lunedì 27 marzo 2023

CENA CAMPANA

Quando nel mondo si parla di cucina italiana, nell’immaginario gastronomico mondiale si pensa alla cucina della Campania, alla sua pizza ed ai “suoi” spaghetti. La regione conta ben 330 prodotti agroalimentari tradizionali.
Sulla tavola spicca il pane cafone o dei Camaldoli, accanto a pizze ripiene di scarola e casatiello, rustico pasquale di pasta di pane, formaggio, salame, strutto, uova. Accanto fanno mostra di sé sontuosi taglieri di formaggi e di salumi. Mozzarelle di bufala di Battipaglia, burrielli e burrini, cacio forte, pecorini e provole, ricotte e scamorze. Capicollo e salsiccia col peperoncino detta pezzent, sanguinacci e soppressate, salame di Mugnano, salame nero del casertano e salamine, salsicce fresche di bufala e tarantiello, un salame a base di ventresca di tonno.
Aprono gli antipasti: crocché di patate, isciurilli coi fiori di zucca, scagliozzi di polenta, pastecresciute, mozzarelle in carrozza (fette di pane ripiene di mozzarella e alici, passate in farina, nell’uovo e poi fritte), uova fritte alla napoletana con spaghetti fritti e mozzarella, frittate di cipolle e di maccheroni.
E vai con i primi. Spaghetti, maccheroni, vermicelli, paccheri, ziti: la pasta in Campania non manca, con una particolare attenzione per quella lunga con condimenti di carne e di pesce: ragù alla napoletana, puttanesca (con pomodoro, olive di Gaeta e capperi), marinara coi sughi alle alici, alle cozze ed alle vongole. La classica pasta e patate va insaporita con pomodori e grasso di maiale; per palati tosti c’è il timpano di scamorza, per non dire degli gnocchi alla sorrentina, cotti nel pignatiello di coccio. Tra le preparazioni col riso spicca il sartù, un timballo ripieno con carne di maiale, pollo, polpettine, piselli, provola. Tra i capolavori ecco la “minestra maritata”, il cui nome deriva dall’unione fra carne e verdure, poiché prevede gallina, manzo, salame, prosciutto, guanciale, cotenne, e poi cavolo, cicoria, scarola, pintarelle, cipolle, carote e sedano per il soffritto.
Il capitolo pesce va aperto citando l’impepata di cozze, che vede protagoniste cozze, olio evo, aglio, prezzemolo e, ovviamente, pepe. Alici in tutte le fogge, impanate e fritte, “araganate” in forno, marinate; cefali e orate, cicenielli e sarde alla napoletana, da cuocere alla marinara o all’acqua pazza; frittura di paranza, di crostacei sauté o gratin, e soprattutto polpi, come quelli “alla Luciana”, con pomodoro, aglio, prezzemolo e peperoncino.
Per la carne si spazia dalle braciole ripiene, alle bistecchine alla pizzaiola, ma impagabile è il coniglio all’ischitana. A fare da contorno c’è l’insalata di rinforzo, in cui domina il cavolfiore.
Un cesto di frutta fa cornucopia: arance di Sorrento, mele renetta e annurca, pere sorba e spadona, ciliegie di Siano, fichi, castagne, marroni, nocciole e noci di Sorrento.
I dessert chiudono in bellezza. Babà al rum, sfogliatelle, torta caprese, pastiera, di pasta frolla con ricotta, grano bollito, canditi, uova.
Annaffiamo tutto coi celebri Docg Aglianico del Taburno, Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi; o i Doc Falanghina del Sannio e Falerno del Massico. Brindisi finale col limoncello, anzi limoncella.
UNA COVIGLIA PER MATILDE
