domenica 12 gennaio 2025

Corso di cucina: 12 CONOSCERE LA PASTA

 

La Pasta di Gragnano è un prodotto alimentare - ottenuto dall’impasto della semola di grano duro con acqua della falda acquifera locale - prodotto su tutto il territorio del comune di Gragnano in provincia di Napoli.
Da ottobre 2013, a livello europeo, la denominazione "Pasta di Gragnano" è stata riconosciuta indicazione geografica protetta (IGP)[1].
La produzione della pasta risale alla fine del XVI secolo quando comparirono i primi pastifici a conduzione familiare. Fino al XVII secolo era un alimento poco diffuso ma, a seguito della carestia che colpì il Regno di Napoli, divenne un alimento fondamentale grazie alle sue qualità nutritive e per l'invenzione che consentiva di produrre pasta, detta oro bianco,a basso costo pressando l'impasto attraverso le trafile. I terreni ideali per consentire la produzione furono Gragnano e Napoli, grazie ai loro microclima composti da vento, sole e giusta umidità. Proprio gli abitanti del Regno di Napoli furono i primi a dare delle svolte importanti alla produzione di pasta, e nel 1861 all'apice della produzione della pasta c'erano gli stabilimenti di Gragnano. I gragnanesi, in quel periodo, furono i maggiori esportatori di pasta nel mondo in particolare nella vendita dei maccheroni. Grazie alla sua leggendaria tradizione, Gragnano divenne la patria della pasta celebrata da scrittori, storici e poeti. Uno dei tanti artisti che celebrarono le doti e le qualità degustative della pasta di Gragnano fu il poeta Gennaro Quaranta il quale compose Maccheronata, una poesia in risposta al pessimismo del poeta recanatese Giacomo Leopardi. La poesia integrale diceva così:
« E tu fosti infelice e malaticcio,/ o sublime Cantor di Recanati, / che bestemmiando la Natura e i Fati,/ frugavi dentro te con raccapriccio./ Oh mai non rise quel tuo labbro arsiccio,/ né gli occhi tuoi lucenti ed incavati,/ perché... non adoravi i maltagliati, /le frittatine all'uovo ed il pasticcio!/ Ma se tu avessi amato i  accheroni/ più de' libri, che fanno l'umor negro,/
non avresti patito aspri malanni.../ E vivendo tra i pingui bontemponi/ giunto saresti, rubicondo e allegro, forse fino ai novanta od ai cent'anni... »
Il 12 luglio del 1845 il re del Regno di Napoli Ferdinando II di Borbone, durante un pranzo, concesse ai fabbricanti gragnanesi l'alto privilegio di fornire la corte di tutte le paste lunghe, e così che per tutti, da allora, Gragnano diventò la città dei maccheroni.
I tipi di pasta che caratterizzano la produzione di Gragnano sono:
paste lunghe
Linguine
Spaghetti, alla chitarra o con curva
Vermicelli, con curva o bucati
Bucatini
Mafaldine
Mista lunga
Ferrazzuoli
Fusilli bucati
Ziti lunghi
Candele lunghe
Fusilli bucati lunghi al bronzo
paste corte
Paccheri
Mezzi Paccheri
Calamari
Sedani
Mezze penne rigate
Mezzi Rigatoni
Millerighe
Mezze Millerighe
Fusilloni
Mezzi Borbardoni
Tortiglioni
Elicoidali
Casarecce
Occhi di lupo
Pennoni
Canneroni
Maccheroncelli
Pennette
Penne zite
Tubetti rigati
Gnocchi napoletani
Taccozzette
Vesuvio
Scialatielli
Corone di bronzo
paste laminate
Farfalle
paste al forno
Cannelloni
Lumaconi
Conchiglioni
Fettuccine
Caccavelle
In base al tipo di superficie, le paste si dividono ancora in due categorie:
lisce, apprezzate per la leggerezza
rigate, apprezzate per la capacità di trattenere i sughi
Infine viene considerata la ruvidezza della superficie che aiuta il sugo ad attaccarsi e rende il contatto in bocca più gustoso. Essa cambia in base alla tecnica e agli strumenti di produzione; pertanto si apprezzano le più rugose e porose:
pasta fatta a mano
pasta trafilata al bronzo
pasta laminata
pasta da forno


Il termine agnolotto o agnellotto deriva probabilmente da anellotto, a sua volta accrescitivo di anello, e indica un tipo di pasta ripiena simile ai ravioli. Gli agnolotti si mangiano in vari modi, come minestra, bolliti nel brodo o asciutti, con sugo di carne arrosto o con burro, salvia e Parmigiano Reggiano o Grana Padano, con ragù di carne.
Sebbene siano ormai diffusi in tutte le regioni italiane, gli agnolotti sono originari del Piemonte, in particolare nelle zone del Monferrato, nelle province di Alessandria e Asti. Secondo la tradizione popolare a inventari sarebbe stato un cuoco monferrino di nome Angiolino, detto Angelot, secondo altre scuole di pensiero, invece, il nome agnolotto deriverebbe dal termine piemontese anulot, che indicava un ferro usato per tagliare la pasta a forma di anello.
Per quanto riguarda la forma, essi sono estremamente simili ai ravioli: quadrati, con i bordi frastagliati, con al centro il ripieno racchiuso tra due sfoglie di pasta all’uovo, creando un rigonfiamento simile a una piccola cupola, sia da un lato sia dall’altro.
Nelle Langhe e nel Monferrato gli agnolotti hanno dimensioni più piccole e rettangolari e sono detti agnolotti al plin, con quest’ultimo termine che indica il pizzicotto con il quale si chiude questo tipo di pasta ripiena.
Per quanto riguarda il ripieno, nella tradizione popolare piemontese esso è costituito dagli avanzi dell’arrosto triturati e mescolati con verdure, riso e altri ingredienti. Proprio nel ripieno sta la differenza con i ravioli. A Calliano, in provincia di Asti, gli agnolotti sono ripieni con carne d’asino.
Dagli agnolotti piemontesi si differenziano quelli pavesi, perché nella zona dell’Oltrepò Pavese, la cucina subisce le influenze sia delle tradizioni culinarie del Piemonte sia di quelle piacentine. Per questo gli agnolotti pavesi sono ripieni di stufato alla pavese, un tipo di carne stracotta, come il ripieno degli anolini piacentini.
I cannelloni sono un formato di pasta di forma cilindrica. Il prodotto viene consumato con un ripieno salato che nella ricetta classica comprende un impasto di ricotta e spinaci oppure di carni macinate. È poi coperto con un sugo di pomodoro o con salsa besciamella e infine cotto al forno.
Nelle Marche ed in Umbria i cannelloni sono un formato di pasta fresca all'uovo. Il ripieno tipico è costituito da un impasto di carne macinata e la cottura è sempre al forno.
Questo tipo di pasta viene commercializzato sia nella versione precotta sia nella versione che necessita di una lessatura prima di essere riempito. Le dimensioni sono approssimativamente di 8 - 10 cm di lunghezza, circa 2 cm di diametro e uno spessore tra 0.9 e 1 mm.
I cannelloni sono formati da rettangoli di pasta all'uovo simili a quelli con cui si preparano le lasagne ma di formato più piccolo e arrotolati su se stessi per contenere il ripieno. La preparazione è la stessa e gli ingredienti sono farina, uova e acqua.

I cappelletti sono un formato di pasta ripiena che si ottiene tagliando la sfoglia di pasta all'uovo in quadrati o cerchi, al centro dei quali viene posto il ripieno; la pasta viene poi piegata prima in due a triangolo, e poi unendo le estremità intorno a un dito della mano. I cappelletti vengono poi cotti in brodo di carne, preferibilmente di pollo.
Essendo una ricetta molto diffusa al giorno d'oggi su ampia base territoriale, molte tradizioni locali reclamano la primogenitura di questo piatto. Sicuramente l'area di origine, comunque, è l'Italia centro-settentrionale, probabilmente con lo sviluppo di tradizioni parallele, che in parte sussistono ancora oggi.
I cappelletti sono il piatto tipico della provincia di Reggio Emilia; la loro forma, che nell'Appennino reggiano è più minuta, tende ad aumentare scendendo dal crinale alla pianura e ad al Po. Vengono cucinati in brodo di cappone o con salse tipiche romagnole . Sono il piatto tipico anche nel Viadanese (parte del Basso Mantovano al confine con la provincia di Reggio Emilia).
In Romagna, dove è particolare anche il modo di "chiuderli", i cappelletti sono detti caplèt e costituiscono un piatto natalizio d'obbligo in tutta la regione. La tradizione più tipica è quella di confezionare il ripieno dei cappelletti con formaggio e petto di cappone. Tale ripieno in Romagna viene chiamato "compenso".
Pellegrino Artusi, padre fondatore del cappelletto romagnolo, nel suo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, descrive la particolare ricetta dei "Cappelletti all’uso di Romagna" (ricetta n. 7), con ripieno a base di ricotta (o ricotta e raviggiolo), petto di cappone o lombata di maiale, da cuocere nel brodo di cappone.
In tutte le Marche, da nord a sud, i cappelletti sono considerati pasta tradizionale tipica e sono anche per questo apprezzati. Mentre i tortellini in alcune aree marchigiane sono giunti solo nel dopoguerra, i cappelletti sono da sempre preparati in casa in tutta le regione. Anche nelle Marche alcune ricorrenze annuali, come i grandi pranzi di Natale, prevedono come primo piatto, quasi obbligatoriamente, i cappelletti in brodo. A differenza della Romagna, dove il ripieno è confezionato con formaggio e petto di cappone, la ricetta marchigiana prevede solo il formaggio.
I cappelletti asciutti, con ragù di carne o altra salsa, sono una creazione recente.
I cappelletti si distinguono dai tortellini (che in Emilia sono più comuni dei cappelletti) per il modo di chiuderli: una volta messo il ripieno nella pasta, questa viene piegata su se stessa, poi - tramite un attrezzo munito di lama circolare - si tagliano dei fagottini.
Il ripieno dei cappelletti è infatti diverso a seconda delle zone:
Nelle ricette romagnole, il ripieno è detto e' pin d'é caplèt o e' batù, ed è a base di ricotta, a cui possono essere aggiunti altri formaggi teneri (caciotta o raviggiolo), parmigiano-reggiano grattugiato, noce moscata, uova crude e in alcune zone scorza di limone grattugiata. La sfoglia viene tagliata in quadratini di circa 5 cm di lato; in ciascuno di essi viene inserito un cucchiaio di ripieno. I cappelletti romagnoli vanno gustati sempre in brodo: essi vanno lessati in un ottimo brodo di carne. È buona norma non prelevarli subito dalla pentola ma lasciarli a bagno per qualche minuto affinché assorbano bene il brodo.
Nelle ricette marchigiane, il ripieno è invece a base di carni stufate comprensive degli "odori" sedano, carota e poca cipolla, passati al tritacarne, a cui vengono aggiunti uova crude, formaggio stagionato grattugiato, noce moscata e scorza di limone grattugiata.
Se il cappelletto è generalmente di taglia piccola e va consumato in brodo, la variante cappellaccio o "tortello", di identica forma, ma di dimensione almeno doppia, viene consumata asciutta; tipico di Ferrara e di Reggio Emilia è il cappellaccio di zucca con ripieno a base di zucca, tipico di Mantova il tortello ripieno di zucca e amaretto.
Al giorno d'oggi è possibile reperire cappelletti confezionati in ogni parte del mondo, soprattutto dove le comunità italiane hanno una certa importanza. I cappelletti confezionati "freschi" hanno normalmente una durata di sette settimane.

