Un'origine più incerta invece è quella che si tramanda a Zocca, dove i borlenghi scaturirono da una frode vera e propria. Si narra infatti di un bottegaio che nei giorni di mercato vendeva pane e focacce, allungando però l'impasto con acqua a seconda del numero di avventori.
Infine a Montombraro ritorna il collegamento con la "burla": un signorotto locale, infatti, avrebbe servito tale sottile sfoglia a conoscenti ed amici, che erano stati riuniti a convivio con la promessa di un pasto abbondante. Purtroppo per lui, gli ospiti gradirono talmente quel cibo così insolito da venirne conquistati ed insistere per essere invitati a tavola numerose altre volte.
A Zocca ha sede il museo del Borlengo, e ha sede la compagnia della cunza, associazione per la cultura e la conservazione della tradizione del Borlengo tipico.
L'etimologia viene fatta risalire a "burla", e a questo proposito vi sono almeno tre teorie:
Per alcuni il borlengo sarebbe il risultato di uno scherzo ad una massaia che, con acqua e farina, stava preparando il tradizionale impasto per le crescentine da cuocere nelle tigelle (piccole pietre refrattarie in mezzo alle quali, un tempo, i dischi di pasta erano accostati al fuoco del camino). La donna, trovandosi l'impasto per il cibo quotidiano allungato eccessivamente dall'acqua, non pensò di buttarlo via, ma provò a ricavarne ugualmente qualcosa di commestibile - e ci riuscì.
Altri pensano che l'alimento venisse mangiato a carnevale, quindi fosse un "cibo per burla".
Altri ancora ritengono che la burla risieda nel fatto che il borlengo è un alimento molto voluminoso, ma in realtà molto leggero perché la pasta è sottilissima.
Zona di preparazione
La zona di preparazione è una ristretta fascia di Appennino emiliano, che comprende i comuni a cavallo tra la provincia di Modena (la fascia principale è quella che va da Guiglia, Marano sul Panaro, Savignano sul Panaro, Vignola e Zocca (che ospita il museo del borlengo o burlengo), fino a Castel D'Aiano e Montese, con in seconda battuta il territorio del Frignano, tra cui Pavullo nel Frignano e Sestola, dove vengono chiamati "berlenghi" e "burlenghi", e Fanano e, la parte della provincia di Bologna più vicina a Modena (Gaggio Montano, Porretta Terme, Vergato, Savigno, Castello di Serravalle e Castel D'Aiano). A Bologna e provincia e nel comune di Montese (MO) sono conosciuti con il nome di "zampanelle". Nel comune di Polinago (MO) i borlenghi vengono chiamati ciaci o solatelle (sono leggermente più spessi dei borlenghi classici) e si possono consumare, anche accompagnati a salumi, con le crescentine nei chioschi allestiti per la festa patronale di Ferragosto. Vengono chiamati inoltre "sfuiadee" o "sfogliatelle" a San Dalmazio, frazione del comune di Serramazzoni.
Tipologie di borlengo
Come per tutti i prodotti tipici locali, è praticamente impossibile definire una ricetta e un modo di preparazione univoco per i borlenghi. Ogni famiglia ha la propria variante peculiare che riterrà quella originale e i diversi paesi si contendono la paternità del borlengo. Inoltre è possibile fare confusione dato che un unico nome in realtà identifica diversi prodotti (ad esempio il caso eclatante delle crescentine); e anche il viceversa, cioè prodotti che hanno nomi diversi ma indicano lo stesso prodotto. Emblematica è la situazione del ciacio, che nel Frignano può indicare sia una variante del borlengo fatto con la farina di castagne e condito con la ricotta, sia il borlengo stesso. Sempre più raramente il borlengo è definito come ciacio, la variante con le castagne è più specifica e sempre più indicativa per i locali delle zone di Pavullo. È però possibile tentare una distinzione tra due tipologie di borlengo in base al tipo di padella in cui vengono cotti, corrispondenti a distinte zone geografiche.
