14500 g di biga
4000 g di farina tipo 0 (w 280)
9800 g d'acqua
140 g malto
140 g integratore
280 g sale
1000 g d'olio d'oliva (a scelta)
150 g lievito di birra
Unire il sale e di seguito un goccio d'acqua per facilitarne l'assorbimento, dopodiché fare girare l'impasto in seconda velocità aggiungendo lentamente il restante dell'acqua. Fare impastare bene.
Le tempistiche dell'impasto sono abbastanza lunghe, è preferibile utilizzare acqua fredda.
Lastra di ardesia è anche la tradizionale copertura dei tetti in Liguria dove le tegole vengono denominate ciappe: la stessa parola nel ponente ligure indica una sorta di schiacciatina, resa croccante e friabile dall'olio extravergine di oliva della Riviera.
Zona di produzione: Costa del ponente ligure, nel territorio del comune di Taggia
Ingredienti: farina, acqua, olio e sale.
Preparazione: la farina (di grano tenero) viene lavorata con acqua, olio e sale e stesa formando dei dischetti dello spessore di pochi millimetri e del diametro di 10/15 cm. Le ciappe vengono cotte al forno e si mantengono per 15/20 giorni.
Ciappe La zona di produzione è la Costa del ponente ligure, nel territorio del comune di Taggia. Prodotto a base di farina di grano. Si presentano sottili, dal colore dorato, croccanti e saporite in bocca. In dialetto ligure, ciappa significa pietra piatta sottile come la lastra di ardesia il cui 164 nome deriva da ardere: infatti grazie alle sue caratteristiche fu sicuramente uno dei primi metodi di cottura usate dall'uomo. Ancora oggi si utilizza questo strumento per cucinare la carne e il pesce senza l'aggiunta di grassi; noto è il tonno in sciä ciappa. Lastra di ardesia è anche la tradizionale copertura dei tetti in Liguria dove le tegole vengono denominate ciappe: la stessa parola nel ponente ligure indica una sorta di schiacciatina, resa croccante e friabile dall'olio extravergine di oliva della Riviera.
GRISSINO
Il grissino (ghërsin in piemontese) è uno dei più celebri e diffusi prodotti della gastronomia torinese, nonché uno dei più noti della cucina italiana all'estero. Tradizionalmente la sua nascita si fa risalire al 1679, quando il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico lanzese Teobaldo Pecchio, inventò questo alimento per poter nutrire il futuro re Vittorio Amedeo II, di salute cagionevole ed incapace di digerire la mollica del pane. Re Carlo Felice li prediligeva così tanto che, in palco, al Teatro Regio, ne sgranocchiava per passatempo. Il successo dei grissini fu particolarmente rapido, sia per la maggiore digeribilità rispetto al pane comune, sia per la possibilità di essere conservato anche per diverse settimane senza alcun deterioramento. Fra i grandi estimatori del grissino torinese, non si può non citare Napoleone Bonaparte, il quale creò, all'inizio del XIX secolo un servizio di corriera fra Torino e Parigi prevalentemente dedicato al trasporto di quelli ch'egli chiamava les petits bâtons de Turin. Del tutto identica a quella del pane normale, salvo che la forma lunga e stretta fa sì che la cottura sia più uniforme e quindi, causa la sottigliezza dell'impasto, il prodotto finale in pratica è come pane di sola crosta, cioè privo di mollica. Gli ingredienti sono: farina 00, acqua, lievito e sale. Recentemente sono state introdotte varianti nella composizione che vengono commercializzati come "grissini al...": latte al posto dell'acqua, aggiunta di olio di oliva, aggiunta di grasso animale (strutto in genere), aggiunta di aromatizzanti vari, fino a variarne la forma (più tozza). L'aggiunta di sostanze grasse rende il grissino più "morbido", ma ne limita la durata di conservazione. La forma di grissino più antica e tradizionale è indubbiamente il robatà, che in piemontese significa "caduto" (o anche "rotolato"), di lunghezza variabile dai 40 agli
La farina viene impastata con lievito di birra sciolto in acqua salata e lo strutto fuso. L'impasto, duro, viene lavorato a lungo lasciandolo fermentare per molte ore. Quando la lievitazione è completata si formano dei pezzi dalla forma oblunga di 30 cm. circa e dal peso di 2 etti e mezzo. Vengono incisi nel centro assumendo la forma di farfalla. Si cuoce nel forno caldo.