Le ceppe (più propriamente maccheroni con le ceppe) sono un tipo di pasta all'uovo tipiche della provincia di Teramo, in particolare di Civitella del Tronto. Sono una sorta di bucatini corti 8-10 cm, ottenuti arrotolando la pasta (farina, acqua, uova) intorno a un bastoncino di legno, la ceppa appunto. Con il tempo, per metonimia, con il termine ceppa si è passati ad indicare non solo lo strumento, ma il tipo di pasta stesso. All'originale ceppa in legno è andata via via sostituendosi un sottile ferro in acciaio inox.
I garganelli sono un tipo di una pasta all'uovo (rigata) ottenuta ripiegando delle piccole losanghe di pasta, riconosciuto prodotto tipico della regione Emilia-Romagna. L'aspetto è simile alle "penne" se si esclude che nel punto di sovrapposizione dei due lembi di pasta il garganello ha una diversa consistenza.
I condimenti più usati sono comunemente rappresentati dal prosciutto, dai piselli e da abbondante parmigiano reggiano, oppure un ragù realizzato utilizzando la pasta della salsiccia.
A Codrignano, piccola frazione del comune di Borgo Tossignano (BO), dal venerdì che precede la prima domenica di settembre al martedì successivo, si tiene la Sagra del Garganello, dal 1989.
Il cous-cous o cuscus è un alimento tipico del Maghreb in Nordafrica, della Sicilia occidentale e della Sardegna sudoccidentale (Calasetta, Isola di Sant'Antioco e Carloforte), costituito da granelli di semola di frumento cotti a vapore (del diametro di un millimetro prima della cottura, poi via via sempre più grandi). Alcune varianti sono presenti anche nella cucina brasiliana.
Tradizionalmente il cuscus veniva preparato con semola di grano duro, Triticum durum, quella farina granulosa che si può produrre con una macinatura grossolana utilizzando macine primitive, ma oggi con questo nome ci si riferisce anche ad alimenti preparati con cereali diversi, come orzo, miglio, sorgo, riso, farro o mais.