Il borlengo viene condito in mano perché non si raffreddi, con il tipico pesto di lardo di maiale, aglio e rosmarino
Borlengo nelle cotte
Questo tipo di borlengo (chiamato anche Ciacio oppure Ciaccio) viene cucinato nel Frignano, nelle valli del Dolo, del Dragone e del Panaro nel versante occidentale. Le padelle usate per cuocere il borlengo sono chiamate "cotte" o "cottole": due piastre in ferro di circa 28–30 cm senza bordo e con un lungo manico. Le cotte sono scaldate su un normale fornello e sono unte tradizionalmente con cotenna di prosciutto o con mezza patata unta con olio di semi. Raggiunta la temperatura, l'impasto (la colla) viene versata su una delle due cotte che vengono poi sistemate una sopra l'altra. Il borlengo resta schiacciato nel mezzo per il tempo della cottura e le cotte vengono capovolte più volte per ottenere una cottura uniforme. La "scuola" di Pavullo e specialmente quella di Miceno utilizza una metodica particolare, rigirando il borlengo stesso al posto delle cottole e invertendole ad ogni cottura, in modo tale che la colla venga caricata sempre sulla cottola più fredda che andrà poi a posarsi direttamente sul fornello, in questo modo la cottura risulta più rapida ed uniforme. La consistenza e lo spessore di questo tipo di borlengo dipende dalla quantità di acqua contenuta nella colla, e dalla mano del borlengaio poichè ogni borlengaio utilizza una colla più o meno liquida per ottenere lo stesso effetto. Il condimento tradizionale è un pesto di aglio, rosmarino e lardo (noto come cunza di Modena, lo stesso usato per le crescenti) a cui viene aggiunto Parmigiano Reggiano grattugiato. Il condimento viene aggiunto sul borlengo una volta che questo è cotto e al di fuori delle cotte. Esistono altresì condimenti alternativi con formaggio (aggiunto a fine cottura e poi reinserendo il borlengo nelle cotte per qualche secondo) o crema gianduia. Si è diffusa anche l'abitudine di utilizzare come farcitura marmellate e creme di cioccolato, con aggiunta di liquore all'anice (sambuca) oppure con zucchero e limone, cosa però vista malvolentieri dai cultori della tradizione dell'Appennino. La colla è un impasto liquido di farina, acqua e sale, ma anche per questo esistono varianti che contengono farina integrale, latte, vino bianco o uova.
Zampanelle nelle ruole
Questo tipo di borlengo viene cucinato nella valle del Panaro nel versante montuoso e orientale, in specie nel comune di Montese. Il borlengo cucinato nelle zone di Guiglia, Marano sul Panaro, Vignola, Modena e Zocca (Quello del museo) è praticamente identico a questa Zampanella e varia solamente per quello che riguarda alcuni ingredienti della 'colla'. La padella usata in questo caso si chiama "ruola" o "sole": una padella di rame stagnato di circa 40–45 cm di diametro con un lungo manico. Queste ruole devono essere "preparate" per poter essere utilizzate e questo della preparazione è un segreto che ogni cuoco difende accuratamente. La cottura è effettuata su fornelli speciali (detti "fuochi" o "foconi") che poggiano su un treppiede e che scaldano uniformemente la padella. La cottura avviene in quattro minuti per parte e quando la zampanella è pronta viene capovolta e condita direttamente nella padella con il