martedì 6 maggio 2025

CENA PIEMONTESE


piemontese
LA CUCINA PIEMONTESE
Terra di contaminazioni il Pedemontium, ai piedi del monte, ricca di risorse idriche (dal Lago Maggiore al Ticino, dal Lago d’Orta al Tanaro), di dolci zone collinari (dalle Langhe al Monferrato), della pianura padana, che inizia proprio qui; poi foreste e risaie, noccioleti e vigne. Tutto contribuisce ad una cultura enogastronomica che rappresenta un valore, una tradizione, una risorsa. In tanta ricchezza, si spazia dalla bagna càuda ai tajarin, dalla polenta ai gianduiotti, dal brasato al bonèt, dal castelmagno allo spumante, dal tomino ai grissini, dalle nocciole al Barolo.
Il tipico inizio di pasto sulle tavole piemontesi comincia dalle verdure, in genere cardi e peperoni, intinti nella “salsa calda” (che si prepara nel fojòt, il fornelletto di terracotta), fatta d’acciuga in poltiglia, aglio tritato riposato nel latte, olio e burro scaldati in tegame.
Nel rigido inverno sul fornelletto c’è la fonduta, fontina piemontese sciolta insieme a latte, burro e tuorli d’uova freschissime, in cui si intingono patate e tartufi, quelli celebri bianchi d’Alba, ottimi pure con uova fritte al tegamino. Le frittate, la “rognosa” e quella all’erba di San Pietro arricchita col ciauscolo, morbido salame spalmabile, aprono la strada agli agnolotti in brodo, pasta all’uovo ripiena d’arrosto di manzo. Dalle risaie di arborio giunge la paniscia novarese, con fagioli, vin rosso, lardo, salame de’ la duja (fatto riposare in morbido strato di strutto).
Ma il Piemonte è il regno della carne. Bovini, suini, cacciagione, pollame. Il bollito misto alla piemontese è un trionfo di carni di manzo e vitello, polli ruspanti e salse, dal celebre bagnetto verde (bagnet verd, una salsa a base di prezzemolo, aglio, aceto, pane e acciughe) a quello rosso, dalla salsa rubra, alla cugnà, alle mostarde. Il fritto misto è composto da animelle, cervella, fegato, rognoni, mentre la finanziera, ricetta antichissima di origine medievale, sfrutta animelle, fegatini, rognoncini di pollo, insieme a parti di manzo e vitello, cotte in casseruola.
Tra i contorni spicca il caponet (involtini di cavolo ripieni di carne arrosto e salame di fegato d’Orta cotto, mollica e formaggio).
Non può mancare le plateau de fromage, probabilmente il più ricco d’Italia: castelmagno, robiola di Roccaverano, toma, tomino, caprino, murazzano, bettelmatt, bra, montebore, bross, frachet, reblochon. Il pasto finisce in bellezza coi dolci. Di biscotti tipici ve ne sono a bizzeffe: canestrelli, baci di dama, crumiri, cuneesi, brutti ma buoni, novaresi, bicciolani vercellesi, lacabòn alessandrini, paste di meliga. I dolci al cucchiaio, panna cotta, zabaione e bonet, si alternano con le rustiche frittelle di mele e le torte al gianduia ed alle nocciole. La lingua sfarina sul palato un marron glacé prima di sciogliersi nel dolce abbraccio del bicerin di Cavour, con caffè, cioccolato e crema di latte (in proporzioni e temperature segretissime), tanto amato da Alexandre Dumas, Pablo Picasso, Ernest Hemingway, Umberto Eco. 
Che dire dei vini? Il Piemonte è una delle regioni d’Italia più felici; rossi di eccelsa personalità, come i Barbaresco, i Barbera, i Barolo, i Dolcetto, i Gattinara, i Grignolino, i Nebbiolo; bianchi dalle caratteristiche più varie, come il Cortese, l’Erbaluce, il dolce Moscato, lo specialissimo Vermouth e , naturalmente, lo spumante, freddissimo per un cin cin all’estate.


5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/

Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini.
Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).