I ditali sono un tipo di pasta di origine campana, che hanno dato origine ad una vasta gamma di varianti. Sono particolarmente indicati nella preparazione di minestre e nella cucina napoletana sono spesso usati per preparare quelle che possono definirsi minestre asciutte, quali ad esempio la pasta e fagioli, la pasta e piselli e così via.
Le Farfalle nascono da una sfoglia tagliata a quadretti e "pinzata" al centro, ed hanno una superficie delicata che si svela al palato attraverso una differente consistenza tra la parte centrale più spessa e le due estremità: un vero e proprio piacere per i buongustai. Tra le forme più allegre in cucina, le Farfalle volano di sapore in sapore, adattandosi a più diversi abbinamenti di gusto. La loro superficie liscia le rende particolarmente adatte all'abbinamento con i condimenti leggeri e delicati, a base di verdure. Rivelano tutto il loro piacere in gustose insalate di pasta, e si sposano perfettamente sia ai condimenti più tradizionali sia agli abbinamenti più fantasiosi. Per esaltare la vivacità delle Farfalle, gustatele con pomodorini e menta. Per stupire i vostri ospiti, realizzate le Farfalle in salsa Aurora a base di besciamella, salsa di pomodoro e burro.
Le Fettuccine Emiliane sono strisce di sfoglia all’uovo ruvida e corposa, a sezione piatta e larghe circa 7 mm, che avvolgono di piacere i momenti a tavola.
Le Fettuccine Emiliane sono preparate con una sfoglia lavorata con pazienza e cura, secondo la tradizione emiliana, e si presentano ruvide e porose al punto giusto per trattenere i sughi ed esaltarne il sapore.
Lasciatevi avvolgere dal gusto fresco e sorprendente delle Fettuccine Emiliane con vongole, cozze ed olive verdi, oppure sperimentate l’accostamento originale di verdure e vino nella ricetta con ristretto di Lambrusco, broccoli e formaggio fresco.
La frègula, il cui nome è a volte italianizzato in fregola, è un tipo di pasta di semola prodotto in Sardegna. La fregula, disponibile in varie dimensioni, è prodotta per "rotolamento" della semola entro un grosso catino di coccio e tostata in forno. Si presenta sotto forma di palline irregolari di diametro variabile fra i 2 e i 6 millimetri.
Una preparazione tipica della fregula è con il condimento di telline. Il piatto così ottenuto prende il nome di frègula de còciula (in lingua sarda), cioè "fregula di arselle".
La produzione della fregula ha origini certamente antiche. Il primo documento storico a farne menzione è lo Statuto dei Mugnai di Tempio Pausania risalente al XIV secolo, in cui si regolamenta la preparazione, che doveva avvenire rigorosamente dal lunedì al venerdì, per potere destinare ai campi l’acqua del sabato e della domenica.
I Fusilli sono nati nell'Italia centro-settentrionale, e devono il loro nome al fuso, attorno al quale si arrotolava la lana. Sono caratterizzati nella forma da tre alette attorcigliate che si rincorrono armoniosamente in un andamento a spirale, che cattura ogni tipo di condimento.
I Fusilli valorizzano i sughi più elaborati e densi, ma anche quelli più semplici, e consentono grandi risultati anche se si vuole osare qualche difficile esperimento culinario. Si adattano alla perfezione a ricche salse a base di carne o ricotta, ma rivelano la propria personalità multiforme anche nella freschezza delle insalate: le verdure sminuzzate, le spezie, il tonno scivolano tra le loro spire armoniosamente accompagnate dalle note vellutate dell'olio d'oliva crudo. Se cercate  una soluzione raffinata preparateli agli asparagi e prosciutto: cucinate al dente sia la pasta che gli asparagi, arricchite il tutto con il sapore delicato del prosciutto.
I fusilli sono un tipo di pasta, secca o fresca, che si ottiene aggiungendo alla semola di grano duro e acqua o uovo. Nella versione all'uovo, a volte sono aggiunti spinaci o ortiche per ottenere un colore verde, peperoncino o barbabietola o rapa rossa o pomodoro per un colore rosso, nero di seppia per un colore nero o zafferano per un colore giallo più intenso.
I fusilli nacquero intorno al 1550 da un cuoco che stava al servizio del Granduca di Toscana. Un giorno mentre stava impastando un po' di pasta fatta in casa per cucinare, un pezzo di pasta cadde a terra e il figlio la prese e incominciò a farla rotolare sull'ago che usava la sua nonna per lavorare a maglia.
I fusilli nel corso del Novecento venivano fatti a mano da signore anziane del paese e poi venivano venduti. Ultimamente hanno una lunghezza di circa 7 cm e di solito lo spessore è di quasi 5 mm.
A differenza della pasta di grano duro, gli gnocchi sono un cibo casalingo facile da realizzare (qui trovate le ricette di: Gnocchi di patate, Gnocchi di semolino, Gnocchi di zucca e Gnocchetti di pane), fatto con pochi semplici ingredienti alla portata di qualsiasi cucina.
I vari tipi di gnocchi
Forse proprio per questo motivo nel tempo si sono succedute moltissime varianti di questa pasta, tanto che gli gnocchi si potrebbero definire non un formato, ma una famiglia a sé stante. Al giorno d’oggi in Italia conosciamo sostanzialmente tre categorie di gnocchi: quelli di patate, quelli di semolino (detti anche alla romana) e i canederli la cui radice tedesca del nome – knödel – significa proprio “gnocco”. A questi si possono aggiungere gli gnocchetti sardi – malloreddus – che a dire il vero hanno maggiori caratteristiche in comune con la pasta di semola. In passato, però, le tipologie erano molte di più e alcune di queste sono scomparse dalle nostre tavole.
La nascita degli gnocchi
Sembra che le prime ricette degli gnocchi siano pubblicate per la prima volta nella seconda metà del Cinquecento da parte di Cristoforo Messisbugo e Bartolomeo Scappi, due tra i più grandi cuochi del Rinascimento. I “maccaroni detti gnocchi” sono impastati con farina, pangrattato, acqua bollente e uova, poi passati “su il rovescio della gratugia”, proprio come si fa con gli odierni gnocchi di patate. Serviti asciutti, il condimento è quello tipico di tutta la pasta rinascimentale composto da burro, formaggio e spezie (e un po’ di zucchero, a piacere).
Questo tipo di preparazione resiste per diversi secoli fino all’inizio del Novecento, sotto diversi nomi con leggere varianti. La più comune è quella di aggiungere una buona dose di formaggio e aumentare il numero dei tuorli, formando una miscela simile a quella usata per gli odierni passatelli.
Il canederlo tedesco
Lo stesso impasto descritto per i “maccaroni” può essere arricchito con aggiunta di latte, mollica, a volte riso, burro e spezie per realizzare gli “gnocchi alla tedesca”, antenati dei moderni canederli. Appaiono inizialmente nell’“Apicio Moderno” di Francesco Leonardi del 1790, sempre sotto forma di piccoli gnocchetti da servire asciutti, ma in capo a pochi decenni assumeranno le classiche dimensioni di un uovo e verranno serviti in brodo, come lo “gnocco germanico” di Antonio Odescalchi del 1834 che prevede fegato e milza tra gli ingredienti.
Gli gnocchi bignè
Alla fine del Settecento fa la sua comparsa quella che sarà la ricetta più comune per gli gnocchi chiamati “gnocchi all’acqua” o “gnocchi bignè”. L’impasto è quasi identico all’odierna pasta choux (quella degli attuali bignè) e consiste in una polentina composta da acqua (o latte), burro, farina, arricchita con uova intere e un numero variabile di tuorli. Questa pasta si foggiava poi in piccoli cilindri, losanghe, oppure gettando a cucchiaiate l’impasto in acqua bollente attendendo che si gonfiasse prima di scolarlo e servirlo con burro e formaggio. Di questa ricetta esistono numerose varianti che prevedono anche spinaci o mozzarella, o ancora la farina di riso in sostituzione di quella di frumento.
Per quasi un secolo questa ricetta degli gnocchi rimase la più diffusa e si ritrova ancora quasi identica agli inizi del Novecento come “gnocchetti leggeri” (Giulia Lazzari Turco “Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l’uso di famiglia” del 1904) o come specialità regionale, chiamata “macaroni alla veneziana” (“100 specialità di cucina italiane ed estere” edito da Sognozo nel 1908).
Una delle ricette più antiche degli gnocchi all’acqua
Una delle ricette più antiche degli gnocchi all’acqua è riportata da Francesco Leonardi nel suo “Apicio moderno” del 1790: “Fate bollire in una cazzarola (pentola) un poco d’acqua con un buon pezzo di butirro, e sale, poneteci farina sufficiente per fare una pasta maneggievole come alla Reale (che prevedeva 22,8 cl di acqua, 56 gr di burro e una quantità non indicata di farina), fatela cuocere bene sopra il fuoco movendo sempre con una cucchiaja di legno, mettetela poscia in un’altra cazzarola. Quando sarà fredda poneteci per volta per ogni libbra (340 gr) di farina tre rossi d’uova crude e un bianco, maneggiando sempre acciò l’uova l’incorporino colla pasta, aggiungeteci un pugno di parmigiano grattato. Ponete la pasta sopra la tavola della Pasticceria, stendetela poco per volta colle mani con quasi niente farina, alla grossezza del dito grosso, tagliate gli gnocchi a mostaccioletti (piccole losanghe), fateli cuocere nell’acqua bollente giusta di sale, allorché diverranno gonfi, e dentro spongosi (spugnosi) saranno cotti; levateli subito, scolateli.”
Una volta pronti si dispongono a strati in una pirofila con burro, poca panna e parmigiano, prima di essere passati al forno. A discrezione si possono aggiungere cannella, noce moscata o pepe.
Gli gnocchi di patate
Sebbene la patata sia conosciuta e descritta dagli agronomi fin dal tardo Rinascimento, occorre attendere i drammatici esiti della carestia del 1764 per avere ricettari che ne consiglino il consumo mescolata a farina, sotto forma di pane o di pasta. La prima soluzione non prese mai piede a causa della consistenza del pane di patate che si scioglieva una volta bagnato, per cui non poteva essere utilizzato come base delle zuppe, uno degli alimenti cardine della gastronomia dell’epoca. L’introduzione della patata lessa all’interno degli gnocchi ebbe invece una discreta fortuna, ma ancora agli inizi del Novecento questa ricetta era solo una delle numerose varianti presenti in cucina.
Le prime ricette degli gnocchi di patate
Le prime ricette degli gnocchi di patate vengono proposte alla fine del Settecento e le patate lessate e schiacciate non sono semplicemente impastate con la farina, ma inserite all’interno della composizione degli gnocchi all’acqua (vedi sopra). Ancora per decine di anni dentro agli gnocchi di patate vennero inseriti svariati altri ingredienti, come tuorli d’uovo, panna, prezzemolo, aglio, ricotta e grasso di vitello. Pellegrino Artusi nel 1891 ne descrive due ricette: la prima con patate lessate e schiacciate impastate con petto di pollo tritato, parmigiano, tuorli d’uovo, farina e noce moscata. E la seconda, molto più semplice, con sole patate e farina.
Questa versione minimalista, destinata ad avere una grande fortuna, appare già nel 1871 sotto il nome di “gnocchi alla marchigiana”, ma nel 1908 il primo ricettario di cucina tradizionale italiana li include sotto le specialità bolognesi, mentre il “Talismano della felicità” del 1927 ne parla come un piatto tipico delle trattorie romane che viene servito il giovedì.
Gnocchi alla romana
Ma gli gnocchi alla romana che conosciamo oggi sono molto diversi e la loro particolarità è di essere formati da una polentina che, una volta raffreddata e tagliata in pezzi, non viene lessata in acqua, ma passata direttamente in forno con burro e formaggio. Sembra che appaiano per la prima volta ne “Il nuovo cuoco Ticinese” del 1846, un ricettario non esattamente laziale, ma che doveva godere di un punto di vista insolitamente ampio grazie alla sua posizione geografica.
Questa prima versione era composta da farina, latte, tuorli d’uovo profumata con buccia di limone grattugiata. Con lievi differenze (le uova sono intere, scompare il limone ed entra il gruviera) si ritrova ancora agli inizi del Novecento. La semola sostituirà la comune farina solo negli anni ‘30, andando a fissare la ricetta che oggi tutti conosciamo. Per la cronaca, nei ricettari viene citato un altro tipo di gnocco alla romana a base di patate e petto di pollo da servire in brodo, sostanzialmente identico a quello descritto da Pellegrino Artusi a fine Ottocento.
Gli gnocchi dispersi
Gli gnocchi sopravvissuti oggi sono una frazione di quelli registrati nei ricettari nel corso dei secoli di cui si è persa la memoria. Esistevano gli “gnocchi d’oro” a base di farina di granoturco, quelli “alla dama” impastati con tuorli d’uovo cotti, gli gnocchi di riso, di ceci, di piselli, alla panna e molti altri ancora. Tra ricette e varianti, solo il “Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l’uso di famiglia” di Giulia Lazzari Turco ne cita almeno 30 tipi da servire in brodo e 24 da servire asciutti: un patrimonio di specialità da cui attingere a piene mani per chi volesse sperimentare l’autentica, ma inusuale, cucina tradizionale italiana.
Le linguine sono un tipo di pasta lunga di semola di grano duro.
La lunghezza è la stessa degli spaghetti ma, anziché avere la forma cilindrica, hanno sembianze piatte e appartengono alla stessa famiglia delle bavette (spaghetto schiacciato a sezione rettangolare, di medio spessore) e delle trenette (linguine a sezione quadrata con maggior spessore ma minore larghezza) originarie di Genova.La particolare conformazione di questo tipo di pasta ne predilige l'accostamento a sughi e condimenti a base di pesce. In Liguria il condimento tipico per le trenette è il pesto, per le linguine la ricetta tipica è le linguine allo scoglio.
I maccheroni sono un tipo di pasta alimentare ottenuta mescolando semola di grano duro e acqua. A volte all'impasto sono aggiunti peperoncino, spinaci o inchiostro di seppia per conferire rispettivamente una colorazione rossa, verde o nera. Esiste anche una versione all'uovo, ottenuta aggiungendo uova all'impasto.
Con il termine maccheroni ci si riferisce normalmente a un generico tipo di pastasciutta corta di forma tubolare, internamente vuota perché s'impregni meglio del sugo con cui viene accompagnata, e di dimensioni varie (in genere la lunghezza è di circa 6 cm).
In Abruzzo ci si riferisce comunemente con il termine "maccheroni" ai cosiddetti maccheroni alla chitarra, un prodotto agroalimentare tipico della regione consistente in una pasta lunga a sezione quadrata, realizzata con degli specifici utensili denominati "chitarre".
In Sicilia, specialmente nell'entroterra, esiste anche la versione senza buco, ottenuta lavorando la pasta senza il ferretto o altro strumento similare, da servire con salsa di pomodoro e carne di castrato, caciocavallo o ricotta salata grattugiata. Va tuttavia precisato che questo tipo di pasta viene talvolta utilizzato anche per le minestre in brodo e che in alcune regioni il termine può indicare forme di pasta completamente diverse: così, ad esempio, i classici maccheroni alla chitarra abruzzesi (chiamati anche caratelle) o i maccheroni crioli (o cirioli) del Molise in realtà sono molto più simili a degli spaghetti, seppure con una sezione quadrata anziché rotonda. Analogamente, la maccaronara irpina è fatta con grossi spaghetti. I tipici maccheroncini di Campofilone, nelle Marche, sono tagliatelline all'uovo. Inoltre, in alcune zone della Toscana (in particolare nella provincia di Arezzo), per maccheroni si intendono le tagliatelle, come nel tipico piatto maccheroni co' l'ocio che viene realizzato appunto con tagliatelle al ragù d'oca, mentre in provincia di Lucca e Pistoia corrispondono agli straccetti (quadrati o rombi di pasta fatta in casa, spesso conditi con sugo di pomodoro o di funghi). In Calabria per maccheroni o filejia (nella parte centrosettentrionale) si intende un tipo di pasta lunga come mezzo spaghetto lavorata in casa, con un buco finissimo (fatto con un ferretto fino e lungo) e vanno cucinati con ragù o con la carne di capra.
Tale confusione o sovrapposizione lessicale va sostanzialmente attribuita alla più antica origine e al più vasto e generico significato del vocabolo maccheroni rispetto a quello più ristretto che ha assunto progressivamente negli ultimi due secoli con l'avvento di una terminologia specifica per ogni tipo di pasta e la nascita di nomi come spaghetti o tagliatelle.
In ogni caso il termine generico maccheroni è usato molto più spesso all'estero e inteso quasi come un sinonimo di pastasciutta se non addirittura di pasta. In Italia invece prevalgono le denominazioni legate alle diverse tipologie di pasta. Per fare alcuni esempi, quando i maccheroni si presentano con delle scanalature sulla superficie esterna vengono chiamati rigatoni (scanalature longitudinali) o tortiglioni (scanalature a spirale), se invece la forma è arcuata anziché diritta si utilizzano i termini sedani o sedanini (in base alle dimensioni) o anche lumaconi se i pezzi sono piuttosto larghi e con curvatura particolarmente accentuata.
I maccheroni sono un tipo di pasta alimentare ottenuta mescolando semola di grano duro e acqua. A volte all'impasto sono aggiunti peperoncino, spinaci o inchiostro di seppia per conferire rispettivamente una colorazione rossa, verde o nera. Esiste anche una versione all'uovo, ottenuta aggiungendo uova all'impasto.
Con il termine "maccheroni" ci si riferisce normalmente a un generico tipo di pastasciutta "corta" di forma tubolare, internamente vuota perché s'impregni meglio del sugo con cui viene accompagnata, e di dimensioni varie (in genere la lunghezza è di circa 6 cm).
Va tuttavia precisato che questo tipo di pasta viene talvolta utilizzato anche per le minestre in brodo e che in alcune regioni il termine può indicare forme di pasta completamente diverse: così, ad esempio, i classici maccheroni alla chitarra abruzzesi (chiamati anche caratelle) o i maccheroni crioli (o cirioli) del Molise in realtà sono molto più simili a degli spaghetti, seppure con una sezione quadrata anziché rotonda. Analogamente, la maccaronara irpina è fatta con grossi spaghetti. I tipici Maccheroncini di Campofilone, nelle Marche, sono tagliatelline all'uovo. Inoltre, in alcune zone della Toscana (in particolare nella provincia di Arezzo), per maccheroni si intendono le tagliatelle, come nel tipico piatto "maccheroni co' l'ocio" che viene realizzato appunto con tagliatelle al ragù d'oca, mentre in provincia di Lucca corrispondono agli "straccetti" (quadrati/rombi di pasta fatta in casa, spesso conditi con sugo di pomodoro, o funghi). In Calabria per maccheroni o filejia (nella Calabria del centro nord) si intende un tipo di pasta lunga come mezzo spaghetto lavorata in casa, con un buco finissimo (fatto con un ferretto fino e lungo) e vanno cucinati con ragù o con la carne di capra.
In ogni caso il termine generico maccheroni è usato molto più spesso all'estero, dove è anche assimilato a quello di spaghetti e inteso quasi come un sinonimo di pastasciutta se non addirittura di pasta. In Italia invece prevalgono le denominazioni legate alle diverse tipologie di pasta. Per fare alcuni esempi, quando i maccheroni si presentano con delle scanalature sulla superficie esterna vengono chiamati "rigatoni" (scanalature longitudinali) o "tortiglioni" (scanalature a spirale), se invece la forma è arcuata anziché diritta si utilizzano i termini "sedani" o "sedanini" (in base alle dimensioni) o anche "lumaconi" se i pezzi sono piuttosto larghi e con curvatura particolarmente accentuata.
In uno specifico articolo, il linguista G. Alessio precisa che la parola può avere due origini: 1) dal greco bizantino, makarònia ossia «canto funebre» (attestato nel sec. XIII da Giacomo di Bulgaria), che sarebbe passato a significare «pasto del funerale» e quindi di «pietanza da servire» durante questo officio (attestato ancor oggi in Tracia orientale, nel senso di «pietanza a base di riso servita durante i funerali»); in questo caso il termine sarebbe composto dalla doppia radice di makàrios «beato» (derivato da  màkar, «beato»; per il quale termine attuale greco, la connotazione funebre è attestata anche da makaritis «defunto») e di aeònios «eterno»; 2) dal greco maharia, «zuppa d'orzo» (anche questo, da «beato»), a cui si sarebbe aggiunto il suffisso /-one/. Secondo un'ultima ipotesi, il termine deriverebbe dal latino tardo maccare («schiacciare, comprimere»).
Secondo la leggenda, i maccheroni sarebbero stati portati in Italia da Marco Polo, di ritorno a Venezia dal lontano Catai (cioè dalla Cina), nel 1292. Questa ipotesi è stata da tempo confutata, in quanto sembra che fossero già in uso nella nostra penisola almeno da un secolo, come del resto la pasta in generale: lo scrittore arabo Idrisi ne attesta infatti la presenza in Sicilia, in particolare a Trabia.
Il Lazio ha inserito i maccheroni nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani.
Come gli spaghetti, anche i maccheroni svolgono spesso il ruolo di simbolo della cucina italiana e più in generale dell'Italia.
Le Mafalde sono una pasta prodotta esclusivamente con farine di grano duro ed acqua e sono originarie della Campania. A Napoli un tempo erano dette "Fettuccelle Ricche" o Manfredi. Successivamente furono dedicate alla principessa Mafalda di Savoia e ribattezzate Reginette o "Mafaldine". Si prestano ad essere condite con vari sughi di carne, ad esempio nella cucina napoletana vengono condite con la ricotta precedentemente stemperata nel ragù napoletano, ed entrano spesso nella composizione della pasta mischiata.