pesto di pancetta, aglio se piace e rosmarino poi arricchito con Parmigiano Reggiano grattugiato. L'abilità del cuoco consiste nel ruotare la padella in modo da ottenere una zampanella distribuita uniformemente, molto sottile (quasi trasparente), croccante (non collosa né elastica). Va mangiata calda e appena fatta altrimenti perde la croccantezza e diventa collosa. L'impasto liquido rispetta la ricetta tradizionale di farina, acqua e sale, ma anche per questo esistono varianti contenenti uova. La differenza fra zampanelle e borlenghi del Frignano sta nelle dimensioni, nell'impasto e nel condimento. Le dimensioni della zampanella sono molto superiori a quelle del borlengo del Frignano e lo spessore risulta molto inferiore. Per questo l'abilità del cuoco è determinante in quanto deve essere capace di spargere velocemente il liquido dell'impasto in modo da renderlo sottilissimo e quasi trasparente. Il condimento poi è molto diverso in quanto viene usata la pancetta fresca e la salsiccia al posto del lardo. Cinquanta anni fa le zampanelle nella zona erano mangiate solo in inverno proprio a ragione del fatto che quando cotte grondavano del grasso del lardo. Attualmente, e da molti anni, si usa la pancetta fresca a volte miscelata con la salsiccia e si possono mangiare tutto l'anno. Una delle differenze fra zampanelle e borlenghi del Frignano sta quindi anche nel modo di condirle. I borlenghi del Frignano assomigliano invece più ai ciaci di farina di grano che vengono fatti nella zona di Montese: più spessi e più piccoli di diametro. In alcuni ristoranti della zona si possono assaggiare zampanelle con varianti al condimento, vegetariane con pesto di asparagi e ricotta, olio di oliva aromatizzato all'aglio e rosmarino con grana grattugiato, caciotta filante, pesto ai quattro formaggi, e anche salumi e formaggi a fette, non mancano varianti dolci alla marmellata, al mascarpone con frutti di bosco e con la famosa crema alle nocciole.
3 uova
200 g di pecorino poco stagionato grattugiato
120 m di olio extra vergine d’oliva
100 ml circa di latte
1 cucchiaio di salva tritata
100 g di mandorle pelate
Sale
Pepe
1 tuorlo
Scaldare il forno a 180°C . In una ciotola lavorare la farina setacciata con il lievito, le uova, leggermente battute, l’olio, il latte, il pecorino e la salvia. Salare, pepare e versare sul piano di lavoro, formare un impasto a cui aggiungere per ultimo le mandorle. Dividere l’impasto in 4 pezzi.
Allungarli per formare dei filoni, disporli su teglia foderata con carta forno. Battere il tuorlo con un cucchiaio di acqua e spennellarlo sulla superficie. Cuocere in forno per 20 minuti circa. Quando sono sufficientemente freddi, tagliarli sottilmente, e farli tostare in forno a 120°C .
Tagliare a striscioline le cipolle e cuocerle in una padella con un po' d'olio. Fatte appassire a fuoco basso, aggiungere un pomodoro e uno spicchio d'aglio, qualche foglia di basilico e un cucchiaino di zucchero. Fare cuocere qualche minuto. Dopodiché prendere la pasta sfoglia e tagliarla in forma rettangolare, dopo aver inserito centralmente la salsa appena composta e un po' di mozzarella, richiudere la sfoglia congiungendo i vertici del rettangolo verso il centro. A questo punto basta infornare.