Le castagne furono talmente fondamentali per l'alimentazione e, spesso, sopravvivenza delle popolazioni dell'entroterra, da essere considerate il pane dei poveri. Oltre a questa esplicita metafora, va detto che un po' di farina di castagne veniva sempre unita a quella più preziosa e rara di grano per preparare il pane. Tale variante arricchiva di zuccheri il prodotto da forno e lo rendeva più sostanzioso e nutriente. Questo tipo di pane scuro, di tradizione domestica, dall'aroma delicatamente dolce che gli viene conferito dalla presenza della farina di castagne nella miscela di preparazione, prese il nome di Pan Martìn probabilmente dal giorno di San Martino, 11 novembre, quando era pronta la farina di castagna. Il Pan Martìn è ottimo consumato caldo insieme al latte, ai formaggi e ai salumi dell'entroterra. La zona di produzione è l’entroterra spezzino e genovese, in particolare, val di Vara, val Graveglia e valle Sturla Il luogo dove veniva posto tradizionalmente il testo era l'essiccatoio. La parte inferiore delle seccatoio, infatti, fungeva anche da cucina: dal solaio pendeva un gancio al quale si applicava la campana, che creava, calata sul testo con un meccanismo di contrappesi, un rustico forno.
Pane d'orzo biscottato, di consistenza dura e dal caratteristico colore dorato.
Ingredienti:
Lavorazione:
Questo tipo di pane è sinonimo di povertà: era infatti consumato soprattutto dalle famiglie meno abbienti che utilizzavano le patate in sostituzione di parte della farina di grano, economiche e sostanziose, la cui produzione risulta tutt'oggi notevole nelle valli del Casale e del Pignone in Comune di Pignone. Rappresenta un modo di mangiare povero legato strettamente alle condizioni socio-economiche di queste valli. I panini sono ottimi se serviti unitamente a saporiti insaccati.
1 Kg farina di grano,
2 Kg di patate di Pignone,
sale q.b.,
poco olio e lievito.
Con queste dosi si ottengono circa 3 Kg di pane.
Nel tondo della farina opportunamente lavorata mettere le patate bollite e passate, aggiungendo un pizzico di sale e poco olio. Dividere il composto ottenuto in piccoli pezzi, schiacciandoli leggermente con il palmo della mano. Lasciare lievitare per un ora circa in ambiente caldo. Intanto, portare il forno a 150°C di temperatura, quindi mettere i panini in una grande teglia unta con poco olio e infornare il pane. Qualora si disponga di un forno a legna non occorre la teglia. Il pane sarà pronto quando inizia ad acquisire la classica doratura. Si consiglia di consumare il pane entro due giorni.
Questo pane viene impastato usando la farina di segale, al posto di quella bianca, dato che la segala era maggiormente resistente ai climi freddi tipici dei paesi montani, ma anche all'aridità.
Nella cucina altoatesina esistono storicamente tre variazioni di pane nero:
il Vinschger Paarl: questo pane viene impastato usando farina di segale e grano; il panino viene ottenuto unendo due pani rotondi e piatti, da qui il nome “paarl”, ovvero coppia. Di questo pane si è riscoperta la ricetta, che era custodita dai frati benedettini dell'Abbazia di Monte Maria, sopra Burgusio nel comune di Malles.
il Schüttelbrot (letteralmente: pane scosso), la schiacciata tradizionale della val d'Isarco. Il nome del pane è dovuto al fatto che l'impasto a tre quarti della lievitazione viene battuto e appiattito utilizzando un’assicella di legno rotonda.
il Pusterer Breatl della val Pusteria, si ottiene impastando farina di segale e di grano.
Queste tipologie di pane sono nate come un pane per poveri, che veniva cotto soltanto due/tre volte l'anno e conservato al buio.
In Valtellina il pane di segale, pan de séghel è prodotto in tre varianti:
la ciambella del diametro di circa 15 cm e di 1,5 cm di altezza
la Brazzadéla ossia la ciambella fatta essiccare al sole infilzandola su pioli di legno.
la ciambella con aggiunta di anice.
Ingredienti: 1 chilo di farina di castagne, acqua, sale, olio extravergine d'oliva
Preparazione: ponete la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, e aggiungete acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Quindi procedete alla cottura versando la pastella in una teglia unta e ponendo in forno a 180° per circa un'ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.