I maltagliati sono un tipo di pasta riconosciuta come prodotto tipico della regione Emilia-Romagna. Quando si fanno le tagliatelle la pasta viene arrotolata e quindi tagliata a strisce sottili, per ricavarne appunto le "tagliatelle". Quella parte di sfoglia che è rimasta, perché non permetteva di ricavarne delle tagliatelle, (generalmente i bordi), viene tagliata in modo irregolare tanto da ricavarne pezzetti di pasta del tutto disomogenei (i maltagliati). Trattandosi per lo più delle aree perimetrali della sfoglia, anche lo spessore è disomogeneo. Insomma sono pezzetti di pasta all'uovo che si differenziano per forma, dimensione e spessore.
L'uso più classico dei maltagliati è con la minestra di fagioli, esistono comunque numerose ricette, per lo più povere, che prevedono l'utilizzo dei maltagliati.
Gli sfridi di pasta sono anche all'origine di un celebre piatto romagnolo, gli strozzapreti, questa viene attribuita alla obbligatorietà della "decima" a favore del clero. Qui le massaie romagnole, sempre utilizzando gli sfridi di pasta invece di tagliarli ulteriormente (come per i maltagliati) li arrotolavano sul palmo della mano ricavandone una sorta di gnocchetti allungati. Nel compiere questa operazione, si mormora, commentassero: "Che si possa strozzare quel prete". Alludendo al destinatario della decima.

I marubini sono un tipo di pasta ripiena riconosciuta come prodotto agroalimentare tradizionale per la regione Lombardia. Piatto tipico del Cremonese e della pianura piacentina, con un ripieno a base di brasato, pistum (impasto di salame cremonese), grana padano, noce moscata che vengono cotti e serviti nei tre brodi ottenuti utilizzando manzo, maiale e gallina. Sono abitualmente consumati anche nella pianura nordorientale piacentina. Nel resto del Piacentino e del Parmense esiste un piatto strettamente correlato che prende però il nome di anolini e che il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha riconosciuto, su proposta della Regione Emilia-Romagna, come uno dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani tipico della provincia di Piacenza.
Le Penne Rigate sono amate in tutta la Penisola, e cambiano nome a seconda delle regioni d'Italia. Ad esempio, per l'Umbria sono le "spole" e al sud le chiamano i "maltagliati". Ormai un fenomeno di costume, sono proverbiali per la loro versatilità perché risolvono mille situazioni, anche le più improvvise: dal piatto di pasta organizzato all'ultimo minuto con gli amici alla più classica delle tavolate familiari, riunita davanti a un bel piatto fumante di Penne all'arrabbiata o al ragù.
Le Penne Rigate si sposano alla perfezione con sughi di ogni tipo, da quelli della tradizione, a base di carne o pomodoro, a quelli più innovativi e originali, nati dall'unione tra verdure e formaggi. Con la loro linea snella, poi, sanno creare pasticci al forno dalla forma impeccabile, pronti per trionfare al centro di un pranzo di festa. La forma slanciata delle Penne Rigate si sposa bene anche con preparazioni più ricche, come la classica "boscaiola".

Appartenenti alla numerosissima famiglia napoletana degli Spaghetti, i Vermicelli sono stati protagonisti delle dissertazioni degli esperti sui calibri e le dimensioni della pasta lunga. Ma al di là delle dispute ciò che più interessa dei Vermicelli è sicuramente la loro consistenza particolarmente stuzzicante e la versatilità in cucina.
I Vermicelli appagano tutti i sensi e piacciono già alla vista, ancora prima di essere assaggiati. Ma è proprio all'assaggio che, grazie alla loro consistenza appetitosa, si raggiunge il massimo del piacere. Ideali per gli esperimenti più azzardati, i Vermicelli risolvono innumerevoli situazioni in cucina, prestandosi con uguale successo e allegria alle preparazioni classiche come a quelle più creative. Vero cavallo di battaglia della tradizione culinaria napoletana, i Vermicelli amano, oltre al classico sugo al pomodoro, tutti i condimenti, anche i più legati. La ricetta che suggeriamo è quella di abbinare i Vermicelli al sapore tutto mediterraneo del tonno e dei peperoni.

sabato 11 gennaio 2025

Corso di cucina: 11 Molluschi e crostacei: come pulirli

1. Distinguere crostacei e molluschi

I crostacei sono invertebrati dotati di una corazza esterna che ricopre il loro corpo, detta carapace; tale corazza ha una consistenza più o meno robusta, a seconda della taglia e del tipo di crostaceo. In alcuni casi, si presenta come un vero e proprio scudo protettivo. Dal capotorace di questi animali (la parte anteriore) si dipartono cinque paia di zampe; in alcuni crostacei il primo paio si è trasformato in chele, utilizzate come arma di difesa e di attacco. All’interno dell’addome e delle chele si trova la parte commestibile dei crostacei.

I molluschi sono invertebrati dal corpo molle; si distinguono in cefalopodi e conchiglie. I primi hanno il corpo a forma di sacco, dal quale sporge il capo con otto/dieci tentacoli; a seconda della specie possono essere dotati di un sostegno interno, come l’osso nella seppia o la penna nel calamaro. Le conchiglie si dividono in due grandi gruppi: quello dei molluschi bivalve, nei quali il mollusco è racchiuso in una conchiglia doppia, e quello degli univalve, a conchiglia unica, come le «lumachine» di mare o di terra.

2. Individuare la freschezza

Gli indici di freschezza da tenere presente per i crostacei sono:

- l’aspetto generale, che deve essere brillante e vivace,

- l’occhio nero e luccicante,

- i muscoli rigidi

- e l’odore appena accennato.

I crostacei che si presentano opachi, con membrana addominale verdastra, occhi appannati, muscolatura rilassata e odore accentuato presentano uno stato di alterazione più o meno avanzato.

Per quanto riguarda i molluschi, gli indici di freschezza variano in base ai due gruppi principali in cui si suddividono questi animali. I cefalopodi devono avere colore bianco e lucido, occhi brillanti, carni sode, tentacoli resistenti e odore appena accennato; all’acquisto scartate invece quelli dal corpo giallastro e opaco, con carni e tentacoli rilassati e molli, dall’odore molto accentuato. Le conchiglie dovranno essere ben chiuse, con il mollusco ancora vivo, di peso consistente rispetto al volume. Non acquistate mai conchiglie aperte o che si aprono facilmente, leggere, senza liquido all’interno, con corpo morto e molle. Controllate sempre la data di raccolta impressa sulla fascetta della retina: le conchiglie possono essere conservate fino a cinque giorni, ma è preferibile consumarle entro tre.

3. Regole di conservazione

I crostacei devono essere conservati in frigorifero a 0 °C, coperti con un panno bagnato. Aragoste, astici, gamberi di fiume e canocchie vanno acquistati ancora vivi (devono reagire al tocco degli occhi o delle antenne), poiché alla morte si avvia rapidamente il processo di decomposizione responsabile del progressivo disfacimento della polpa. In ogni caso non si possono conservare per più di tre giorni. Alcuni crostacei, in particolare gamberi e scampi, sopportano molto bene la surgelazione, anche se sarebbe preferibile mantenerli a una temperatura inferiore ai –20 °C, per evitare un’eccessiva disidratazione.

I molluschi possono essere conservati in frigorifero a una temperatura di 0-2 °C, per non più di 3 o 4 giorni. Le conchiglie devono essere avvolte in un panno bagnato; mentre queste ultime forniscono risultati appena accettabili nella surgelazione, perché tendono a indurirsi, i cefalopodi talvolta ne traggono beneficio, dal momento che hanno la tendenza a diventare troppo teneri.

Crostacei e molluschi nell’alimentazione

Crostacei e molluschi hanno valori nutrizionali sostanzialmente simili a quelli dei pesci magri; oltre all’ottimo apporto proteico forniscono infatti una buona quantità di sali minerali e vitamine. Per non correre gravi rischi, è necessario seguire alcune semplici norme igieniche: acquistate solo molluschi con la conchiglia ben chiusa, provenienti da allevamenti controllati dall’ufficiale sanitario, racchiusi in confezioni integre, provviste di etichetta con zona di provenienza e data di scadenza (o di raccolta).

Crostacei e molluschi, tecniche di base

Nel corso della lavorazione di molluschi e crostacei osservate scrupolosamente le norme igieniche: lavatevi spesso le mani; tenete crostacei e molluschi sul tavolo di lavoro lo stretto tempo necessario per la preparazione; servitevi di un tagliere riservato esclusivamente a questo scopo.

Preparazione dei crostacei

È importante conoscere alla perfezione le regole per la preparazione dei crostacei; di seguito verranno forniti alcuni consigli pratici relativi alle tecniche maggiormente diffuse.

Scorticare i gamberi

Separate delicatamente la testa dei gamberi dalla coda ruotandola su se stessa. Staccate quindi gli anelli del carapace con il pollice per mettere a nudo la polpa, lasciando attaccata la frangia caudale, cioè il pezzetto terminale. Servendovi di uno stecchino (o incidendo leggermente la carne nel dorso della coda) eliminate l’intestino, che ha l’aspetto di un lungo filo nero

Preparare l’aragosta per la cottura bollita

Stendete completamente la coda dell’aragosta ancora viva e disponetela su un’assicella, legandola con cura con uno spago per evitare che si incurvi durante la cottura. Quando il court-bouillon è in ebollizione fate scivolare l’assicella nel liquido e procedete come previsto dalla ricetta. Per l’astice bollito procedete nello stesso modo, ricordando di tenere legate le chele, per non correre il rischio di essere feriti.

