliva extravergine
q.b. pepe
1) Prepara l’impasto. In un’ampia terrina, sciogli 15 gr di sale rosa e 1/2 bustina di lievito di birra secco in 4 dl di acqua tiepida e versa metà farina di farro e mescola; copri e lascia riposare il composto per 30 minuti. Unisci a quest’ultimo la farina rimasta e impasta per circa 10 minuti per ottenere un panetto liscio e senza grumi; ungilo con un po’ di olio di oliva extravergine e lascialo lievitare per 8 ore tra i 20° e 25°, in un luogo caldo della casa. Se l'impasto si riscalda troppo, mettilo in frigo nella zona meno fredda.
2) Prepara il condimento. Abbrustolisci un grande peperone rosso sotto il grill del forno, chiudilo in un sacchetto e lascialo intiepidire; elimina la pelle sotto acqua corrente, taglialo a julienne e condiscilo in una ciotola con una presa di sale e un battuto di aglio e le foglie di basilico greco. Taglia il tonno fresco a pezzetti non troppo piccoli e condiscili in un’altra ciotola con pepe e un filo d'olio extravergine di oliva. Taglia a dadini il fior di latte ben sgocciolato.
3) Completa e cuoci. Riscalda il forno a 250° e dividi la pasta in 4 porzioni e tirala con le mani per formare 4 pizze allungate e sottili, trasferiscile in una teglia rettangolare per pizza unta con un po’ di olio. Cospargi le pizze con i dadini di fior di latte e cuocile per 10 minuti, poi distribuisci il peperone condito sulle pizze e prosegui la cottura per 5 minuti. Aggiungi infine i pezzetti di tonno e completa la cottura della pizza di farro con tonno e peperone rosso per altri 3 minuti, fino a quando il pesce comincia a scurire. Prima di servire, guarnisci con la rucola e irrora, se ti piace, con olio al peperoncino.

VEGETARIANA
La pizza vegetariana
500 grammi farina
25 grammi lievito di birra
q.b. sale
1 melanzana
2 zucchina
200 grammi mozzarella
1 cucchiaino cappero sotto sale
q.b. pepe
1 cucchiaino origano
1 cucchiaio olio di oliva extravergine
1 peperone giallo
200 grammi pomodoro polpa
1 ciuffo basilico
2 cucchiai salsa di pomodoro
Per preparare la ricetta pizza vegetariana sciogli il lievito con 1/2 dl di acqua tiepida, unisci 2 cucchiai di farina e mescola fino ad ottenere 1 pastella densa; lasciala lievitare per mezz'ora. Raccogli la restante farina a fontana sulla spianatoia e unisci la pastella, 2 dl circa di acqua, l'olio e poco sale.
Impasta tutti gli ingredienti e lavora energicamente la pasta per circa 10 minuti, finché è omogenea e non si appiccica più alle dita; se necessario unisci ancora poca acqua. Fai 1 palla, incidila a croce, coprila e falla lievitare in luogo tiepido per circa 2 ore.
Pulisci e lava le verdure per la pizza vegetariana, taglia il peperone a falde, la melanzana a fette rotonde e le zucchine a fette per il lungo; ungi di olio le verdure e passale per pochi minuti su una bistecchiera calda; sistemale su un largo piatto, salale e spolverizzale di origano.
Riprendi la pasta lievitata, lavorala energicamente per qualche minuto per sgonfiarla, quindi appiattiscila con il palmo della mani e allargala con le dita, fino ad ottenere 1 disco dello spessore di circa 1/2 cm e con i bordi un po' più alti.
Sistema la base di pasta su una placca foderata con un foglio di carta da forno, distribuiscici sopra la polpa di pomodoro tritata, sala leggermente, pepa e cospargi la superficie con metà della mozzarella tagliata a dadini per creare la base della classica ricetta pizza vegetariana.
Disponici sopra le verdure, appoggia su ogni fetta di melanzana mezza fettina di mozzarella e 1 cucchiaino di salsa di pomodoro, distribuisci qua e là i capperi dissalati e le foglie di basilico, condisci con 1 filo di olio e inforna a 220° per 15 minuti.
Servi la pizza vegetariana.