 

lunedì 5 maggio 2025

CENA VENETA

LA CUCINA VENETA
Terra di transizione il Veneto presenta una varietà di ricette dettate dal suo territorio, che presenta cime alte, Marmolada nelle Dolomiti, grandi fiumi, Adige, Piave e delta del Po e il lago di Garda, si appoggia alla pianura veneta, non si fa mancare i colli, Euganei e Berici.
Tantissimi i prodotti della terra veneti tipici ormai celebri: il radicchio trevigiano e l’asparago bianco, l’olio evo del Garda ed il riso vialone nano.
I pasti sono allietati da magnifici vini, il Veneto è la prima regione d’Italia per gli hl prodotti. Trionfo dei grandi bianchi: il Bianco dei Colli Berici e dei Colli Euganei, il Bianco di Custoza, il Pinot, il Recioto di Soave e il Soave, il Riesling, il Verdiso, il Prosecco dei Colli di Conegliano e di Valdobbiadene. Tra i rossi altre eccellenze: BardolinoCabernetMerlotPinotRaboso freddo del Piave (vendemmiato tardi come il Nebbiolo)Recioto Amarone di Valpolicella e classico di Valpolicella.
Tra i salumi spicca il gentile prosciutto Berico-Euganeo, dolce e profumato, (prosciutto dal latino "perexuctus", cioè prosciugato, in riferimento alla sua tecnica di lavorazione), la soppressa, il salame morbido pastin bellunese, i salami di capra e all’aglio.
I formaggi vanno serviti colla mostarda vicentina, gli schisoti, schiacciatine al rosmarino e i salati zirotti: l’asiago, il morlacco, il bastardo, lo schiz. Lpuina e la fioreta, ricotte locali a diversa consistenza, le si gusta in purezza o cucinate in più corpose ricette.
Tra le zuppe quella trevigiana, il cosiddetto sguazeto a la bechèra (i becheri erano i macellai)con la trippa e frattaglie varie di manzo, è la mia preferita; ma il piatto più noto della regione è il risi e bisi, ovvero riso e piselli, con pancetta, formaggio, cipolla, o con altre classiche verdure come i carciofi o il radicchio trevigiano. Il riso in brodo si sposa anche con luganeghe, cavoli, rape, broccoli, fagioli, cipolla e acciughe, come nella minestra alla cappuccina. Il riso sta nelle infinite rivisitazioni di mare con i peoci (le cozze), o alla chioggiotta con le seppie. L’abbinamento con la carne, trionfa nel riso in cavroman, con carne di castrato, quinto quarto, trippe, fegatelli e secole (midollo). Il pane raffermo è alla base della panada, minestra che contiene anche brodo, uova e formaggio grattugiato.
Deliziosi sono poi i broeti, zuppette di mille tipi con anguille, lumache, rane, e tante varietà di pescato Nord Adriatico.
tortellini di Valeggio sul Mincio, nei loro tanto colori, trionfano tra le paste ripiene, ma sono più noti i bigoli, la varietà locale di pasta fatta a mano (di farina di grano, acqua, sale e a volte uova), ruvida, lunga e con una sezione rotonda larga. Possono essere accompagnati da ragù di carne, di pollame (anatra e oca soprattutto), dalle sarde, da salse come quella di noci.
La versione più celebre della polenta è la pastizzada, accompagnata da sugo e stufato di carne che, nella versione veronese, è di cavallo. Ma che dire della gustosa, anche se ben poco animalista, polenta e osei?
Grandi secondi piatti. Il fegato alla veneziana, condito con sale e pepe e cotto insieme alle cipolle. Le famose galline padovane ripiene sono protagoniste di sontuose ricette accompagnate da salsa al cren (a base di rafano) o peverada, una salsa in brodo e midollo di manzo, burro, pane e molto pepe.
Le sarde in saor, passate in farina e fritte, vanno adagiate a riposare su lettucci di cipolle a strati, affettate, fritte in olio a fiamma bassa, con sale, pepe, zucchero, aceto, uvetta ammollata e pinoli.
Il baccalà mantecato alla vicentina si può spalmare su crostini tiepidi, giusto per bergli insieme un’ombra o l’ormai internazionale spritz.
Quando è stagione nessuna frutta è più buona delle ciliegie di Marostica, di cui confesso la mia dipendenza: una tira l’altra.
Il celebre pandoro, apre il carrello dei dolci. In esso troviamo, a seconda delle festività, la fugassa pasquale, i baicoli, biscotti della salute veneziani, le fritole, il carfogn bellunese, la crema fritta. Ma la pazientina farcita di Padova è il mio dolce veneto più amato.
Si chiude con le grandi grappe del Piave, di Breganze, di Soave, di Valpolicella o un amaro curioso, come quello di radicchio.

5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.