Sezionare l’astice a metà

Lavate l’astice in acqua corrente e disponetelo su un tagliere; incidete quindi con la punta di un trinciante il crostaceo al centro del capotorace, nel punto in cui convergono tre linee. Affondate il coltello lungo la linea centrale, prima verso la coda, poi passando in mezzo agli occhi. Rimuovete la sacca membranosa situata nel capotorace, pulite l’intestino e conservatelo assieme al corallo. L’astice così preparato può essere cotto alla griglia o in padella.

Sezionare l’astice in pezzi

Staccate le chele dell’astice, quindi separate la coda dal capotorace ruotandola con le mani. Tagliate la coda in 4-5 pezzi e rompete le chele con un coltello pesante per facilitare in seguito l’apertura. Tagliate in due parti il capotorace nel senso della lunghezza ed eliminate lo stomaco; servendovi di un cucchiaino prelevate quindi il corallo e l’intestino. L’astice tagliato in questo modo si presta alla cottura in umido, all’americana, in fricassea ecc.

Scorticare l’astice cotto

Staccate le chele dell’astice tagliando le articolazioni e rompetele con un martelletto, facendo attenzione a non schiacciarle; estraete quindi le carni dalle chele a pezzi interi. Togliete poi la corazza dal capotorace sollevandola verso l’esterno. Tagliate infine la membrana verticale della coda con un paio di forbici e staccate la carne in un sol pezzo.

Scorticare il granchio cotto

Esercitando una piccola torsione staccate dal carapace le chele e le zampe e mettetele da parte. Staccate anche la coda, che è ripiegata sotto l’addome, praticando una leggera torsione, e gettatela. Con un martelletto o un coltello pesante rompete le chele e le zampe senza schiacciarle, quindi estraete la polpa a pezzi interi. Infilate la punta di un coltello tra l’attaccatura delle zampe e la piastra addominale, praticate un taglio seguendone i contorni e staccatela; tagliatela a metà, separate uno a uno gli alveoli e con uno spiedino staccate la carne, che si presenterà quasi tutta sbriciolata. Con l’aiuto di un piccolo cucchiaio prelevate la carne che si trova all’interno del carapace.

Preparazioni dei molluschi

Per pulire e preparare correttamente i molluschi è necessario seguire alcune semplici regole, illustrate dettagliatamente nelle pagine seguenti.



Pulire i molluschi con i tentacoli

Afferrate la testa del mollusco e sfilatela dal corpo estraendo anche le interiora e, se è presente, la vescica contenente l’inchiostro, che dovrà essere forata per estrarre le preziose gocce nere (da utilizzare in seguito per insaporire e colorare salse e farce). Servendovi di un paio di forbici tagliate via gli occhi, facendo attenzione poiché sporcano facilmente; eliminate quindi il becco situato al centro dei tentacoli e lavate accuratamente la testa e l’intestino che, a differenza di quanto comunemente si crede, è commestibile. Nei calamari sfilate la penna che si trova all’interno del sacco; ripulite quindi il corpo del mollusco sotto l’acqua corrente per eliminare la membrana esterna che lo ricopre, senza staccare le due pinne. I calamari di grandi dimensioni, come anche i polpi, prima della cottura devono essere battuti con forza sul tagliere o meglio sulle rocce, per farli diventare teneri. Per la pulizia della seppia intera è consigliabile procedere diversamente: incidete la pelle nella parte in cui si trova l’osso, allargate i bordi del taglio e con le dita estraetelo delicatamente. Rimuovete la membrana che copre i visceri e staccate con precauzione la vescica contenente l’inchiostro, quindi procedete alla pulizia.

Pulire cozze e vongole

Scartate tutte le conchiglie aperte e rotte. Per la pulizia delle cozze eliminate il bisso, cioè la «barbetta» con la quale esse si attaccano allo scoglio. Se le conchiglie sono sporche, grattatele con un coltellino per eliminare tutto ciò che vi aderisce, quindi lavatele in acqua fredda corrente, muovendole vigorosamente con le mani. Ripetete l’operazione fino a quando l’acqua di lavaggio sarà completamente pulita, quindi sgocciolatele.

Per la pulizia delle conchiglie che vivono su fondi sabbiosi, per esempio le vongole e i fasolari, è opportuno procedere alla spurgatura, per eliminare tutte le impurità contenute al loro interno: dovete semplicemente lasciare le conchiglie a bagno in acqua fredda salata per almeno un’ora, quindi procedete al lavaggio.

Aprire le ostriche da presentare crude

Afferrate l’ostrica con la parte concava rivolta verso il basso, proteggendovi la mano con un panno ripiegato in quattro o con un guanto in maglia di metallo. Infilate la punta dell’apposito coltello (detto «apriostriche») nella piccola apertura della cerniera e, ruotando la lama, sollevate le valve. Facendo scorrere la lama sulla valva piatta, tagliate il muscolo adduttore; allontanate quindi la valva piatta, staccate il mollusco anche da quella concava ed eliminate le piccole scaglie che possono rimanere attaccate, facendo attenzione a non disperdere il prezioso liquido. Servite le ostriche su ghiaccio tritato con limone e pepe nero. Il procedimento descritto è quello più adatto per le comuni ostriche cave allungate; se avete la fortuna di avere a disposizione la varietà più pregiata, di forma tondeggiante, cercate una fessura tra le valve, infilatevi il coltello e staccate il mollusco dalla conchiglia piatta, esattamente come si fa con le cappesante.

Aprire le cappesante

Afferrate la cappasanta con un panno ripiegato, quindi introducete con cautela la lama di un coltello per sfilettare tra le due valve: con la mano sinistra forzate leggermente l’apertura e con il coltello staccate il mollusco dalla parte piatta della conchiglia, che a questo punto si aprirà facilmente. Staccate il mollusco anche dalla parte concava, separate quindi con cura la noce e il corallo dalle frange e dalle parti nere. Lavate le due parti pregiate della cappasanta più volte sotto l’acqua fredda corrente, per eliminare ogni traccia di sabbia; lasciatele a bagno in acqua fredda salata per 15 minuti per farle spurgare, quindi sgocciolatele e asciugatele. Se desiderate presentare il mollusco nel suo guscio, lavate e pulite con cura la conchiglia concava e fatela bollire 10 minuti nell’acqua con un pizzico di bicarbonato e sale, quindi risciacquatela.

Preparare le lumache

Ponete le lumache per almeno due giorni in un paniere coperto, in un locale secco e ben aerato, nutrendole solamente con qualche foglia di lattuga. Lasciatele quindi per 2 ore in un recipiente, coperte con acqua cui avrete aggiunto una buona spruzzata di aceto e sale grosso; trascorso questo tempo, lavatele con abbondante acqua fredda e sgocciolatele, ripetendo l’operazione due o tre volte, fino a quando non vi sia più traccia di schiuma. Sbianchite le lumache 10 minuti in acqua bollente, scolatele e con l’aiuto di uno spiedino prelevate il mollusco dalla conchiglia, eliminando la parte nera (il pezzo vicino alla coda). Dopo aver preparato un court-bouillon al vino bianco fortemente aromatizzato, immergetevi le lumache e fatele sobbollire per circa 2 ore e 30 minuti. Lasciate raffreddare i molluschi nel liquido di cottura e conservateli in frigorifero fino al momento dell’uso. Prima di essere utilizzate, le conchiglie delle lumache devono essere bollite per circa 30 minuti nell’acqua con un pizzico di bicarbonato, risciacquate in abbondante acqua fredda e asciugate in forno a calore moderato.


venerdì 10 gennaio 2025

Corso di cucina: 10 Crostacei e molluschi

ARAGOSTA

Tipo: Crostacei
Nome scientifico: Palinurus vulgaris
Famiglia: Palinuridae (Palinuridi)
Ordine: Decapoda (Decapodi)
Crostaceo dal corpo robusto provvisto di due lunghissime antenne tra le quali sono disposti numerosi denti appuntiti. La parte anteriore (cefalotorace) è ricoperta da carapace da cui si diramano 13 paia di appendici. La parte posteriore (addome) è costituita da 6 segmenti. E' priva di rostro. Presenza di più serie di rilievi a forma di scaglie. Tutte le zampe mancano di chele. Colorazione bruno-rossastro-violacea. Ha una taglia medio-grande con una lunghezza media di 20-40 cm e massima di 50 cm ed il peso fino a 8 kg. Il corpo è di forma sub-cilindrica, rivestito da una corazza che durante la crescita cambia diverse volte per ricrearne una nuova.
La coda ha la forma di un ventaglio. Possiede diverse gambe ma solo una parte vengono utilizzate per camminare. A differenza di altri crostacei (ad esempio granchio ed astice), non ha chele.
Durante tutta la sua vita non smette mai di crescere, ed è un animale piuttosto longevo, può infatti vivere anche fino a 70 anni.
Caratteristiche organolettiche
Ha carni pregiatissime di sapore squisito. Commercializzata viva o congelata. E' il prodotto ittico più pregiato ed il crostaceo nobile per eccellenza e delicatezza di carni. Tutti i crostacei, dopo bollitura, diventano rosa o rossi.
Come riconoscere se è fresco
E' un prodotto molto delicato per cui deve essere commercializzata ancora viva per garantirne la freschezza.
Pulizia e trattamento
Normalmente viene cucinata intera, risciacquandola prima in acqua corrente. Mettere a bollire dell'acqua e aggiungere l'aragosta ancora viva.
Preparazioni tipiche
E' ottima cucinata in vari modi. Come antipasto o secondo piatto bollita con l'aggiunta di salsa maionese. Come primo unita a riso o pasta; tagliata a pezzi, dopo bollitura, unita a pomodorini freschi.
Ricette suggerite
Bouillabaisse, aragosta all'americana, aragosta alla griglia, cappon magro, insalata di aragosta e avocado.
Dove si pesca
Vive di preferenza su fondo roccioso, più raramente su fondo sabbioso, a profondità variabili fino a 100 metri a seconda della stagione. E' diffusa sia nel Mediterraneo che nell'Atlantico.
Stagionalità
E' reperibile durante tutto l'anno.

ARSELLA
arsella
Donax trunculus, conosciuto comunemente col nome di arsella, arsellina o raramente tellina sebbene non appartenga al genere omonimo, è un mollusco bivalve della famiglia Donacidae.
In Italia la raccolta di questo mollusco viene praticata comunemente. La raccolta professionale viene fatta mediante un attrezzo chiamato "rastrello da natante", simile a quello usato per la pesca delle vongole, che viene trainato da imbarcazioni in possesso di licenza di pesca. Tale attività può essere svolta unicamente in tratti di mare con acque classificate dai competenti organi di vigilanza sanitari; se la classe delle acque è definita "A" il prodotto può andare direttamente al consumo umano altrimenti deve essere avviato ad un trattamento di depurazione presso centri opportunamente autorizzati.
La raccolta manuale avviene attraverso uno strumento composto principalmente da un setaccio che raccoglie le telline e le separa dalla sabbia. Tale strumento viene azionato mediante una fascia intorno alla vita che serve per spostarlo orizzontalmente e da un lungo manico che fuoriesce dall'acqua. Il manico permette al setaccio di essere inclinato con un angolo utile a rimanere 3-4 cm immerso nel fondale sabbioso, contrastando in tal modo le forze che lo tirerebbero a galla esercitate dal traino.