Nella versione antica la panella si cuoceva su fuoco a legna in un testo in terracotta o ghisa. In questo modo era possibile arricchire la preparazione con foglie di castagno, usate per evitare che il composto si attaccasse come una sorta di antica carta-forno.
Le foglie di castagno si dovevano raccogliere a fine luglio direttamente dagli alberi oppure a settembre-ottobre prima che cadessero (la tradizione vuole che il giorno di San Lorenzo non si dovessero raccogliere foglie, in quanto non si sarebbe riusciti a conservarle). Queste foglie ordinate in fasci di spago erano poste ad essiccare al chiuso o all'aperto. Così conservate, a causa dei bordi troppo stropicciati, non sarebbero state adatte all'uso: si provvedeva quindi alla loro preparazione qualche giorno prima di usarle. Bagnate in acqua bollente, si lasciavano scolare (per evitare formazione di muffa) e si ponevano sotto peso in careghèira per circa mezza giornata. Rimaneva quindi solo da applicare l'arte della loro corretta disposizione sul tagliere, pena l'imperfetta riuscita del piatto, e ricoprirle con il composto steso.
Intanto il testo, generalmente posto nell'essiccatoio delle castagne, veniva fatto scaldare con fuoco di legna per circa 20-30 minuti. Si asportavano quindi le braci, e si faceva scivolare dal tagliere sul basamento l'alimento da cuocere, si chiudeva la campana (cioè la parte superiore del testo) e si lasciava per il tempo necessario alla cottura, senza mai aprire. Il coperchio o campana del testo, era movimentata attraverso un contrappeso, per permettere con minimo sforzo la regolazione della sua altezza.
1 chilo di farina di castagne,
Ponete la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, e aggiungete acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Quindi procedete alla cottura versando la pastella in una teglia unta e ponendo in forno a 180° per circa un'ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.
I panigacci hanno origini molto antiche, sono diffusi nella Lunigiana ed hanno i natali nel paese di Podenzana, dove è stato costituito un consorzio tra i ristoratori, per mantenere inalterato il sapore antico di questo semplice prodotto. In Liguria i testi di terracotta e mica, vengono fabbricati da tempo immemorabile ad Iscioli, nel comune di Ne, nell'entroterra di Chiavari e si possono trovare nei negozi e nei consorzi agrari del chiavarese. Nella seconda guerra mondiale, quando i tedeschi distrussero un ponte che collegava il comune di Podenzana con il resto della regione, gli abitanti del comune sopravvissero mangiando panigacci fatti con farina di ghiande e castagne. A Ponzanello (Comune di Fosdinovo) un piatto tipico sono le focaccette, una variante dei panigacci.
Sono fatti con acqua, farina e sale e si preparano mescolando gli ingredienti fino a ottenere una pastella fluida. Tale pastella viene quindi versata nei testi, precedentemente lasciati arroventare su di un fuoco vivace, tipicamente in un falò o in un forno a legna. Quando sono roventi al calor rosso, vengono estratti dal forno e fatti raffreddare un poco poi viene fatta una pila di testi, in modo tale che stando nel mezzo la pastella si cuocia sui due lati. Una volta "smontata" la pila i panigacci si servono in cestini di vimini e usati come companatico di salumi e formaggi cremosi. In Liguria i panigacci si chiamano testaieu e si servono durante le feste di paese autunnali, nell'entroterra del levante, con un sostanzioso strato di pesto alla genovese, con parmigiano grattugiato o dolci al miele e naturalmente un vino nuovo nostralino.
I panigacci cuociono in pochi minuti a temperature molto alte e non necessitano di lievitazione.
Diverse sono le correnti sull'origine della piadina e sulla sua forma e impasto originale. Fin dagli antichi Romani ci sono tracce di questa forma di "pane". La prima testimonianza scritta della piadina risale all'anno 1371. Nella Descriptio Romandiolae, il cardinal Legato Anglico de Grimoard, ne fissa per la prima volta la ricetta: "Si fa con farina di grano intrisa d'acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po' di strutto". I prodromi dell'odierna piada possono essere individuati anche in una focaccia a base di farina di ghianda ed altre farine povere in uso in tempi antichi nel territorio del Montefeltro.