BRANCALEONE FOX TERRIER

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini.
Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine). 

domenica 4 maggio 2025

CENA LOMBARDA

cucina lombarda
LA CUCINA LOMBARDA
La Lombardia, come è un trionfo di variabilità nei suoi paesaggi (Alpi, Prealpi, Pianura Padana, Po, Laghi di Garda, di Como, Maggiore), così deve ricchezza e fama alla variabilità dei suoi prodotti (Grana Padano, Gorgonzola, Bresaola, Salame Milano) e delle sue ricette (Risotto, Cotoletta, Panettone). Il pasto lombardo può iniziare dalla fitascetta, torta salata realizzata con pasta di pane e cipolle. La si può accompagnare salumi e formaggi. La bresaola della Valtellina, a base di carne di manzo, la berna del Tonale, con carne ovina, il violino della Val Chiavenna, a base di cosciotto di capra, il cuz della Val Camonica, spezzatino specialissimo di pecora cortonese. Oppure col bagoss allo zafferano di Bagolino o col branzi della Val Brembana nelle Oropie.
Ampia scelta di scelta di zuppe e minestre, coi tagli di quinto quarto in bella mostra. Il riso ben si abbina alle rape, ai piselli, ai luppoli, ai fegatini di pollo ed alla  coratella; l’orzo, è protagonista nell’urgiada coi borlotti. Delicatissima è la zuppa pavese, con pan dorato nel burro, brodo, uova e grana; robusta è la busecca, colle trippe, e tosta, fin dal nome, la cassoeula (la casseruola) trionfo di carne suina e verze.
Tra le pasta fatta in casa non vi è che l’imbarazzo della scelta: le verdi bardele coi marai, tagliatelle con la borragine (marai); i casonsei, pasta all’uovo ripiena con carne e grana; i marubini al pane raffermo e midollo; i mantovani turtel sgrasaròt colmi di castagne, guazzarotti nella pearada, fatta di vin cotto e pepe.
Quando il clima si fa rigido val la pena scottarsi il palato colla polentafritta alla lodigiana, con la semuta, sorta di cacio comasco, o taragna, con grano saraceno e formaggio, al tocch uncia.
Per le seratine raffinate è di prammatica il risotto, alla milanese, giallo grazie allo zafferano, alla valtellinesein cagnone alla biellese, con luganega, con formaggio e pere, col pesce persico o le tinche.
Per i carnivori si va giù coll’arcinota cotoletta alla milanese o l’intrigante oss bus, l’osso buco da stinco di vitello, preparato in gremolada. Ma un assaggino merita il bruscitt, briciole di carne di vari tagli, cotta nel burro con pancetta, erbe e vino rosso, e la rustisciada, con carne di maiale.
A fine pasto, nelle feste, panettone torrone a Natale, chiacchiere a Carnevale, colomba a Pasqua, pan de mej, pan di miglio per San Giorgio, fave dei morti, per Halloween; ma per ogni giorno, gran banchetto di torta sbrisolona e bussolano di Mantova, crema lodigianamostaccini di Cremamiascia comascaamaretti di Saronnotorta Paradiso pavese.
Nei calici gran bere coi vini dell’Oltrepò pavese, della Franciacorta, del Garda e della Valtellina.

5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER
“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini. Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).