ASTICE
Tipo: Crostacei
Nome scientifico: Homarus gammarus
Famiglia: Nephropidae (Nefropidi)
Ordine: Decapoda (Decapodi)
Crostaceo di grande mole con corpo allungato ricoperto, nella parte anteriore, (cefalotorace) da un carapace, liscio, da cui si diramano 13 paia di appendici. Rostro robusto privo di denti; il primo paio di zampe sono trasformate in chele. Sul carapace è visibile un solco che raggiunge la parte codale. La parte posteriore del corpo (addome) è formata da 6 segmenti.
Colorazione azzurro intenso, può raggiungere i 65 cm di lunghezza e 5/6 Kg di peso.
Caratteristiche organolettiche
Carni ottime. Si commercializza vivo e congelato.
Detto "astice blu" per la colorazione azzurrata, è un prodotto da intenditori grazie alla squisitezza delle sue carni. E' più grande e ha corpo più affusolato rispetto all'astice americano, carni più pregiate, più morbide e delicate. Tutti i crostacei, dopo bollitura, diventano rosa o rossi.
Come riconoscere se è fresco
E' un prodotto molto delicato per cui deve essere commercializzato ancora vivo per garantirne la freschezza.
Pulizia e trattamento
Normalmente viene cucinato intero, risciacquandolo prima in acqua corrente. Mettere a bollire dell'acqua e aggiungere l'astice ancora vivo.
Preparazioni tipiche
E' ottimo cucinato in vari modi: come antipasto o secondo piatto bollito con salsa di maionese, come primo tagliato a pezzi e unito a riso o pasta, dopo bollitura, con pomodorini freschi.
Ricette suggerite
Linguine all'astice
Dove si pesca
Vive su fondali rocciosi; la pesca avviene principalmente di notte con le nasse. Specie comune nel Mediterraneo occidentale (meno frequente nell'area orientale) e nell'Atlantico orientale.
Stagionalità
E' reperibile durante tutto l'anno.
Non è un prodotto da allevamento, esistono tuttavia delle vasche di mantenimento per mantenerlo vivo e garantirne la freschezza.
Denominazioni dialettali
Elefante di mare, Lupicante, Lupo di mare (Italiano); Longobardo (Liguria); Astese, Astise (Veneto); Baticulo, Grillo de mar (Venezia G.); Lupicante, Lupo di mare, Elefante (Toscana); Alifante mare (Campania); Alifante di mare, Astrice, Karrile (Puglie); Liafanti (Calabria); Liafanti, Lempitu di fora (Sicilia); Lenfra, Lungufanti
(Sardegna)
Inglese: Lobster
Francese: Homard, Homara, Lorman, Legrest, Llangaou, Lingoumbau
Spagnolo: Gruman, Lubrigante, Lobricanto, Lliebrecanta, Llobagante, Bogavante, Estrabagante, Abacanto, Centolla, Locantantaro, Mishera, Langosta francesa

CALAMARO
Tipo: Molluschi 
Nome scientifico: Loligo vulgaris
Famiglia: Loliginidae (Loliginidi)
Ordine: Decapoda (Decapodi)
Corpo cilindrico, allungato. Provvisto di 2 pinne all'estremità dorsale, di 8 braccia e 2 tentacoli più lunghi muniti di ventose presenti attorno alla bocca. All'interno del corpo è presente una conchiglia (gladio o calamo) lunga, appiattita e trasparente.
Colorazione rossastra con puntinatura sul dorso. Lunghezza 30-50 cm.
Caratteristiche organolettiche
Carni buone, delicate e gustose; viene commercializzato fresco e congelato.
Particolarità
Il calamaro mediterraneo si differenzia dalle altre specie di calamari poiché le pinne laterali sono lunghe quasi quanto tutto il corpo del mollusco. La colorazione assume al buio una certa fluorescenza, questo serve, soprattutto in primavera, ad attrarre la specie di sesso opposto. Per riconoscerne la freschezza si deve osservare il colore del mollusco; più la colorazione è viva e intensa, nelle sue varie sfumature, più è garantita la freschezza. La carne deve essere bianca.
Pulizia e trattamento
Lavare i molluschi sotto l'acqua corrente strofinando i tentacoli, con le mani, per eliminare i residui di sabbia ed asciugare bene con un foglio di carta da cucina, staccare la testa dal corpo, eliminare da questa gli occhi e la bocca (la protuberanza a forma di becco di pappagallo), estrarre la conchiglia trasparente e le interiora, dai molluschi più grossi togliere la pelle che li riveste. Alcune preparazioni richiedono che la testa resti attaccata alla sacca, in questo caso, aprire la sacca con un taglio verticale, per estrarre le interiora.
Un trucco per spellare più facilmente i calamari, consiste nel metterli mezzo minuto in acqua bollente e passarli poi in acqua fredda.
Preparazioni tipiche
Il calamaro si presta a diverse preparazioni: quale antipasto come insalata di mare dopo bollitura; in questo caso deve essere bollito intero perché non perda le caratteristiche organolettiche e la pelle viene tolta dopo la bollitura. Il corpo cilindrico può essere tagliato ad anelli che, passati in una pastella, vengono fritti in olio bollente. Si può cucinare ripieno tritando testa e pinne unite a pangrattato, aglio, prezzemolo, formaggio grattugiato e, a piacere, unendo del tonno sott'olio; con questo composto si riempie il corpo cilindrico, si richiude con uno stuzzicadenti e si cuoce al forno o in umido.
Ricette suggerite
Calamari alla marchigiana, Calamari ripieni, Fritto misto, Il pasticcio di pesce, Paella, Spaghetti al sugo di mare
Dove si pesca
Vive preferibilmente nelle zone costiere su fonadali fangosi. Specie comune nel Mediterraneo e nell'Atlantico orientale.
Stagionalità
E' reperibile durante tutto l'anno.
Caratteristiche nutrizionali
I calamari sono ricchi di sali minerali, quali sodio, potassio, calcio, fosforo, magnesio e vitamina A, è un alimento ricco di proteine e di tessuto connettivo, per questo richiede un’accurata masticazione. Per via dei pochi grassi, il calamaro è inoltre un alimento altamente dietetico. Nella carne di questi molluschi vi è una grande quantità di sostanze superattive speciali che assumono il controllo della produzione dei succhi gastrici necessari al processo digestivo. Inoltre inserire regolarmente la carne di calamaro nella nostra rotazione alimentare avrà un’azione stabilizzante del numero di colinesterasi nel sangue e nel fegato, importante per prevenire eventuali malattie epatiche.
Cenni storici
Il Calamaro è specie apprezzata fin dall'antichità. Raffigurazioni di questa specie sono presenti su piatti di epoca Attica e della Magna Grecia. Il Calamaro Gigante (Architeuthis dux) è il più grande cefalopode vivente che si conosca, ed è stato al centro, fin dall'antichità, di numerose leggende di mare: già Plinio parla dell'esistenza di un cefalopode mostruoso con braccia lunghe non meno di 10 metri e testa grande quanto 15 anfore romane messe insieme.
Varietà
ll calamaro comune è diffuso in tutto il Mediterraneo e nell’Atlantico orientale, dalle isole britanniche fino alle coste della Namibia. In Italia è presente in tutti i mari sebbene risulti più comune in Adriatico e in Sicilia. Nei mari del mondo esistono 22 specie appartenenti al genere Loligo mentre in Mediterraneo esiste solo un’altra specie, Loligo forbesi, che si distingue da L. vulgaris per la diversa grandezza delle ventose centrali presenti all’estremità delle mazze tentacolari delle braccia più lunghe. Le diverse specie si distinguono in genere per la forma e la dimensione delle pinne laterali, per le dimensioni del mantello, per la forma della conchiglia cornea interna, per le ventose sulle mazze tentacolari.
Come scegliere
Un modo semplice per riuscire ad individuare i calamari freschi è quello di osservarne la colorazione, che si deve presentare brillante, nitida e intensa, mentre col passare del tempo sbiadisce e compare un lieve ingiallimento. Un’altra prova per verificarne la freschezza, valida anche per gli altri molluschi, è toccarne la superficie: il tocco provoca un mutamento dei colori dell’area dove è avvenuto il contatto. La carne deve essere bianca.
Come conservare
I calamari sono molluschi molto delicati, che devono essere consumati o congelati il prima possibile. Appena acquistati devono essere eviscerati e lavati accuratamente sotto acqua corrente. Quindi è possibile conservarli in frigorifero, ben coperti da pellicola alimentare o chiusi in un sacchetto freezer, per 1 o 2 giorni al massimo. Se sono molto freschi, è possibile anche congelarli, a -18°C, in appositi sacchetti ben chiusi, avendo l’accortezza di eliminare quanta più aria possibile. Si possono così conservare 3 mesi.
Denominazioni dialettali
Calamaro comune, Calamaretto (Italiano); Caamà, Totano gentile (Liguria); Calamàr, Calamaretto (Veneto); Calamarello, Totano del riso (Venezia G.); Tòtano, Totanino (Toscana); Trufèllo, Calamaretti (Marche); Calamare (Abruzzi); Calamaio (Lazio); Calamaro verace, Calamaio, Calamarielli (Campania); Calamàre, Calamaricchie (Puglie); Calamàru (Calabria); Cadamàru, Calamàru, Calamaricchiu (Sicilia); Tòtanu, Toutinus, Calamarèddus, Toutinèddus (Sardegna).
Denominazioni straniere
Inglese: Squid, Flying squid, Calamary.
Francese: Encornet, Calamar, Corniche, Taute, Tauteno, Lauteno.
Tedesco: Tout, Glaougeau, Seiche rouge, Tifelek.
Spagnolo: Calamar, Calamarcò, Calamares, Lura, Jibiones, Chipirones, Maganos, Puntillas