L'etimologia è incerta; i più riconducono il termine piada (piê, pièda, pìda) al greco placus, focaccia. Originariamente, in effetti, è una schiacciata lievitata e ben condita cotta nel forno: come tale è citata nel 1371 nella Descriptio Romandiole. In seguito (dal Cinquecento all'Ottocento), mentre assume la forma attuale, altro non è che un surrogato del pane confezionato con ingredienti per lo più vili e impanificabili (spelta, fava, ghianda, crusca, sarmenti, mais, ecc.). La piadina di farina di grano è relativamente recente, così come le sue varianti ricche: la piadina unta, quella sfogliata e quella fritta. Un'altra ipotesi interessante consiste nel riscontrare la somiglianza con i termini utilizzati in altre lingue per indicare piatti simili, nell'ambito di tutti i paesi che ruotavano nell'orbita dell'Impero Romano d'Oriente (tra i quali anche la Romagna, ovviamente). Basti pensare all'ebraico pat, che significa "pagnotta" o "pezzetto", a "pita", che esiste ancora nell'aramaico del Talmud babilonese ed indica il pane in generale, o a "pide" in turco. È facile pensare, nel caso della piadina, al pane in uso presso l'esercito bizantino, di stanza per secoli in Romagna, nel nord delle Marche (fino a buona parte della provincia di Ancona), e nella valle umbra attraversata dalla via Flaminia.
Usi
Piadina farcita
Cassone o crescione
Oggi le farciture più comuni, con variazioni da luogo a luogo, sono: alle erbe, chiamato anche 'cassone verde', (può trattarsi di spinaci e/o bietole, e nel riminese anche 'rosole' (papaveri, macerate nel sale), con o senza ricotta e formaggio grattugiato; con una base di mozzarella e pomodoro abbinata o meno con salumi, e chiamato anche 'rosso'; con zucca e patate, spesso arricchite di salsiccia o pancetta.
Tortello alla lastra
Forme recenti
Diffusione
A seconda della zona di preparazione ci sono alcune differenze tra piadina e piadina, per quanto riguarda la forma e la consistenza. Nel ravennate e nel forlivese è spessa e soffice, mentre nel riminese e nel pesarese è più sottile e talvolta di diametro leggermente maggiore. La piadina pesarese, poi, chiamata anche crescia o crostolo nell'entroterra, è sfogliata e saporita.
Pur essendo tipica della Romagna è ormai conosciuta in tutta l'Italia ed all'estero.
Promozione e protezione
I marchi IGP richiesti sono: Piadina Terre di Romagna e Piada Romagnola di Rimini, differenziate fra loro principalmente per spessore e dimensioni.
Il marchio Piadina è registrato in più di 30 paesi da una ditta svizzera (Renzi AG) alla WIPO e non può essere prodotto o diffuso in questi paesi senza l'autorizzazione di questa.
Farina 500 g
Per realizzare la piadina setacciate la farina e il lievito nella tazza di una planetaria munita di foglia, aggiungete lo strutto (in alternativa sostituitelo con la stessa quantità di olio di semi), il miele e azionate la macchina a velocità media per 5 minuti. Poi fermate la planetaria, incorporate lo zucchero e versate il latte a filo e sostituite la foglia con il gancio e continuate ad impastare. Mentre la planetaria impasta aggiungete l’acqua poco alla volta e per ultimo unite il sale. Quando l’impasto sarà omogeneo e si staccherà dalle pareti della tazza, spegnete la planetaria e riponete il panetto ottenuto in una ciotola e copritelo con la pellicola trasparente. Lasciate lievitare l’impasto per un ora in un luogo tiepido come il forno spento con la luce accesa. Trascorso il tempo si riposo riprendete l’impasto e stendetelo con il mattarello su un piano di lavoro leggermente infarinato, dovete ottenere una sfoglia di 2 mm circa. Ritagliate le piadine con un coppapasta da 24 cm di diametro. I ritaglia avanzati si possono lasciare riposare qualche minuto e poi impastare nuovamente. Le piadine sono pronte per la cottura: scaldate una padella dal fondo basso e cuocete le piadine su entrambi i lato per 2 minuti. Durante la cottura bucherellate la piadina con una forchetta e, se si formeranno delle bolle in superficie, schiacciatele con un coltellino o i rebbi della forchetta. Una volta cotta, trasferite la piadina su un piatto di portata e farcitela con salumi e formaggi a vostro piacimento e poi gustatela ben calda.
Nella pasta, specie se nata per essere mangiata senza condimento, possono essere inserite olive nere intere per dare sapore, a volte uva passa. Se la pirilla contiene altri ingredienti, come pomodoro, pezzi di zucca, cipolla, ecc. può prendere localmente un nome più specifico (ad esempio cucuzzata).