2 mazzetti di menta maggiorana
1 kg di farina
15 grammi di pepe
2 cucchiai di sale
2 bicchieri d'acqua
2 tuorli d'uova
cannella qb
forma circolare (diametro 13 cm)
Rimuovete i ramoscelli dalla menta maggiorana e lasciate solo le foglie. Mescolate in un recipiente abbastanza grande, la ricotta, il grano e la menta maggiorana appena pulita. Aggiungete tutto il pepe e la cannella e mescolate fino ad ottenere un amalgama uniforme degli ingredienti. Lasciate riposare per mezz'ora affinché la menta maggiorana possa aromatizzare la ricotta fresca. Nel frattempo, impastate la farina aggiungendo lentamente l'acqua e il sale. Amalgamate bene la farina fino ad ottenere un impasto non troppo morbido. Preparate delle sfoglie di pasta non più spesse di 2mm. Tagliate la sfoglia in maniera circolare usando un coltello o l'apposito rullo da taglio. Le forme ottenute saranno usate a coppie, una per il fondo e una per coprire il ripieno della farrata. Riempite ogni sfoglia con due cucchiai dell'impasto di ricotta ottenuto in precedenza, e copritela con un'altra sfoglia. Con indice e pollice unite le due sfoglie ripiegando la pasta verso l'interno della farrata, a mo' di calzone. Montare i due tuorli d'uova, e con un pennello piccolo (anticamente si usava un pennello nuovo da barba) cospargete la parte superiore della farrata, colorando di rosso. Infine, prima di infornare, bucate con una forchetta la parte superiore della farrata stessa, onde evitare bolle d'aria all'interno. Infornate per mezz'ora nel forno a 180°. Nell'area sipontina la farrata è il tradizionale piatto rustico del Carnevale Dauno di Manfredonia.
200 g di emmental,
200 g di fontina,
1 uovo,
4 cucchiai di parmigiano grattugiato,
150 ml di panna da cucina,
50 ml di latte,
sale,
1 cucchiaio di olio di oliva,
1 spicchio di aglio.
In una padella rosolare lo spicchio di aglio sbucciato e tagliato a metà, aggiungere gli champignon affettati e lasciarli cuocere per una decina di minuti, eliminare l’aglio, salare e tenere da parte. Nel robot da cucina tritare insieme l’emmental e la fontina tagliati a pezzi, l’uovo, il parmigiano, la panna e il latte. Aggiungere ai funghi ed amalgamare bene tutti gli ingredienti. Togliere la calotta alle rosette soffiate, ma tenerla da parte. Riempire per bene le rosette con la crema di formaggi e funghi, adagiarle su una leccarda rivestita di carta forno e infornare in forno già caldo a 180° per circa 30 min., aggiungendo le calottine solo una decina di minuti prima per farle tostare. Servire le rosette calde adagiando la calottina sul formaggio dorato e croccante, mentre all’interno il formaggio sarà morbido e deliziosamente filante.
un peperoncino
5 cucchiai di olio extravergine
200 g di formaggio burrino tagliato a fette
sale q.b
Dopo la prima cottura la singola forma, ancora calda, viene tagliata con un filo ("a strozzo") sul piano mediano orizzontale lasciando sulla faccia dello scorrimento dello spago la caratteristica superficie irregolare.
I due pezzi ottenuti, quello inferiore col fondo piatto e quello superiore con il dorso curvo, si cuociono nuovamente in forno (bis-cotto) per eliminare l'umidità residua della pasta. La frisa viene conservata in contenitori di creta (oggi in buste di plastica) per preservala dall'umidità e favorirne la conservazione. Le friselle di pezzature maggiore, per effetto delle lavorazioni precedenti la cottura, all'atto della bagnatura (sponsatura) si dividono quasi naturalmente in due parti: quella superiore più morbida in corrispondenza della faccia dello spacco e quella del fondo più dura; è usanza servirle già nel piatto divise per facilitarne il condimento. Le friselle di pezzatura minore si bagnano e si condiscono intere. La pezzatura della singola frisella, in passato, corrispondeva alla porzione di pane necessaria al regime alimentare di un lavoratore addetto a lavori pesanti e spesso costituiva l'intero apporto calorico del pasto. Prodotta principalmente in Puglia, è anche molto diffusa in Campania, dove prende il nome di fresella e in Calabria con il nome di fresa. Nella lingua italiana, grazie alla riscoperta delle tradizioni pugliesi e salentine, si sta imponendo il termine frisa.
Viene preparata con il grano del Salento, sia quello vagliato fine sia con quello con ancora parti di crusca fine (rossello).