COZZA
La cozza o mitilo (Mytilus galloprovincialis Lamarck 1819), Regolamento (CE) N. 1638/2001 e Regolamento (CE) N. 216/2009), è un mollusco bivalve ed equivalve. I mitili vengono chiamati comunemente in Italiano regionale anche cozze, muscoli, peoci, pedoli, móscioli, a seconda della zona geografica. Quando è necessario distinguere questa specie dalle altre del genere Mytilus, essa viene indicata con l'espressione mitilo mediterraneo.
È un mollusco lamellibranco, dotato cioè di branchie a lamelle che assorbono l'ossigeno per la respirazione e che trattengono contemporaneamente il cibo per l'alimentazione, costituita soprattutto da plancton e particellato organico in sospensione.
La valva, composta principalmente da carbonato di calcio, si presenta esternamente di colore nero o nero-viola, con sottili cerchi d'accrescimento radiali e concentrici verso la parte appuntita; internamente si presenta invece di colore madreperla, ma con una superficie liscia. Le due valve sono tenute insieme da una cerniera con tre o quattro dentelli.
La forma è grossolanamente a goccia, con il margine valvare arrotondato da un lato e appuntito e leggermente incurvato dall'altro.
Una volta aperto, il mollusco mostra il mantello che contiene tutti gli organi interni, tra cui quelli riproduttivi.
La distinzione tra i due sessi è possibile grazie all'osservazione del colore del mantello stesso, il quale, una volta raggiunta la piena maturità sessuale, si presenta di colore giallo crema nei maschi e di colore rosso arancio nelle femmine.
L'animale si lega al supporto attraverso fibre composte da L-3,4-diidrossifenilalanina (DOPA), sostanza studiata per la sua straordinaria resistenza alla trazione.
Distribuzione[modifica | modifica wikitesto]
La distribuzione naturale del mitilo mediterraneo comprende tutte zone ove vi siano scogli, emersi o sommersi, in tutto il Mediterraneo, il Mar Nero e la fascia costiera dell'Atlantico orientale, dal Marocco alle Isole Britanniche.
Il mitilo si è naturalizzato in diverse regioni del mondo: in Giappone, California, Sudafrica, Australia meridionale e Nuova Zelanda. In queste località il mitilo mediterraneo compete con la fauna locale ed è perciò considerata specie invasiva, dannosa per gli ecosistemi. Per questo motivo esso compare nella lista delle cento specie invasive più dannose.
I mitili sono frutti di mare molto apprezzati. Per questo motivo essi sono allevati in vivai distribuiti in tutto il Mediterraneo e in alcune zone, particolarmente vocate, si pratica la pesca dei mitili selvatici.
Nella parte edibile del mitilo si ha una media di 58 calorie ogni 100 gr. I mitili sono caratterizzati dalla presenza di sostanze importanti dal punto di vista nutrizionale: il ferro ammonta a 5,8 mg ogni 100 gr di parte edibile e significativa è l'alta percentuale di acidi grassi polinsaturi, tra cui l'acido eicosapentaenoico e l'acido docosaesaenoico, come anche è rilevante la presenza di pochi acidi grassi saturi, rispetto ad altri cibi di orgine animale. Altrettanto importante è la presenza nei mitili di sostanze antiossidanti, come il selenio e la vitamina E.
Molte sono le ricette gastronomiche che vedono i mitili come protagonisti[14]; se ne segnalano alcune:
in pentola o padella (eventualmente con vino bianco, pepe o altri aromi) insieme ai loro gusci;
come componente di spiedini;
fritti in pastella;
come componente di sughi per condire la pasta, da soli o con altri frutti di mare;
gratinati al forno con pan grattato, prezzemolo, aglio ed olio di oliva;
in pentola con solo pepe e cotte con il coperchio (dopo opportuna pulizia dei gusci e del bisso - il filamento tipo spago che le tiene ancorate). Nel napoletano questa preparazione si chiama "impepata di cozze", mentre se vi si aggiunge l'aglio e l'olio si chiama "sauté di cozze".
Il mitilo mediterraneo è edule, ma il suo consumo richiede molte precauzioni poiché esso, se cresciuto in zone marine prossime a scarichi urbani od in zone ove le correnti marine trascinano elementi provenienti da acque reflue, può essere facilmente ricettacolo di batteri e/o virus molto pericolosi. Infatti i mitili, come d'altro canto tutti i lamellibranchi, filtrano attraverso le loro branchie una gran quantità di acqua trattenendone particelle e microorganismi in essa sospesi.
I mitili potrebbero essere utilizzati per la depurazione delle acque, in quanto possono filtrare fino a 1000 litri di acqua al giorno.
Per i motivi suddetti è sconsigliabile l'uso invalso di mangiarli crudi, conditi con succo di limone. In alcune zone del meridione d'Italia questo modo di cibarsene è considerato, erroneamente, apportatore di effetti afrodisiaci. La credenza poi, che succo di limone spruzzato sul mollusco uccida i batteri è assolutamente infondata, dato che per eliminare tutti i batteri il succo di limone impiegherebbe diverse ore, o addirittura giorni.
Le patologie più comuni che possono insorgere a seguito di ingestione di mitili crudi cresciuti in acque non perfettamente sane sono: tifo, paratifo, colera, Norovirus ed epatite virale. Le tossine algali DSP e PSP rispettivamente causa di sindromi gastroenteriche e neurologiche di cui i mitili sono accumulatori qualora presenti nell'acqua, sono termoresistenti.
In ogni caso nella cottura i mitili devono necessariamente aprirsi in modo tale da far fluire il calore al centro del mollusco uccidendo tutti i batteri, il che richiede idoneo tempo.
Cozze:
Nell'Italia meridionale il mitilo è conosciuto con il nome di "cozza", termine derivante dal latino cochleam, ossia "chiocciola" e quindi "guscio". Il termine meridionale "cozza" è compreso in tutta Italia e negli ultimi decenni viene spesso usato anche nel resto d'Italia, a livello però esclusivamente commerciale. In ambito non commerciale, continuano invece a prevalere i nomi locali.
In Campania, nel gergo dialettale corrente si pronuncia anche còzzeca; in particolare a Napoli, il termine "cozza" o còzzeca viene anche usato per connotare una donna molto brutta. Il corrispettivo maschile, però, non è cozzo, ma cuozzo e sta ad indicare un uomo di bassa cultura.
Nel Centro-Sud, il termine "cozza" ha assunto recentemente un'accezione gergale e metaforica, di probabile provenienza romanesca, connotante una donna o ragazza decisamente brutta.
In alcune zone della Sicilia le cozze vengono chiamate cozzole di Messina; anche se effettivamente questo nome specificherebbe semplicemente i mitili provenienti dagli allevamenti situati in prossimità dello stretto (orientativamente caratterizzati da un sapore più deciso rispetto a quelli delle altre zone) il senso di questa definizione si è poi allargato facendo sì che con la parola cozzola si possano intendere vari tipi di mitili e con cozzola di Messina le cozze vere e proprie.
Muscoli:
In Liguria e nella Toscana costiera (provincia di Massa-Carrara e provincia di Lucca tra Marina di Carrara e Viareggio) il termine locale per indicare i mitili è muscoli. A la Spezia la tradizione dei coltivatori di mitili (detti, muscolai) risale alla fine del 1800. Da notare che i muscoli di Spezia sono citati da Fabrizio De André nell'album album Creuza de ma all'inizio della canzone Jamin-a. Il termine "muscolo" deriva dal latino musculus, dal quale hanno avuto origine anche i corrispondenti termini di numerose lingue europee. Alcuni esempi sono: il tedesco Muscheln, l'inglese mussels, il francese moules, il catalano musclos, l'olandese mosselen, il danese muslinger, lo svedese musslor.
Móscioli
Ad Ancona, alle pendici del promontorio del Conero, i mitili non vengono allevati, ma si pratica la raccolta di quelli selvatici, molto abbondanti sugli scogli. Il nome locale dei mitili è móscioli. Il mósciolo selvatico di Portonovo è un Presidio Slow Food e cresce tra la spiaggia del Passetto di Ancona e la spiaggia dei Sassi Neri di Sirolo; tali zone sono considerate un presidio di bio-sociodiversità dal Comune e dalla Provincia di Ancona. Il guscio del mósciolo è caratterizzato da uno spesso strato di concrezioni ed è tradizione degli anconetani raccoglierlo sul fondale "facendo i fiati", ovvero in apnea. Il sapore del mósciolo è più intenso di quello dei mitili d'allevamento.
Gli usi culinari della zona prevedono ricette in cui i móscioli sono preparati in vario modo, ma specie impanati e poi grigliati; in altre ricette essi sono utilizzati per la preparazione di sughi per la pasta; se utilizzati da soli si hanno le tipiche paste con i móscioli, bianche o con il pomodoro, se invece i móscioli sono associati ad altri frutti di mare si ha la pasta "alla marinara" (in bianco) o "alla pescatora" (con il pomodoro).
Peoci e Pedoli
In Veneto il mitilo viene chiamato peocio o pedocio, generando omonimia con il termine dialettale per pidocchio e anche con l'aggettivo gergale, presente anche nella variante peocìn, per definire una persona spilorcia, equivalente dell'italiano "pidocchioso". In lingua friulana si usa un termine corrispondente a quello veneto: "pedoli" (pidocchi).
Altre denominazioni:
Nel dialetto di Comacchio i mitili vengono chiamati "denti di vecchia".
A Livorno si chiamano "datteri".
Mitilicoltura
La mitilicoltura è un tipo particolare di acquacoltura; quella italiana, nonostante l'incremento della produzione degli ultimi decenni, non riesce a coprire il fabbisogno nazionale di mitili: nel 2006 l’importazione di questi molluschi in Italia è stata di circa 25700 tonnellate, di cui più della metà proveniente dalla Spagna.
In Italia si utilizzano tre diversi sistemi di allevamento:
il sistema fisso è il più antico ed è tipico delle aree lagunari o comunque molto riparate, non potendo resistere a condizioni di mare agitato;
il sistema "a monoventia" è stato introdotto a partire dagli anni novanta del Novecento e in breve tempo è diventato quello prevalente. È utilizzato in mare aperto in quanto ha un'alta resistenza, anche nei confronti di burrasche violente.
il sistema a "pluriventie" si è diffuso nei primi anni ottanta del Novecento, e viene utilizzato soprattutto nel Golfo di Trieste; è adatto a zone parzialmente riparate dalle condizioni meteomarine avverse.
Gli addetti alla mitilicoltura in Italia sono circa 1400.
Le zone in cui la mitilicoltura è di più antica tradizione sono il golfo di Taranto (cozza tarantina), il golfo della Spezia, la Laguna Veneta, il litorale Flegreo. Furono i pescatori tarantini che emigrarono nel 1800 ad esportare a La Spezia il modo di allevare i mitili.
Zone di mitilicultura più recenti sono il litorale Triestino (Friuli-Venezia Giulia), il golfo di Olbia (Sardegna), l’Emilia-Romagna, l’Abruzzo e il litorale adriatico della Puglia, specie nel territorio di Cagnano Varano, nel Gargano.
Nelle Marche la mitilicoltura è recente e di sviluppo limitato, in quanto in questa regione prevale la pesca subacquea in banchi di mitili selvatici, praticata nella zona di Ancona, Portonovo e in genere in tutto il Promontorio del Conero.