Lo spessore e la pasta compatta permettono un comodo spacco per la farcitura. La farcitura più usata era il pomodoro fresco, spesso solo il seme e gli umori interni del pomodoro, olio e sale. Pure peperoni fritti, a volte pure accompagnati da pomodoro fresco. Vanno molto bene le farciture che bagnano la pasta e l’ammorbidiscono un po', come i sughetti di pomodoro, cipolla e peperoni ma pure i pezzetti di carne di cavallo. Una variante sfiziosa della farcitura sono i peperoni fritti con fette di mortadella.
Presenta vari sinonimi nel Salento. I più usati sono pirilla (Ortelle, Castro), pitilla (Specchia Gallone, Poggiardo, San Cesario di Lecce), 'mpilla (Sannicola), pilla (Cursi, Cutrofiano, Melpignano, Otranto), simeddhra (Tricase, Depressa).
La pastina era preparata coi resti degli impasti recuperati dai lavaggi dei contenitori. Nella panificazione tradizionale era prodotta in pochi pezzi e generalmente destinata al consumo degli stessi panificatori occupati per diverse ore nelle operazioni di impasto e cottura. A volte era prodotta appositamente con impasti ad hoc per il consumo casalingo e per distribuzione tra parenti e amici. Non era destinata alla vendita. Con la riscoperta delle antiche tradizioni alcuni forni industriali la producono e la vendono.
Nella tradizione salentina, comune ad altre tradizioni contadine, si procedeva con cadenza regolare alla panificazione, spesso in capientissimi forni a legna pubblici. Gli intervalli di panificazione potevano essere variabili, da cadenze bisettimanali fino a periodi di oltre tre mesi, per cui il quantitativo di farina di una o più famiglie associate, poteva costituirsi anche da un impasto di 100-200 kg. Nella panificazione una quota limitata (20%) si costituiva da pezzi pane morbido da consumarsi nei primissimi giorni in genere da tagliarsi a fette. Moltissime risultano le varianti del pane fresco spesso associate alla presenza nell'impasto di olive nere, zucca, cipolla, ecc.. o a particolari lavorazioni (taralli, pirille, ecc..) per il consumo diretto senza particolari condimenti aggiunti. La quota maggiore dell'impasto di panificazione veniva riservato, in genere, alla produzione di friselle, un biscotto di più lunga conservazione rispetto al pane fresco garantendo intervalli di panificazione maggiori.
Al termine della infornatura, i recipienti e le madie sporche dell'impasto lievitato venivano sciacquate con pochissima acqua e la pastina ottenuta calata direttamente sul piano arroventato del forno. Si cuoceva molto in fretta e veniva consumata nel forno stesso per una colazione di ristoro tra gli addetti.
La pirilla, pertanto, rappresenta più che un tipo di pane, una testimonianza del mondo agricolo arcaico ormai scomparso e molti comuni nel leccese la omaggiano con feste e sagre. La più importante e consolidata è la Festa della Pirilla nel Comune di Ortelle che nell'estate del 2009 si è svolta per la ventinovesima volta, essendo tra l'altro una delle più antiche sagre gastronomiche in assoluto nella Provincia di Lecce. All'evento è accordato il patrocinio da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri - Ministero per i Rapporti con le Regioni, del Presidente della Regione Puglia e del Comune stesso.
La pitta è un tipico prodotto di panetteria calabrese. La pitta generalmente è una specialità da forno (tipo una focaccia) preparata con l'impasto per il pane che accompagna tradizionalmente il Morzeddhu alla catanzarisi.
farina 0 (1000gr)
lievito di birra fresco (25 gr) o una bustina di quello secco
1 cucchiaio raso di sale fino
strutto(60 gr)
1 cucchiaino di malto (facoltativo)
acqua (575 ml).
In Calabria assieme al pane "normale" per la famiglia, si faceva spesso anche una pitta chjina (pitta ripiena, dove pitta è un nome generale per una forma di pane). Tale prodotto ha l'aspetto di una pizza chiusa, ovvero formata da due strati di pasta con il ripieno al loro interno.
I funzionari dell'Impero Austro-Ungarico, cui faceva capo la Lombardia dopo il trattato di Utrecht del 1713, portarono con sé a Milano alcune novità alimentari (che i Milanesi fecero proprie fino al punto di farle diventare un prodotto della loro tradizione alimentare), come l'allora famoso Kaisersemmel, un panino variabile da 50 a 90 grammi e dalla forma di una piccola rosa.