sabato 3 maggio 2025

CENA TOSCANA

LA CUCINA TOSCANA
La Toscana è il cuore dell’Italia, per la maggior parte collinare, affacciata sul mar Tirreno, con un clima variegato, monti, boschi, pianura, fiumi. Nella sua cucina c’è il meglio di quella italiana, la forza, il gusto, il legame col territorio e la tradizione. I suoi piatti tipici sono ormai noti a livello internazionale, a partire dal 1547, quando Caterina Maria Romula di Lorenzo de' Medici andò sposa di Enrico II di Francia, portando al seguito cuochi e ricette per insegnarli agli ancora rozzi francesi. Ci sediamo ad un ideale convivio toscano tra battute e ricette sagaci. La nostra tavola già ospita le paste fritte, la ficattola e gli sgabei. Servono per apprezzare meglio i grandi salumi: la finocchiona, il prosciutto di Cinta Senese e il lardo di Colonnata. Il celebre pane sciapo bagnato con acqua, è servito per preparare la panzanella, condito con olio extravergine d’oliva, pomodoro, sale, aceto, cipolla, acciughe, basilico.
Gran festa all’arrivo della zuppa più classica, la ribollita, a base di varie verdure di stagione, e gli immancabili fagioli e cavoli neri. Per chi ama il pescato, buttiamo lì con nonchalance un gran cacciucco alla livornese. A seguire le paste all’uovo: i pici, con pochissime uova, semplicissimi, cacio e pepe; altrimenti le pappardelle dove colle uova si esagera, accompagnate dal ricco ragù d’anatra. Per i secondi le strade si dividono più nettamente. Quella della terra passa per le carni bovine di razza chianina e maremmana, con la sontuosa bistecca alla fiorentina da un chilo minimo; quella dell’acqua profuma d’anguilla, protagonista dello scaveccio grossetano. Ma nessuno può saltare il quinto quarto (gli scarti della bestia, una volta tolti i quattro quarti nobili, non vanno certo gettati alle ortiche): dal muso del vitello si prepara la cioncia, da uno dei quattro stomaci bovini, l'abomaso, si cucina il lampredotto, e che dire del cervello alla fiorentina con fagioli al fiasco o all’uccellettoLe plateau de dessert non piange certo. Biscottini deliziosi come i Brigidini di Lamporecchio Pistoiese, i cantuccini di Prato, i ricciarelli di Siena, e poi corposi dolci come il buccellato di Lucca, il berlingozzo dell’alta valle tiberina, il panforte di Siena, la schiacciata fiorentina, il lattaiolo, un dolce da forno fatto con latte, uova, farina, cannella, scorza di limone, strutto e zucchero seguendo l’antica ricetta dell’Artusi, che lasciò la natia Forlimpopoli (spaventato dal Passator Cortese che gli derubò la casa) ed elesse la Toscana a sua seconda patria. E qui sperimentò tutto il meglio della cucina italiana con la fida domestica Marietta. La lista dei vini non lascia davvero a desiderare. Tra i bianchi, spiccano il Cortona, la Vernaccia di San Gimignano, il Moscadello di Montalcino e il celeberrimo Vin Santo. Tra i rossi, il famosissimo Chianti Classico (il vino in assoluto più bevuto in Italia), il Morellino di Scansano, il Nobile di Montepulciano ed i pregiatissimi Brunello di Montalcino e Bolgheri Sassicaia (ma questi ultimi solo per chi se li può permettere). Insomma un pranzo da far paura. E comunque, se vi foste spaventati, niente di meglio di due cucchiai di Alchermes, risolutivo da sempre contro i "vermi da spavento". Ma mi raccomando, proprio quello preparato a Firenze dai frati di Santa Maria Novella.

5 SETTE ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini.
Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).