Di ritorno da un “meritato” viaggio a Napoli mi sento ancora partenopeo nello spirito, anche se ne sono ormai lontano. Ed è anche per consolarmi che condivido con voi il ricordo di un sapore che mi ritorna in mente dopo questo viaggio: quello della coviglia napoletana.
Tornato a casa, corrotto da una formazione classica solo stemperata da un laurea in ingegneria, mi sono subito messo a cercare documentazione… e l’ho trovata. Sentite.
Antonio Latini nel suo Lo scalco alla moderna (1694) riporta la prima ricetta italiana di sorbetto: Sorbetta alla cioccolata scomiglia” (cioccolata schiumata) da cui deriverebbe la coviglia napoletana di cui era grande appassionata Matilde Serao che la descriveva nel suo libro Paese di Cuccagna del 1891.
È nel 1700, quando il gusto delle dame di «buon garbo» sensibili e disappetenti esige diete leggere e carezzevoli, voluttuose, morbide e dolci, che due oggetti di lusso, di delicatezza e di gusto in Italia portano il vanto in tutta Europa: liqueurs d’Italie e glaces à l’italienne vogliono gli stranieri. La città di Napoli è rinomata per i gelati e per i sorbetti. La coviglia è il sapore del mio gelato da bambina. Mia madre lo comprava in una pasticceria di Mergellina, e appena a casa veniva conservato con sacro rispetto nel freezer. Erano bicchierini bianchi o di metallo, ciascuno di un colore diverso. Ma il sapore della coviglia, quello non lo dimenticherò più. A metà strada tra un gelato e un pasticcino. Unico. Appartiene alla stessa famiglia dello spumone e dello zuccotto. Si fanno di tantissimi gusti, ma la classica è al cioccolato o al caffè. Spumoni, metà crema e metà gelato, di tutte le mescolanze, … adorazione delle donne e dei ragazzi… entusiaste erano le signore che vedevano apparire gli spumoni, dai colori seducenti nella loro tenerezza, dal candido fiocco di spuma nel mezzo, e davano un gridolino di commozione e tendevano le mani, involontariamente…
Mentre vi do la ricetta della coviglia al caffè, concludo frammischiandola con alcune informazioni su questa eccezionale donna e giornalista.
Montate 2 tuorli con 75 g di zucchero.
Matilde Serao, nata a Patrasso nel 1856 e morta a Napoli nel 1927, fu  la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Mattino e quindi Il Giorno. Cominciò sul Giornale di Napoli con lo pseudonimo di Tuffolina. Poi a Roma sul Capitan Fracassa sotto lo pseudonimo di Ciquita.
Unite 20 g di farina, diluite con 2,5 dl di latte caldo e cuocete, finché si addenserà.
Si sposò con Edoardo Scarfoglio e sul quotidiano La Tribuna apparve la cronaca della giornata scritta da Gabriele D'Annunzio sotto il titolo Nuptialia. Ebbero quattro figli, tutti maschi: Antonio, Carlo e Paolo (gemelli) e Michele. Insieme con lui Matilde realizzò il suo progetto e fondarono il Corriere di Roma.
Versate 2 caffè ristretti, fate raffreddare e unite 2 dl di panna montata.
Ritornata a Napoli scrisse sul Corriere del Mattino chiamando a collaborare firme prestigiose come Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio. Quindi fondò Il Mattino e firmò i suoi articoli con lo pseudonimo di Gibus (cappello a cilindro che si chiude a scatto).
Suddividete la crema in 6 coppette e mettetele in freezer per 6 ore.
La sua rubrica, Api, mosconi e vespe, durò per 41 anni ed ebbe grande successo tanto che le valse l’appellativo di “Signora Mosconi”.