Per gustarla si bagna in acqua fredda per un tempo che dipende dal gusto individuale e dalla consistenza della pasta cotta. Quindi si condisce, con pomodoro fresco, origano, sale e un filo d'olio extravergine d'oliva. Come variante si può strofinare uno spicchio di aglio sulla frisella prima di bagnarla, si può aggiungere del peperoncino, del cetriolo o del carosello (menunceddha, spureddhra).
Prima del dopoguerra, la frisella di farina di grano era riservata alle sole tavole benestanti e a poche altre occasioni celebrative. I ceti meno abbienti della popolazione consumavano friselle di farina di orzo o di miscele di orzo e grano.
La frisella può essere conservata per un periodo lungo e questo la rendeva una valida alternativa al pane, nei periodi in cui la farina era più scarsa. In Puglia è nota anche come il pane dei Crociati giacché favorì il vettovagliamento e il viaggio delle truppe cristiane.
In passato in Puglia si usava bagnare le friselle direttamente in acqua di mare, e consumarle condite col solo pomodoro fresco, premuto per far uscire il succo.
La forma non è il risultato di una ricerca estetica o del caso, ma risponde a precise esigenze di trasporto e conservazione. Le friselle venivano infilate in una cordicella i cui terminali venivano annodati a formare una collana, che era facile appendere per un facile e comodo trasporto e conservazione all'asciutto. La frisella era infatti un pane da viaggio; da qui l'uso di bagnarla in acqua marina da parte dei pescatori, che la usavano anche come fondo per le zuppe di pesce o di cozze, alimenti abituali durante le battute di pesca che duravano parecchi giorni.
Nella tradizione salentina, comune ad altre tradizioni contadine, si procedeva con cadenza regolare alla panificazione, spesso in capientissimi forni a legna comuni o pubblici. Gli intervalli della panificazione potevano essere da bisettimanali a più che trimestrali, per cui il quantitativo di farina di una o più famiglie associate, poteva dare corpo ad un impasto di 100-200 kg. Nella panificazione una quota limitata (20%) era costituita da pezzi di pane morbido da consumarsi nei primissimi giorni, in genere da tagliarsi a fette. Moltissime risultano le varianti del pane fresco spesso associate alla presenza nell'impasto di olive nere, zucca, cipolla, ecc. o a particolari lavorazioni (taralli, pirille, ecc.) per il consumo diretto senza particolari condimenti aggiunti. La quota maggiore dell'impasto di panificazione veniva riservato però alla produzione di friselle di più lunga conservazione rispetto al pane fresco tenero, consentendo intervalli di panificazione maggiori. In casa le friselle erano conservate in grossi orci di creta (quartieri o capasoni). La frisella, pertanto, non era un prodotto da forno ricercato ma un prodotto alimentare di base, spesso in contesti dove il consumo di pane fresco era impossibile o inopportuno. Nel Salento la tradizione della panificazione "secca" è tuttora conservata in pochissimi centri minori e famiglie, spesso associata alla coltivazione in proprio di grano. Attualmente la frisella è prodotta da forni commerciali in varie pezzature e venduta in confezioni imbustate nei supermercati di tutta Italia.
A Bari e circondario le friselle sono spesso preparate in casa pur essendo vendute nei negozi: inzuppate d'olio, acqua, sugo di pomodoro e un filo di vino quindi condite con carciofini e lampascioni sono una pietanza gradita ai buongustai. Tale specialità culinaria, servita pure in raffinati ristoranti, è definita in dialetto barese con il termine ciallèdde che in lingua italiana diventa cialda, da non confondere ovviamente con l'omomima pasta di biscotti e coni da gelato.
A Napoli la fresella è la base della caponata, fatta con pomodoro a pezzetti, aglio, olio, origano e basilico su di una fresella bagnata. Una versione più ricca è fatta con pomodoro (più frequentemente pomodorini) a pezzetti, olio extravergine d'oliva, aglio sminuzzato, origano, olive nere, olive bianche, tonno e/o alici sotto sale.