I risultati non furono, però, incoraggianti: il Kaisersemmel a Milano non rimaneva, come a Vienna, fresco e fragrante fino a sera: si rammolliva velocemente, divenendo "gommoso". L’umidità del clima lombardo penetrava eccessivamente in un prodotto igroscopico come il pane, a differenza di quanto accadeva nel più asciutto clima viennese.
Bisognava privare quel pane della mollica, svuotarlo, alleggerirlo, renderlo "soffiato": così sarebbe stato fragrante e digeribile, garantendone una migliore conservazione. I maestri panificatori milanesi riuscirono nel loro intento, creando un pane unico le cui caratteristiche l’hanno reso famoso.
Il termine michetta nasce in questo periodo. Infatti i Milanesi chiamarono il Kaisersemmel con il diminutivo di “micca”, ossia “michetta”, micchetta in milanese. La "micca", o "mica", era un pane che aveva una certa diffusione nell’Italia del nord e il cui termine, in origine, significava briciola.
Nel 2007 la michetta ottiene, dal Comune di Milano, il riconoscimento “De.Co.”(Denominazione Comunale), assegnato dal capoluogo lombardo ai prodotti gastronomici tradizionali milanesi.
La preparazione della "biga", ovvero la pasta lievitata e fermentata, avviene mescolando ed impastando farina di forza (100%), acqua (35%) con malto (0,1%) e lievito (1%) fino ad ottenere un impasto piuttosto sostenuto dalla texture perfettamente omogenea, viene quindi lasciato riposare per almeno 16 ore (tempo che varia in funzione della temperatura ambientale). La preparazione dei pastoni (forme di pasta arrotondate) avviene impastando la biga con farina di forza (20% della dose iniziale) acqua (quanto basta per ottenere un impasto asciutto e morbido) e sale (0,5% del peso totale).
Questo impasto deve avere una buona elasticità ed una texture perfetta (impastare almeno 30 min con la macchina al minimo), viene quindi passato al cilindro (macchina che ha la funzione di raffinare ulteriormente la pasta) e poi suddiviso in pezzi di circa 3kg che adeguatamente arrotondati vengono "puntati" cioè lasciati a lievitare per circa 30 min. In seguito alla lievitazione dei pastoni avviene la "spezzatura della pasta" con apposite macchine automatiche o manuali, che dividono il pastone in 37 pezzi esagonali nella forma e di ugual peso, a questo segue immediatamente l'operazione di stampa mediante macchina stampatrice o stampo a mano; vengono messe le michette su appositi telai per infornare, coperte con tela o fogli di plastica per conservarne l'umidità e lasciate lievitare per altri 30 min.
Le Michette vengono infornate tra i 220° ed i 250° a discrezione del fornaio, viene immesso abbondante vapore acqueo all'interno della camera di cottura. La cottura richiede circa 25 minuti. nei primi minuti di cottura la superficie gelatinizza a causa del rilascio di amilopectina dai granuli di amido presenti nella farina che si rompono per effetto del calore aumentando così la viscosità dell'impasto che imbastisce una trama reticolare formata dalle glutanine aumentandone l'elasticità, il lievito per effetto del calore sviluppa anidride carbonica ed etanolo che gonfiano il prodotto creando un cavo all'interno del pane che dona alla Michetta la caratteristica soffiatura.
Esistono altri pani che seguono gli ingredienti ed il processo di lavorazione della michetta, come il “maggiolino” e la “tartaruga”.
Il nome deriva dal nome del pane detto tira, di forma arrotolata che prima della cottura viene leggermente tirato.
Il tirotto è un pane speciale e ne esistono diverse tipologie: tirotto comune, senza grassi aggiunti; tirotto all'olio, con aggiunta di olio; tirotto di patate, arricchito di olio e patate.
Prodotto a base di farina di grano e patate, dalla forma tirata e arrotolata leggermente, può essere condito (pane speciale) e non.
farina,
acqua,
sale,
lievito,
olio e patate.
Unire la farina con l'acqua il sale e il lievito e formare delle pagnotte di forma allungata. Dopo la lievitazione, usare le dita per formare i caratteristici buchi sulla superficie, che deve essere oliata e salata. Dopo un ulteriore periodo di lievitazione, si possono infornare.
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