Servite con panna montata e cioccolato grattugiato.
TORTE CAPRESI E GANGSTER
Oggi si va a Capri. Guardatevi pure tutti i faraglioni che volete, riconoscete tutte le celebrità che oziano in piazzetta, ma poi gustatevi la torta caprese, il dolce napoletano, specifico dell'Isola di Capri, ma diffuso anche in Costiera Amalfitana e nella Penisola Sorrentina.
È a base di cioccolato fondente e mandorle, fuori croccante e dal cuore umido e morbidissimo.
Come tanti altri dolci tipici della tradizione italiana, ha un’origine curiosa.
Un secolo fa, nel 1920, in un laboratorio artigianale dell’Isola di Capri, un pasticcere di nome Carmine di Fiore creò, involontariamente, il golosissimo capolavoro dell’arte dolciaria partenopea.
Si narra che Carmine fosse nel suo piccolo “regno” culinario, circondato dai suoi utensili ed ingredienti, impegnato con estrema cura nella preparazione di una torta alle mandorle.
Entrarono senza bussare tre malavitosi giunti a Capri per comprare una partita di ghette per Al Capone lo “Scarface” di Broccolino, e gli ordinarono una torta.
Tutto procedeva al meglio, ma per timore e per la fretta di finire, commise un errore che gli avrebbe sicuramente rovinato la reputazione e forse anche i connotati, poiché avrebbe dovuto fare i conti con dei malavitosi irritati per il dolce sbagliato: dimenticò di aggiungere la dose di farina necessaria per completare l’impasto della torta.
La infornò ed a fine cottura, con sommo stupore, la torta risultò una vera e propria prelibatezza: morbida al centro e croccante fuori. I tre americani furono soddisfatti al 100%, addirittura da chiedere la ricetta.
Carmine la diede loro senza esitare. Una torta sbagliata gli aveva salvato la faccia, da una sfregiatura, come non era successo a “Scarface” Al Capone.
L’aneddoto fu la migliore pubblicità e la sua torta ebbe un gran successo.
Eccovi la ricetta. Non è necessario dopo averla degustata fumarsi un sigaro.
Ingredienti: 125 g di burro, 140 g di zucchero, 3 uova, 140 g di cioccolato fondente al 70%, 175 g di farina di mandorle, sale, zucchero a velo