La preparazione è ancora oggi soltanto locale, anche se l'associazione Sapori di Levanto, per tutelare questo piatto tradizionale, ha voluto registrare la denominazione, depositando il marchio Gattafin. Una spiegazione più ricercata dell'etimologia fa risalire l'origine del nome a gattafura, parola trecentesca che indica rafioli e torte. Sia Maestro Martino, uno dei cuochi più famosi del XV secolo nel suo De arte Coquinaria, sia Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di papa Pio V, ci hanno lasciato notizie sulla Gattafura. Nel libro V della sua celebre Opera (1570) ci riporta la ricetta della Gattafura alla Genovese, una torta di erbe e formaggi simile alla più recente torta pasqualina. Da oltre 500 anni in Liguria, e non solo, imprigioniamo le verdure tra due strati di pasta. Le torte di verdure hanno dato origine anche ai ravioli, che nel Rinascimento si consumavano fritti.
una mozzarella grossa,
8 fette di pane in cassetta (pan carré),
2 uova,
farina,
2 cucchiai di latte,
sale e olio.
Si dividono le fette di pan carré a metà e si toglie la crosta. La mozzarella viene tagliata a fette abbastanza spesse e queste ultime si pongono tra due fette di pane. Il tutto si passa in farina, in uova sbattute con latte e sale e quindi fritte in abbondante olio.
Tostate le fette di pane in modo che siano croccanti. Tagliate a metà l’aglio e strofinatelo sul pane. Tagliate il pomodoro a metà e strofinatelo bene sul pane (metà pomodoro per ogni fetta di pane). Aggiungete il sale. Aggiungete l’olio. Strofinate la buccia del pomodoro rimasta in modo da distribuire bene il sale e l’olio su tutta la fetta di pane. Pa amb tomàquet, tradotto letteralmente in italiano come "pane con pomodoro", è una semplice e tipica ricetta di Aragona, Catalogna, Valencia e Maiorca, dove riceve il nome di pa amb oli o pamboli, in italiano letteralmente: "pane con olio d'oliva"). È un piatto simile alla bruschetta. È considerato il piatto più noto della cucina catalana. La versione più semplice del piatto consiste in una fetta di pane con mezzo pomodoro maturo strofinato, e condito con olio d'oliva e sale. Nella ricetta contadina originaria quest'ultima veniva accompagnata da una sardina in salamoia, ma oggigiorno si serve piuttosto accompagnata di prosciutto, formaggi o salumi affettati, sebbene si possa ritenere pa amb tomàquet una qualsiasi variante di panino o pane tostato purché il pomodoro ci sia stato strofinato. Il primo riferimento scritto riguardo a questo piatto risale al XVIII secolo, la ricetta viene nominata come panboli bo nel libro Modo de cuynar a la mallorquina di Jaume Martí Oliver. Comunque alcuni autori sostengono che la ricetta sia anteriore, e che tuttavia nei primi tempi non fosse stata apprezzata abbastanza da figurare nei ricettari trattandosi d'una ricetta troppo semplice ed evidente. In ogni caso non sarebbe una ricetta anteriore all'introduzione del pomodoro nella cucina catalana, verso il XVI secolo. Secondo l'ipotesi più accettata, la ricetta sarebbe nata spontaneamente nelle campagne, dove si sarebbero usati dei pomodori, spesso abbondanti nelle buone raccolte, per ammorbidire il pane secco, anche se in passato se ne era attribuita la diffusione agli immigrati dalla Murcia andati a Barcellona per lavorare nell'Esposizione Universale di Barcellona del 1929.