venerdì 2 maggio 2025

CENA CAMPANA

Quando nel mondo si parla di cucina italiana, nell’immaginario gastronomico mondiale si pensa alla cucina della Campania, alla sua pizza ed ai “suoi” spaghetti. La regione conta ben 330 prodotti agroalimentari tradizionali.
Sulla tavola spicca il pane cafone o dei Camaldoli, accanto a pizze ripiene di scarola e casatiello, rustico pasquale di pasta di pane, formaggio, salame, strutto, uova. Accanto fanno mostra di sé sontuosi taglieri di formaggi e di salumi. Mozzarelle di bufala di Battipaglia, burrielli e burrini, cacio forte, pecorini e provole, ricotte e scamorze. Capicollo e salsiccia col peperoncino detta pezzent, sanguinacci e soppressate, salame di Mugnano, salame nero del casertano e salamine, salsicce fresche di bufala e tarantiello, un salame a base di ventresca di tonno.
Aprono gli antipasti: crocché di patate, isciurilli coi fiori di zucca, scagliozzi di polenta, pastecresciute, mozzarelle in carrozza (fette di pane ripiene di mozzarella e alici, passate in farina, nell’uovo e poi fritte), uova fritte alla napoletana con spaghetti fritti e mozzarella, frittate di cipolle e di maccheroni.
E vai con i primi. Spaghetti, maccheroni, vermicelli, paccheri, ziti: la pasta in Campania non manca, con una particolare attenzione per quella lunga con condimenti di carne e di pesce: ragù alla napoletana, puttanesca (con pomodoro, olive di Gaeta e capperi), marinara coi sughi alle alici, alle cozze ed alle vongole. La classica pasta e patate va insaporita con pomodori e grasso di maiale; per palati tosti c’è il timpano di scamorza, per non dire degli gnocchi alla sorrentina, cotti nel pignatiello di coccio. Tra le preparazioni col riso spicca il sartù, un timballo ripieno con carne di maiale, pollo, polpettine, piselli, provola. Tra i capolavori ecco la “minestra maritata”, il cui nome deriva dall’unione fra carne e verdure, poiché prevede gallina, manzo, salame, prosciutto, guanciale, cotenne, e poi cavolo, cicoria, scarola, pintarelle, cipolle, carote e sedano per il soffritto.
Il capitolo pesce va aperto citando l’impepata di cozze, che vede protagoniste cozze, olio evo, aglio, prezzemolo e, ovviamente, pepe. Alici in tutte le fogge, impanate e fritte, “araganate” in forno, marinate; cefali e orate, cicenielli e sarde alla napoletana, da cuocere alla marinara o all’acqua pazza; frittura di paranza, di crostacei sauté o gratin, e soprattutto polpi, come quelli “alla Luciana”, con pomodoro, aglio, prezzemolo e peperoncino.
Per la carne si spazia dalle braciole ripiene, alle bistecchine alla pizzaiola, ma impagabile è il coniglio all’ischitana. A fare da contorno c’è l’insalata di rinforzo, in cui domina il cavolfiore.
Un cesto di frutta fa cornucopia: arance di Sorrento, mele renetta e annurca, pere sorba e spadona, ciliegie di Siano, fichi, castagne, marroni, nocciole e noci di Sorrento.
I dessert chiudono in bellezza. Babà al rum, sfogliatelle, torta caprese, pastiera, di pasta frolla con ricotta, grano bollito, canditi, uova.
Annaffiamo tutto coi celebri Docg Aglianico del Taburno, Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi; o i Doc Falanghina del Sannio e Falerno del Massico. Brindisi finale col limoncello, anzi limoncella.
UNA COVIGLIA PER MATILDE
Di ritorno da un “meritato” viaggio a Napoli mi sento ancora partenopeo nello spirito, anche se ne sono ormai lontano. Ed è anche per consolarmi che condivido con voi il ricordo di un sapore che mi ritorna in mente dopo questo viaggio: quello della coviglia napoletana.
Tornato a casa, corrotto da una formazione classica solo stemperata da un laurea in ingegneria, mi sono subito messo a cercare documentazione… e l’ho trovata. Sentite.
Antonio Latini nel suo Lo scalco alla moderna (1694) riporta la prima ricetta italiana di sorbetto: Sorbetta alla cioccolata scomiglia” (cioccolata schiumata) da cui deriverebbe la coviglia napoletana di cui era grande appassionata Matilde Serao che la descriveva nel suo libro Paese di Cuccagna del 1891.
È nel 1700, quando il gusto delle dame di «buon garbo» sensibili e disappetenti esige diete leggere e carezzevoli, voluttuose, morbide e dolci, che due oggetti di lusso, di delicatezza e di gusto in Italia portano il vanto in tutta Europa: liqueurs d’Italie e glaces à l’italienne vogliono gli stranieri. La città di Napoli è rinomata per i gelati e per i sorbetti. La coviglia è il sapore del mio gelato da bambina. Mia madre lo comprava in una pasticceria di Mergellina, e appena a casa veniva conservato con sacro rispetto nel freezer. Erano bicchierini bianchi o di metallo, ciascuno di un colore diverso. Ma il sapore della coviglia, quello non lo dimenticherò più. A metà strada tra un gelato e un pasticcino. Unico. Appartiene alla stessa famiglia dello spumone e dello zuccotto. Si fanno di tantissimi gusti, ma la classica è al cioccolato o al caffè. Spumoni, metà crema e metà gelato, di tutte le mescolanze, … adorazione delle donne e dei ragazzi… entusiaste erano le signore che vedevano apparire gli spumoni, dai colori seducenti nella loro tenerezza, dal candido fiocco di spuma nel mezzo, e davano un gridolino di commozione e tendevano le mani, involontariamente…
Mentre vi do la ricetta della coviglia al caffè, concludo frammischiandola con alcune informazioni su questa eccezionale donna e giornalista.
Montate 2 tuorli con 75 g di zucchero.
Matilde Serao, nata a Patrasso nel 1856 e morta a Napoli nel 1927, fu  la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Mattino e quindi Il Giorno. Cominciò sul Giornale di Napoli con lo pseudonimo di Tuffolina. Poi a Roma sul Capitan Fracassa sotto lo pseudonimo di Ciquita.
Unite 20 g di farina, diluite con 2,5 dl di latte caldo e cuocete, finché si addenserà.
Si sposò con Edoardo Scarfoglio e sul quotidiano La Tribuna apparve la cronaca della giornata scritta da Gabriele D'Annunzio sotto il titolo Nuptialia. Ebbero quattro figli, tutti maschi: Antonio, Carlo e Paolo (gemelli) e Michele. Insieme con lui Matilde realizzò il suo progetto e fondarono il Corriere di Roma.
Versate 2 caffè ristretti, fate raffreddare e unite 2 dl di panna montata.
Ritornata a Napoli scrisse sul Corriere del Mattino chiamando a collaborare firme prestigiose come Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio. Quindi fondò Il Mattino e firmò i suoi articoli con lo pseudonimo di Gibus (cappello a cilindro che si chiude a scatto).
Suddividete la crema in 6 coppette e mettetele in freezer per 6 ore.
La sua rubrica, Api, mosconi e vespe, durò per 41 anni ed ebbe grande successo tanto che le valse l’appellativo di “Signora Mosconi”.