Procedimento: Spezzettare il cioccolato e farlo fondere a bagnomaria. Unire nella planetaria burro, zucchero e sale; e lavorare a pasta con la frusta K. Unire uova, cioccolato fuso e farina di mandorle. Versare l’impasto, livellandolo bene in uno stampo a cerniera (20-22 cm di diametro) imburrato e infarinato. Cuocere in forno preriscaldato a 170° per 45’. Sfornare su gratella e far raffreddare. Spolverare generosamente di zucchero a velo.
LA VERA STORIA DEL SARTU’
La gente di Napoli è incline al riso. Nell’accezione di “risata”, effettivamente il riso abbonda sulla bocca dei suoi abitanti. Se invece la parola “riso” la leggiamo nel suo significato di alimento, dobbiamo riconoscere che nei suoi confronti l’atteggiamento dei napoletani è stato sempre ambivalente. Alla fine del 1300, da “mangiafoglia”: consumatori di verdura, e segnatamente di cavolo – per necessità, non essendovi cibo altrettanto economico da mettere sotto i denti,- i napoletani stavano diventando un po’ alla volta “mangiamaccheroni”. Un appellativo assai più lusinghiero, al quale a tutt’oggi  non hanno alcuna intenzione di rinunciare. Più o meno nello stesso periodo, dunque alla fine del XIV secolo, era arrivato a Napoli un altro alimento: per l’appunto, il riso. Non da troppo lontano; dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi che venivano a prendere possesso del regno di Napoli.La pasta ed il riso, giunte a Napoli per vie diverse (pur provenendo dallo stesso luogo: l’estremo Oriente), presero anche strade diverse. In verità, la pasta non ne prese alcuna: a Napoli si trovò benissimo, ed elesse la città partenopea a propria dimora ufficiale. Invece il riso a Napoli non si fermò più di tanto. In men che non si dica si spostò al Nord, e vi si installò stabilmente. Perché là trovò l’acqua, indispensabile perla sua crescita, dicono alcuni; ma forse la verità è un’altra. E’ che a Napoli il riso non aveva avuto troppo successo. Sì, era un cibo nutriente, che dava un senso di sazietà, ed era relativamente poco costoso; ma i napoletani non ebbero mai per lui lo stesso feeling che stavano invece sperimentando per la pasta. Ne fanno fede i nomi che al riso venivano affibbiati, e che in parte gli sono  rimasti, a tanti secoli di distanza: “sciacquapanza” e “sciacquabudella”. A motivare questa diffidenza, che non di rado si tingeva di ostilità, sta il fatto che il riso sbarcato a Napoli con gli Aragonesi era un’assoluta novità, almeno per l’Italia, in quanto all’ impiego alimentare. Finora quel momento, il riso era stato utilizzato solo come medicamento, per malattie gastriche o intestinali. La schola medica salernitana (Salerno è a un tiro di schioppo da Napoli) consigliava il riso in tutte le salse, anzi in nessuna (veniva infatti prescritto rigorosamente in bianco). A Napoli, in quel periodo, le malattie infettive trascorrevano il  tempo fra endemia ed epidemia; e in molti casi (si pensi al colera) il riso era l’unico alimento consigliato, e consigliabile. Il riso Purificatore veniva insomma associato a condizioni di salute precarie, sulle quali non c’era niente da ridere. E’ probabilmente per questo motivo che i napoletani non si strapparono i capelli  quando il riso, pur avendo avuto Napoli come prima destinazione, scelse di stabilirsi in Lombardia, in Piemonte e in Veneto. I napoletani ignoravano però che, come gli emigranti che fanno fortuna lontano dal luogo da cui sono partiti, il riso un giorno sarebbe tornato. E che loro stessi lo avrebbero accolto con tutti gli onori. E gli odori. Ma il riso si rivelò piuttosto furbo: non tornò infatti così com’era partito, nudo e crudo. Tornò cotto, e sottomentite spoglie. Per dir meglio, in abiti diversi. Assai più ricchi, e più belli. Se gli artefici dell’arrivo del riso a Napoli furono gli Spagnoli, i protagonisti del suo ritorno furono invece i Francesi. Per il tramite dei loro cuochi. Nel ‘700, erano loro, i cuochi francesi, a regnare su Napoli. I nobili, che vivevano nei palazzi del Centro Storico e di Monte di Dio, nella adiacenze di Palazzo Reale, in quel periodo per apparire chic, parlavano francese, e nella stessa lingua mangiavano. I loro cuochi (sia quelli autenticamente francesi, sia quelli napoletani, che si erano comunque impratichiti nella cucina d’Oltralpe) erano chiamati, in un francese napoletanizzato, “Monsù” (da “Monsieur”). Questi poveri cuochi dovevano scontrarsi quotidianamente con l’idiosincrasia dei loro padroni… nei confronti del riso, che invece in Francia andava alla grande. Un’avversione (ma forse si potrebbe definire meglio un non-amore: un’indifferenza) che andava avanti da secoli. Cosa pensarono allora di fare, i Monsù? Si mobilitarono per nobilitare il riso. Per renderlo più gradevole ai palati partenopei. Per cominciare, ci misero dentro della salsa “c’a pummarola”: il pomodoro, a quei tempi, a Napoli era già una sorta di passepartout, un viatico. Questo però non poteva bastare: anche se rosso, il riso restava uno sciacquapanza. I Monsù decisero perciò di  arricchirlo con melanzane fritte, polpettine e piselli. Tutte queste prelibatezze le piazzarono sopra il  riso, a guarnizione: come specchietto per le allodole. In cima a tutto: in francese, “sur-tout”. Da “sur-tout” a “sartù” non c’è che lo spazio di un sospiro, e il tempo necessario ad emetterlo. Poi la bocca sarà occupata in (sar)tutt’altro .I loro padroni, i nobili napoletani, fecero da cavie a questo “nuovo” piatto. E mostrarono di gradire il sartù quanto avevano disdegnato il riso: vale a dire, moltissimo. Un po’ per volta il sartù, pur rimanendo sulle tavole dei ricchi, passò pure su quelle dei poveri. Diventando, come molti cibi, a Napoli e altrove, una splendida metafora dell’egualitarismo. A conferma che la legge (della buona cucina) è uguale per tutti.