GAMBERO

Il nome volgare gambero identifica varie specie di crostacei acquatici appartenenti prevalentemente all'ordine dei Decapodi (Astacidea, Penaeoidea, Caridea ecc.) e marginalmente agli ordini degli Euphausiacea (krill), degli Stomatopoda (cannocchie), dei Mysida e degli Amphipoda.
Il termine generico "gambero" viene utilizzato per indicare sia le specie marine sia quelle d'acqua dolce (p.es. famiglia Astacidae).
Comunemente vengono chiamati gamberi o "gamberetti" i rappresentanti dei generi Alpheus, Crangon, Heteropenaeus, Palaemon, Parapenaeus, Penaeus e Periclimenes. Sono detti comunemente "gamberi rossi" le due specie marine Aristeus antennatus e Aristaeomorpha foliacea, raramente Aristaeopsis edwardsiana.
La normativa legale specifica quali sono i casi in cui si può usare in commercio la dizione "gambero" senza aggettivi (Solenocera membranacea), in quali si può usare la dizione "gambero" seguita da un aggettivo (p.es. gambero grigio, Crangon crangon, gambero rosso, Aristaeomorpha foliacea), in quali "gamberetto" (p.es. Palaemon elegans) o "gamberone" (p.es. Metapenaeus intermedius) e infine in quali è obbligatorio usare altri termini (p.es. Penaeus kerathurus = "mazzancolla" e non "gambero", anche se in Sicilia viene chiamata popolarmente "gambero barbuto" o "gambero imperiale").
I gamberi si distinguono a prima vista dai granchi, che sono pure crostacei decapodi, per il corpo allungato. Il corpo dei gamberi è suddiviso in tre parti: capo, torace e addome.
Il capo presenta l'antenna, l'antennula, due mascelle e una mandibola.
Nel torace sono presenti cinque appendici ambulacrali più tre paia di appendici modificate a massillipedi. Tre paia di questi, muniti di chele, sono utilizzati per il nutrimento. Infine nell'addome sono presenti sei paia di appendici che non hanno funzione ambulacrale, ma rappresentano invece appendici atte al movimento dell'acqua in avanti. In questo modo l'acqua viene spinta in avanti e fatta filtrare nelle branchie che si trovano su una parte delle appendici biramose del torace.
Conducono un'esistenza prevalentemente notturna.
Cacciano con l'ausilio delle appendici frontali (le chele) e individuano la preda grazie alle antenne che percepiscono le vibrazioni e forniscono un'identificazione della preda.
La femmina non può accoppiarsi prima della muta del carapace e generalmente tre volte l'anno.
La quantità di uova prodotte varia a seconda dell'età della femmina. Una volta fecondate le uova si trovano sospese sull'addome fino alla schiusa, che varia da qualche settimana a qualche mese in relazione alla temperatura dell'acqua. Commestibili, vengono vendute sia fresche (più costose) ma più in generale surgelate e scongelate (più economiche). Si possono preparare in varie ricette culinarie o secondo i gusti ma generalmente previa cottura in quanto questa facilità l'eliminazione della corazza esterna.

GRANSEOLA

La granseola (Maja squinado Herbst, 1788), è un crostaceo decapode della famiglia dei Majidae.
Carapace colore bruno-arancio, talvolta rosso-arancio, ricco di spine ai bordi di colore bruno. Zampe sottili e lunghe, adatte al movimento sul fondale sabbioso. Chele anteriori piccole, punta più chiara, al termine di braccia snodate, dello stesso spessore delle zampe.
Questo crostaceo vive sui substrati rocciosi marini. La sua essenziale arma di difesa è l'eccezionale mimetismo, che le consente di nascondersi perfettamente tra le alghe e le rocce colorate del fondale marino. A periodi costanti la granseola cambia il proprio carapace, attraverso una muta. Durante questo periodo l'animale è indifeso e vulnerabile a qualsiasi attacco. Perciò quando il vecchio carapace si rompe l'animale è coperto da un involucro molto tenero e, quindi, in breve tempo deve trovarsi un luogo sicuro ove rifugiarsi. Si nutre principalmente di alghe, bivalvi, larve di insetti, vermi e di piccoli pesci intrappolati nelle reti e in concave. Nei mari italiani questo granchio del peso di circa 500 g vive alla profondità di circa 100 m ma può raggiungere profondità di migliaia di metri soprattutto nei mari della Sardegna, ma è possibile incontrarlo anche a basse profondità nell'alto Adriatico. In genere è ricoperto da lattuga di mare per meglio mimetizzarsi nei fondali. Viene pescato con delle nasse.

MOLECHE
moleche
Le moleche sono prodotti agroalimentari tradizionali italiani. Col termine di moleche si indicano nella laguna veneta i granchi verdi in fase di muta, quando cioè, nello spazio di poche ore, nei mesi primaverili (aprile e maggio) e autunnali (ottobre a novembre), abbandonano il loro rivestimento (carapace) e si presentano tenere e molli, da cui il nome. Sono state presidio Slow Food. La produzione di moleche è unica in Italia e forse nel mondo. Le moleche vanno cotte vive. Esistono due ricette principali: la prima prevede un taglio sulla schiena in modo che l'acqua rimasta fuoriesca, quindi vengono impanate e fritte; l'altra le pone vive nell'uovo sbattuto e salato, fino a che queste deglutiscano in parte il composto, quindi sono passate nella farina bianca e fritte.

giovedì 9 gennaio 2025

Corso di cucina: 9 PULIRE E SFILETTARE IL PESCE

 


La cottura di un pesce presuppone una serie di fasi preliminari che vanno dall'eliminazione delle pinne alla sventratura, alla squamatura e così via. Queste operazioni, in genere, sono ritenute lunghe e laboriose, tuttavia è importante saperle fare e anche bene. Come prima operazione mettete il pesce su un tagliere e cominciate a eliminare le pinne. A questo proposito tenete presente che quelle dorsali sono profondamente piantate nella carne. Se toglierle vi riesce piuttosto difficile, niente paura, lasciate perdere: potrete eliminarle facilmente quando il pesce è già cotto. Poi procedete alla squamatura e infine alla sventratura del pesce, che può essere fatta attraverso l’apertura che è sotto le branchie se il pesce è grosso oppure con una incisione nel ventre se il pesce è piccolo o medio oppure se è piatto. Per tutte le operazioni di pulitura ci sono gli appositi utensili, per esempio gli spelucchini (coltellini a lama curva) e lo squamatore. Se non li avete, usate un normale coltello purché con lama ben affilata per non rovinare la carne delicata del pesce.

Come togliere le pinne al pesce
Usate un paio di forbici da cucina per togliere tutte le pinne (caudali, anali, dorsali, pettorali e ventrali). Asportate le dorsali partendo dalla coda verso la testa. Voltate il pesce e asportate la pinna anale, poi le ventrali e quelle pettorali. Accorciate leggermente la pinna caudale (cioè la coda), tagliandola diritta. Fate molta attenzione nel maneggiare certi pesci, come lo scorfano o il pesce ragno, perché le punture delle loro pinne sono dolorose. Meglio usare i guanti.

Come si fa a squamare il pesce
Questa operazione va fatta dalla coda verso la testa. Prendete un coltellino da cucina avendo l’avvertenza di usarlo dalla parte della costa e non della lama per non rischiare di tagliare la pelle.
Per renderla più facile questa operazione vi suggeriamo di usare l’apposito utensile con serbatoio nel quale si depositeranno le squame. Si acquista nei negozi di casalinghi a poco prezzo.

Eliminare e pulire le interiora del pesce
Per un pesce grosso, togliete i visceri attraverso l’opercolo che si trova sotto la testa. Sollevate l’opercolo introducetevi l’indice della mano destra piegato a uncino, in modo da afferrare gli intestini, tirandoli delicatamente. Controllate che, all’interno lungo la lisca, non siano rimasti dei residui sanguigni; in tal caso introducete il manico di un cucchiaino e toglieteli. Lavate il pesce sotto l’acqua corrente facendo entrare il getto attraverso l’opercolo. Per il pesce piatto potete procedere con un taglio ventrale oppure potete asportare gli intestini dall’opercolo come si fa con i pesci grossi.
Per i pesci piccoli procedete alla sventratura attraverso il ventre: fate una piccola incisione in corrispondenza dell’orifizio anale e procedete verso la testa per qualche cm. Infilate l’indice all’interno dell’incisione ed estraete gli intestini. Attraverso questa apertura potete eliminare anche l’eventuale pelle scura interna. Poi lavate la cavità sotto l’acqua corrente.



Fatta la pulizia del pesce, il pesce potrebbe essere pronto per andare in pentola o in padella, intero. Ma se invece vogliamo sfilettarlo? È possibile, con un’operazione delicata. Inoltre, questa fase della preparazione prevede anche la spellatura che va eseguita con molta attenzione. Infatti i filetti di pesce, dopo questi “trattamenti”, sono pronti per il consumo e si devono presentare con la carne perfettamente pulita e priva di pelle o di qualsiasi altra “scoria”. La sfilettatura si può fare con diversi sistemi. Per esempio, una sogliola richiede una serie di operazioni preliminari diverse da quelle necessarie per un nasello; infatti, la sogliola, come tutti i pesci piatti va trattata in modo differente da quelli tondi tenendo conto del fatto che, in certi casi, da un pesce tondo si possono ricavare due filetti e in certi altri invece un filetto solo. Ma vediamo nel dettaglio come fare.
Come sfilettare il pesce tondo
Per ricavare 2 filetti da un pesce tondo (noi abbiamo scelto un nasello di medie dimensioni) posate il pesce sul tagliere con la coda verso di voi e l’addome in basso. Con il coltello incidete in profondità il dorso lungo la lisca, partendo dalla testa.
Procedendo sempre nella stessa direzione, staccate il filetto dalla lisca, poi tagliatela con la forbice in prossimità della testa e della coda: si staccherà così il primo filetto. Voltate il pesce e staccate l’altro con le stesse operazioni.
Con una pinzetta asportate le eventuali spinette rimaste, poi, mettete il filetto con la pelle sul tagliere, penetrate tra questa e la polpa con il coltello e separatele.
Per ricavare un solo filetto, incidete il pesce dalle branchie alla coda, lungo il ventre, poi staccate la lisca dalla polpa, incidetela un cm sopra la coda e staccatela con la testa.

Come sfilettare il pesce piatto
Per sfilettare una sogliola occorre prima spellarla. Praticate un taglio sopra la coda e con la punta del coltello staccate un lembo di pelle; poi fate un altro taglio sotto la testa incidendo la pelle scura.
Prendete un canovaccio e con la mano destra afferrate il lembo di pelle e tiratelo verso la testa: dovrà staccarsi con facilità (tenete fermo il pesce con la sinistra); eviscerate il pesce, quindi staccate la pelle bianca con lo stesso sistema.
Mettete il pesce con la testa rivolta verso di voi e praticate una incisione lungo il bordo esterno, dalla coda fino alla testa. Quindi ruotate il pesce di 180° e incidete la polpa lungo la lisca e sotto la testa. Introducete il coltello di piatto tra la lisca centrale e la polpa del pesce e, manovrandolo lentamente, staccate tutto il filetto. Procedete allo stesso modo con il secondo filetto dalla stessa parte e poi con gli altri due filetti.

Abbiamo parlato qui di sfilettare il pesce; ma sapete quanti filetti hanno i vari pesci? Eccovi qualche esempio:
La sogliola, la passera, la platessa, la razza, il rombo, hanno 4 filetti.
Merluzzi, naselli, merlani, sardine, acciughe, orate, dentici, pagelli, triglie, hanno solo 2 filetti.
I pesci di grosse dimensioni, invece, non vanno sfilettati ma divisi in tranci. Ne sono gli esempi più classici il tonno, il pesce spada e tutti quei gustosi “giganti” del mare.