Servite con panna montata e cioccolato grattugiato.
TORTE CAPRESI E GANGSTER
Oggi si va a Capri. Guardatevi pure tutti i faraglioni che volete, riconoscete tutte le celebrità che oziano in piazzetta, ma poi gustatevi la torta caprese, il dolce napoletano, specifico dell'Isola di Capri, ma diffuso anche in Costiera Amalfitana e nella Penisola Sorrentina.
È a base di cioccolato fondente e mandorle, fuori croccante e dal cuore umido e morbidissimo.
Come tanti altri dolci tipici della tradizione italiana, ha un’origine curiosa.
Un secolo fa, nel 1920, in un laboratorio artigianale dell’Isola di Capri, un pasticcere di nome Carmine di Fiore creò, involontariamente, il golosissimo capolavoro dell’arte dolciaria partenopea.
Si narra che Carmine fosse nel suo piccolo “regno” culinario, circondato dai suoi utensili ed ingredienti, impegnato con estrema cura nella preparazione di una torta alle mandorle.
Entrarono senza bussare tre malavitosi giunti a Capri per comprare una partita di ghette per Al Capone lo “Scarface” di Broccolino, e gli ordinarono una torta.
Tutto procedeva al meglio, ma per timore e per la fretta di finire, commise un errore che gli avrebbe sicuramente rovinato la reputazione e forse anche i connotati, poiché avrebbe dovuto fare i conti con dei malavitosi irritati per il dolce sbagliato: dimenticò di aggiungere la dose di farina necessaria per completare l’impasto della torta.
La infornò ed a fine cottura, con sommo stupore, la torta risultò una vera e propria prelibatezza: morbida al centro e croccante fuori. I tre americani furono soddisfatti al 100%, addirittura da chiedere la ricetta.
Carmine la diede loro senza esitare. Una torta sbagliata gli aveva salvato la faccia, da una sfregiatura, come non era successo a “Scarface” Al Capone.
L’aneddoto fu la migliore pubblicità e la sua torta ebbe un gran successo.
Eccovi la ricetta. Non è necessario dopo averla degustata fumarsi un sigaro.
Ingredienti: 125 g di burro, 140 g di zucchero, 3 uova, 140 g di cioccolato fondente al 70%, 175 g di farina di mandorle, sale, zucchero a velo