A NASCITA D’O SARTÙ
‘O tiempo vola, corre troppo ampressa.
‘O munno cagna, ‘a storia è semp’a stessa.
Napule s’a pigliava il re di Spagna?
“Giuvinò, stamm’a posto, mò se magna!”

Quann invece arrivava ‘o re di Francia,
“Stavota sì, ca ce regnimm’a pancia!”
Se, se. Cà so’venute tutte quante,
ma ‘a panza nosta sta sempe vacante.

Che dite? Non dobbiamo farne un dramma?
‘O sazio nun capisce a chi ave famma.
Simme abituate, a non avere niente.
Almeno ci’a pigliammo alleramente….

A nuje napulitane ciann’acciso,
però c’abbascio avimme sempe riso.
Ci’o purtajeno ch’e nave, all’Aragona;
però so’ sempe meglio ‘e maccarone.

Si staje diuno, sì, t’o mange ‘o stesso,
 ma il riso, come piatto, è un poco fesso.
Lesso, c’o burro, in bianco, è consigliato
espressamente, quanno staje malato;

ma si staje buono, detto con creanza,
che ten’ea fa, di questo sciacquapanza?
E’ meglio ca te faje nu piatt’ e pasta!
‘O riso s’a pigliaje. Dicette “Basta!

Sai che faccio? La lascio, sta città,
che non mi apprezza, e mai m’apprezzerà.
Stu riso era davvero fino fino.
Se ne fujette al nord, verso Torino,

e là, poiché non era affatto fesso,
crescette buono, e avette assai successo.
Ma Napule ‘a teneva dint’o core.
“Napoletani, voglio il vostro amore!

I’ so tuosto, guagliò: saccio aspettà.
Nu juorno, prim’o doppo, aggia turnà!”
L’anne vanno veloce comm’o viento.
Stammo oramai nel mille e setteciento,

e nel Palazzo mò stann’ e Francesi.
Nuje? Dint’e viche: famma, e panni stesi.
Ma stu sfaccimm’e riso, che ce tene!
’A ditto ca turnava? E mò mantene.

A sta là ‘ncoppa, al nord, nun cià fa chiù.
In segreto s’incontra cu Monsù
(‘o cuoco d’e francese): “E’ il mio momento!
Mi devi fare un bel travestimento…

Dai, truccami con arte e fantasia:
nisciun’ adda capì ca so’ semp’io…..”
“Ne pas paura – le dicett’o cuoco
franco-napulitano- Sce vo poco:

assiem’a te – le risò – je sce mette
melanzane e pesielle, e deu purpette,
e poi, per non lasciarle troppo seule,
un petit peu de sause de pomarole.

Ci’o mette tout ncoppa : là, sur-tout.
C’est la nouvelle cuisine ! Le nom ? SARTU’!”
‘O sartù zitto zitto, chainechiane,
trasette ‘a casa d’e napulitane.

S’ o mettetten’ annanze, e ditto ‘nfatto
se mangajeno ‘o riso, e pure ‘o piatto.
“Chillu riso scaldato era na zoza.
Fatt’a sartù, ma è tutta n’ata cosa.

Ma quale pizz’e riso, qua timballo!
Stu sartù è nu miracolo, è nu sballo.
Nennì, t’o giuro ‘ncopp’a chi vuò tu:
è chiù meglio d’a pasta c’o rraù!”

5 SETTE 
ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER
 

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini. Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).

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