Si prepara con la stessa pasta per creare la normale pizza, ed è chiamato panzerotto specialmente in Puglia (ad esclusione della provincia di Lecce in cui è chiamato calzone), diversamente dalle altre regioni in prevalenza del centro-sud d'Italia (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia) per distinguerlo dai numerosi tipi di calzone al forno. A Napoli, dove è anche molto diffuso, viene chiamato semplicemente pizza fritta, mentre con il termine calzone si indica il calzone al forno ed il nome panzerotto ('o panzarotto detto in napoletano), viene invece utilizzato per indicare delle semplici grosse crocchette di patate. Esistono molte varianti al ripieno originale del panzerotto pugliese; noto è il ripieno con l'aggiunta delle olive snocciolate, delle acciughe, della cipolla e dei capperi. Il panzerotto nasceva dalla tradizione della cucina più povera pugliese, quando con la rimanenza della pasta del pane venivano cotte queste piccole mezzelune con pezzi di formaggio e pomodori. Oggi lo si trova in tutte le vetrine dei bar e nei menu delle pizzerie e, spesso, dei ristoranti. Il tipico panzerotto pugliese è ripieno con pomodoro e mozzarella, può essere cotto al forno o fritto nell'olio extravergine di oliva. Il prodotto per essere gustato appieno va mangiato caldo. Può essere considerato tanto un esempio di classica rosticceria quanto un dessert atipico. Il panzerotto, inteso come portata principale, è infatti un vero e proprio piatto salato composto da un involucro di pasta da pizza, lavorato e reso simile ad un croissant, farcito al suo interno con mozzarella e pomodoro oppure con ricotta e pancetta ed in seguito fritto in olio d'oliva o infornato. Va precisato che bisogna distinguere il calzone dal panzerotto oltre che per il tipo di cottura e di impasto (il calzone si prepara con lo stesso impasto usato per fare il pane, quindi si sottopone a lievitazione ed è cotto al forno, mentre il panzerotto viene fritto in abbondante olio di semi) anche per le dimensioni; infatti un calzone è una vera e propria "pizza" da
Sale
Pepe
Olio extravergine di oliva
2 pomodori maturi
formaggio spalmabile a piacere
Preparo il pesto di basilico unendo 50 ml di olio extravergine di oliva, 2 cucchiai di aceto, un pizzico di sale e pepe, il basilico, le mandorle. Frullo con un frullatore ad immersione. Otterrò una crema densa e saporitissima. Taglio a fette il pomodoro e lo condisco con aceto, olio, sale e pepe. Taglio il pane a metà e faccio più strati alternando pomodori, formaggio spalmabile e pesto di basilico e mandorle.
Tapas: gamberi alla catalana
spinacini da insalata,
4 fette di speck, sale e pepe
Tagliare a metà i panini, imbottire con spinacini, speck, rosti e fette di Emmental. Chiudere i panini e servire.
uovo
piselli cotti
panino rotondo
30 gr robiola
per la farcia all'insalata russa (3 vol au vent)
olio.
Volendo preparare dei panini con la zucca anche in versione crostino di pane, potete far bollire la zucca in acqua salata, dopo averlo tagliato a cubetti piuttosto piccoli. La cottura sarà davvero breve, basteranno 10 minuti per avere la zucca perfettamente cotta. Scolate i cubetti di zucca e conditeli con pepe e un filo di olio. Quindi fate abbrustolire il pane, che può essere una fetta di pagnotta casereccia, oppure del pane multicereali, o ancora una baguette o una michetta.
La zucca, è evidente, si abbina a moltissimi sapori che accontentano i gusti di tutti. Con la zucca potete anche preparare dei tortini dolci, seguendo le identiche dosi di una torta di carote. Potete usarla anche per farcire una torta salata con della pasta sfoglia o brisé, abbinandola a formaggi salati e salumi grassi come la pancetta o lo speck. Se avete a disposizione una zucca allungata potete usarla per fare un panino senza pane. Tagliate la zucca in fette spesse 2 cm e mettetela a cuocere in forno fino a quando non sarà cotta, ma soda. Fate abbrustolire le fette di zucca su un tegame antiaderente molto caldo, salatele e usatele come fette di pane da farcire con salumi e formaggi.