Procedimento: Spezzettare il cioccolato e farlo fondere a bagnomaria. Unire nella planetaria burro, zucchero e sale; e lavorare a pasta con la frusta K. Unire uova, cioccolato fuso e farina di mandorle. Versare l’impasto, livellandolo bene in uno stampo a cerniera (20-22 cm di diametro) imburrato e infarinato. Cuocere in forno preriscaldato a 170° per 45’. Sfornare su gratella e far raffreddare. Spolverare generosamente di zucchero a velo.
LA VERA STORIA DEL SARTU’
La gente di Napoli è incline al riso. Nell’accezione di “risata”, effettivamente il riso abbonda sulla bocca dei suoi abitanti. Se invece la parola “riso” la leggiamo nel suo significato di alimento, dobbiamo riconoscere che nei suoi confronti l’atteggiamento dei napoletani è stato sempre ambivalente. Alla fine del 1300, da “mangiafoglia”: consumatori di verdura, e segnatamente di cavolo – per necessità, non essendovi cibo altrettanto economico da mettere sotto i denti,- i napoletani stavano diventando un po’ alla volta “mangiamaccheroni”. Un appellativo assai più lusinghiero, al quale a tutt’oggi  non hanno alcuna intenzione di rinunciare. Più o meno nello stesso periodo, dunque alla fine del XIV secolo, era arrivato a Napoli un altro alimento: per l’appunto, il riso. Non da troppo lontano; dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi che venivano a prendere possesso del regno di Napoli.La pasta ed il riso, giunte a Napoli per vie diverse (pur provenendo dallo stesso luogo: l’estremo Oriente), presero anche strade diverse. In verità, la pasta non ne prese alcuna: a Napoli si trovò benissimo, ed elesse la città partenopea a propria dimora ufficiale. Invece il riso a Napoli non si fermò più di tanto. In men che non si dica si spostò al Nord, e vi si installò stabilmente. Perché là trovò l’acqua, indispensabile perla sua crescita, dicono alcuni; ma forse la verità è un’altra. E’ che a Napoli il riso non aveva avuto troppo successo. Sì, era un cibo nutriente, che dava un senso di sazietà, ed era relativamente poco costoso; ma i napoletani non ebbero mai per lui lo stesso feeling che stavano invece sperimentando per la pasta. Ne fanno fede i nomi che al riso venivano affibbiati, e che in parte gli sono  rimasti, a tanti secoli di distanza: “sciacquapanza” e “sciacquabudella”. A motivare questa diffidenza, che non di rado si tingeva di ostilità, sta il fatto che il riso sbarcato a Napoli con gli Aragonesi era un’assoluta novità, almeno per l’Italia, in quanto all’ impiego alimentare. Finora quel momento, il riso era stato utilizzato solo come medicamento, per malattie gastriche o intestinali. La schola medica salernitana (Salerno è a un tiro di schioppo da Napoli) consigliava il riso in tutte le salse, anzi in nessuna (veniva infatti prescritto rigorosamente in bianco). A Napoli, in quel periodo, le malattie infettive trascorrevano il  tempo fra endemia ed epidemia; e in molti casi (si pensi al colera) il riso era l’unico alimento consigliato, e consigliabile. Il riso Purificatore veniva insomma associato a condizioni di salute precarie, sulle quali non c’era niente da ridere. E’ probabilmente per questo motivo che i napoletani non si strapparono i capelli  quando il riso, pur avendo avuto Napoli come prima destinazione, scelse di stabilirsi in Lombardia, in Piemonte e in Veneto. I napoletani ignoravano però che, come gli emigranti che fanno fortuna lontano dal luogo da cui sono partiti, il riso un giorno sarebbe tornato. E che loro stessi lo avrebbero accolto con tutti gli onori. E gli odori. Ma il riso si rivelò piuttosto furbo: non tornò infatti così com’era partito, nudo e crudo. Tornò cotto, e sottomentite spoglie. Per dir meglio, in abiti diversi. Assai più ricchi, e più belli. Se gli artefici dell’arrivo del riso a Napoli furono gli Spagnoli, i protagonisti del suo ritorno furono invece i Francesi. Per il tramite dei loro cuochi. Nel ‘700, erano loro, i cuochi francesi, a regnare su Napoli. I nobili, che vivevano nei palazzi del Centro Storico e di Monte di Dio, nella adiacenze di Palazzo Reale, in quel periodo per apparire chic, parlavano francese, e nella stessa lingua mangiavano. I loro cuochi (sia quelli autenticamente francesi, sia quelli napoletani, che si erano comunque impratichiti nella cucina d’Oltralpe) erano chiamati, in un francese napoletanizzato, “Monsù” (da “Monsieur”). Questi poveri cuochi dovevano scontrarsi quotidianamente con l’idiosincrasia dei loro padroni… nei confronti del riso, che invece in Francia andava alla grande. Un’avversione (ma forse si potrebbe definire meglio un non-amore: un’indifferenza) che andava avanti da secoli. Cosa pensarono allora di fare, i Monsù? Si mobilitarono per nobilitare il riso. Per renderlo più gradevole ai palati partenopei. Per cominciare, ci misero dentro della salsa “c’a pummarola”: il pomodoro, a quei tempi, a Napoli era già una sorta di passepartout, un viatico. Questo però non poteva bastare: anche se rosso, il riso restava uno sciacquapanza. I Monsù decisero perciò di  arricchirlo con melanzane fritte, polpettine e piselli. Tutte queste prelibatezze le piazzarono sopra il  riso, a guarnizione: come specchietto per le allodole. In cima a tutto: in francese, “sur-tout”. Da “sur-tout” a “sartù” non c’è che lo spazio di un sospiro, e il tempo necessario ad emetterlo. Poi la bocca sarà occupata in (sar)tutt’altro .I loro padroni, i nobili napoletani, fecero da cavie a questo “nuovo” piatto. E mostrarono di gradire il sartù quanto avevano disdegnato il riso: vale a dire, moltissimo. Un po’ per volta il sartù, pur rimanendo sulle tavole dei ricchi, passò pure su quelle dei poveri. Diventando, come molti cibi, a Napoli e altrove, una splendida metafora dell’egualitarismo. A conferma che la legge (della buona cucina) è uguale per tutti.

A NASCITA D’O SARTÙ
‘O tiempo vola, corre troppo ampressa.
‘O munno cagna, ‘a storia è semp’a stessa.
Napule s’a pigliava il re di Spagna?
“Giuvinò, stamm’a posto, mò se magna!”

Quann invece arrivava ‘o re di Francia,
“Stavota sì, ca ce regnimm’a pancia!”
Se, se. Cà so’venute tutte quante,
ma ‘a panza nosta sta sempe vacante.

Che dite? Non dobbiamo farne un dramma?
‘O sazio nun capisce a chi ave famma.
Simme abituate, a non avere niente.
Almeno ci’a pigliammo alleramente….

A nuje napulitane ciann’acciso,
però c’abbascio avimme sempe riso.
Ci’o purtajeno ch’e nave, all’Aragona;
però so’ sempe meglio ‘e maccarone.

Si staje diuno, sì, t’o mange ‘o stesso,
 ma il riso, come piatto, è un poco fesso.
Lesso, c’o burro, in bianco, è consigliato
espressamente, quanno staje malato;

ma si staje buono, detto con creanza,
che ten’ea fa, di questo sciacquapanza?
E’ meglio ca te faje nu piatt’ e pasta!
‘O riso s’a pigliaje. Dicette “Basta!

Sai che faccio? La lascio, sta città,
che non mi apprezza, e mai m’apprezzerà.
Stu riso era davvero fino fino.
Se ne fujette al nord, verso Torino,

e là, poiché non era affatto fesso,
crescette buono, e avette assai successo.
Ma Napule ‘a teneva dint’o core.
“Napoletani, voglio il vostro amore!

I’ so tuosto, guagliò: saccio aspettà.
Nu juorno, prim’o doppo, aggia turnà!”
L’anne vanno veloce comm’o viento.
Stammo oramai nel mille e setteciento,

e nel Palazzo mò stann’ e Francesi.
Nuje? Dint’e viche: famma, e panni stesi.
Ma stu sfaccimm’e riso, che ce tene!
’A ditto ca turnava? E mò mantene.

A sta là ‘ncoppa, al nord, nun cià fa chiù.
In segreto s’incontra cu Monsù
(‘o cuoco d’e francese): “E’ il mio momento!
Mi devi fare un bel travestimento…

Dai, truccami con arte e fantasia:
nisciun’ adda capì ca so’ semp’io…..”
“Ne pas paura – le dicett’o cuoco
franco-napulitano- Sce vo poco:

assiem’a te – le risò – je sce mette
melanzane e pesielle, e deu purpette,
e poi, per non lasciarle troppo seule,
un petit peu de sause de pomarole.

Ci’o mette tout ncoppa : là, sur-tout.
C’est la nouvelle cuisine ! Le nom ? SARTU’!”
‘O sartù zitto zitto, chainechiane,
trasette ‘a casa d’e napulitane.

S’ o mettetten’ annanze, e ditto ‘nfatto
se mangajeno ‘o riso, e pure ‘o piatto.
“Chillu riso scaldato era na zoza.
Fatt’a sartù, ma è tutta n’ata cosa.

Ma quale pizz’e riso, qua timballo!
Stu sartù è nu miracolo, è nu sballo.
Nennì, t’o giuro ‘ncopp’a chi vuò tu:
è chiù meglio d’a pasta c’o rraù!”

5 SETTE 
ANNI DI CASA BERGESE


 

7 anni di Casa Bergese raccoglie in maniera sistematica la documentazione di tutte le manifestazioni organizzate dall’omonimo gruppo savonese di amanti della buona tavola pubblicata sul blog “Homo ludens” (https://nonmirompereitabu.blogspot.com/. Nino Bergese è stato il più grande chef italiano di tutti i tempi. Definito "il re dei cuochi il cuoco dei re" per la sua lunga attività al servizio delle case regnanti di tutta Europa è l'inventore della cucina italiana di gran classe. In suo onore esiste una Associazione culturale denominata Casa Bergese che organizza corsi, degustazioni, menù tematici.

BRANCALEONE FOX TERRIER
 

“Brancaleone Fox Terrier” è il primo di un ciclo di volumi che Jean Jacques Bizarre, nom de plume di un bon vivant di origini parigine, ha dedicato alla Liguria, terra che conosce molto bene poiché vi ha risieduto a lungo in compagnia del suo adorato cane, costantemente attorniato dalle sue amicizie senza confini. Il libro è scritto sotto forma di diario che è anche guida turistica e gastronomica romanzata. Il volume si compone di 682 pagine. Leggendolo conoscerete luoghi, miti, leggende, eventi, itinerari, ristoranti e quanto di buono si può trovare in questa affascinante terra. Ma Jean Jacques ha anche aperto a voi le porte del suo cuore e delle sue grandi passioni: le belle donne e la buona cucina (non necessariamente nell’ordine).