lunedì 27 maggio 2024

Corso di cucina: Lezione 5 Focacce

BARTOLACCIO
200 g di farina
300 g di patate
50 g di pancetta
50 g di parmigiano grattugiato
20 g di lievito di birra
1 cucchiaio di strutto
sale
pepe
Lessare le patate, intanto che queste cuociono preparare l’impasto con la farina, lo strutto, il lievito di birra e acqua quanto basta. Lavorare il tutto per cinque/sei minuti. Lasciare lievitare l'impasto coperto e al caldo per circa un'ora. Nel frattempo rosolare la pancetta tagliata a cubetti, condire con sale e pepe. Quando le patate saranno cotte schiacciarle in una ciotola, aggiungere la pancetta, il pecorino e la noce moscata, mescolare fin quando gli ingredienti saranno ben amalgamati e aggiustare di sale e pepe. Ora tirate la sfoglia non troppo grossa altrimenti non cuoce bene, non troppo sottile perchè potrebbe rompersi col peso del ripieno. A questo punto potete scegliere se tagliare la sfoglia a dischi o a rettangoli. Riempite ogni metà di rettangolo/disco lasciando vuoto un po’ di bordo poi ripiegate la sfoglia vuota, sigillate bene e rifilate con la forchetta. Quando saranno pronti tutti li cuocete su di una piastra molto calda girandoli per non farli bruciare. Se avete una stufa a legna potete utilizzare la teglia in terra cotta che è l’ideale e, se ne avanza qualcuno, sono ottimi anche freddi il giorno dopo.
Il Bartolaccio, o bartlàz in dialetto forlivese, è un prodotto alimentare tipico dell'Appennino forlivese. Noto ad esempio è quello di Tredozio. Si compone di una sfoglia sottile, i cui ingredienti sono soltanto acqua e farina, farcita di un particolare ripieno: purea di patate, pancetta, formaggio grana stagionato, sale e pepe. La sfoglia, poi, è richiusa su se stessa in modo da formare una mezzaluna (a somiglianza di un crescione). Il tutto è quindi cotto sulla piastra. Si tratta di un prodotto della tradizione contadina povera.

CALZONE AL FORNO BARESE
calzone al forno barese
Il calzone al forno è una specialità gastronomica originaria della  cucina barese derivando dalla focaccia alla barese: le varianti sono praticamente centinaia poiché diffondendosi in Italia e all'estero le ricette locali hanno adottato ingredienti caratteristici delle più disparate località. Questo tipo di calzone si cuoce sempre nel forno: a legna o alimentato dai vari tipi d'energia.
Il calzone più diffuso in Puglia, delle dimensioni di una normale focaccia, è a forma circolare fatto con sfoglia all'olio che avvolge un ripieno di spaghettini o capellini, inseriti nel calzone pochi minuti dopo averli cotti e scolati, con cipolla, acciughe, capperi e olive. Le varianti di farciture comprendono filetti di pesce, carne tritata, fior di latte, ricotta e altro; le varianti di forma comprendono quelle tubolare e rettangolare.

CANASCIONE
canascione
Il canascione o 'a pizza chiena (la pizza ripiena) è una torta rustica salata composta da una pasta simile a quella della pizza e farcita con un ripieno di uova, salumi (prosciutto crudo) e formaggi (pecorino).
È un prodotto della tradizione gastronomica contadina, diffuso soprattutto nel nord della Campania (Napoli e Caserta) e in Ciociaria. È una ricetta tipica del periodo pasquale, soggetta a numerose varianti regionali per quanto riguarda la farcitura, mentre gli ingredienti per la pasta sono identici in ogni luogo.

FAZZINO DELLA VAL BORMIDA
Il Fazzino, (lisone o lisotto) è prodotto indistintamente un po' in tutta la val Bormida, terra di castagne, funghi e patate dove la tradizione culinaria offre piatti di origine contadina dal gusto semplice ed antico. Ma è a Murialdo che trova la sua terra d'elezione. In località Riofreddo, il 16 agosto, è possibile degustarlo in occasione della festa di San Rocco.
Ogni paese della valle apporta leggere variazioni alla ricetta base, creando così un prodotto che muta nel gusto.
Ancora un esempio di come l'unione di elementi semplici e poveri possa creare un piatto gustoso e sostanzioso che ha saputo superare inalterato le mode: è il fazzino, lisone o lisotto, morbida focaccina di patate con una leggera cavità all'interno per raccogliere i condimenti tipici, ottime se cotte sulla stufa a legna, come vuole la tradizione.
Ingredienti: farina, lievito di birra, patate, sale.
Preparazione: fate bollire le patate con la pelle e passatele quando sono ancora calde, unitele poi alla farina e al lievito (o bicarbonato), aggiungendo un pizzico di sale. Impastate il tutto sino ad ottenere un impasto molle. Formate quindi delle palline grosse quanto una patata media e ponetele in frigo a lievitare per mezz'ora.
Nel frattempo tagliate a spicchi la cipolla e fatela ammorbidire in acqua e sale. Mettetene un pò su ogni pallina insieme all'olio e lasciate lievitare in frigo per un'altra mezz'ora.
Dopo la lievitazione spruzzate con acqua e mettete a cuocere. C'è chi, invece di far lievitare l'impasto, lo stende direttamente (sostituendo il bicarbonato al lievito), e lo taglia a rombi. Una volta cotti possono essere conditi oppure no, a seconda dei gusti e delle tradizioni, e si servono ancora caldi.
A Pallare si prevede l'impiego di una cipolla, o del porro unito all'uovo e all'olio; a Osiglia si usa l'aglio o il pesto; a Calizzano non è previsto nessun tipo di condimento.

farina,
lievito di birra,
patate,
sale.
Fate bollire le patate con la pelle e passatele quando sono ancora calde, unitele poi alla farina e al lievito (o bicarbonato), aggiungendo un pizzico di sale. Impastate il tutto sino ad ottenere un impasto molle. Formate quindi delle palline grosse quanto una patata media e ponetele in frigo a lievitare per mezz'ora.
Nel frattempo tagliate a spicchi la cipolla e fatela ammorbidire in acqua e sale. Mettetene un pò su ogni pallina insieme all'olio e lasciate lievitare in frigo per un'altra mezz'ora.
Dopo la lievitazione spruzzate con acqua e mettete a cuocere. C'è chi, invece di far lievitare l'impasto, lo stende direttamente (sostituendo il bicarbonato al lievito), e lo taglia a rombi. Una volta cotti possono essere conditi oppure no, a seconda dei gusti e delle tradizioni, e si servono ancora caldi.
A Pallare si prevede l'impiego di una cipolla, o del porro unito all'uovo e all'olio; a Osiglia si usa l'aglio o il pesto; a Calizzano non è previsto nessun tipo di condimento.

FOCACCETTE AL FORMAGGIO
Le focaccette al formaggio (in dialetto genovese 'e fugasette) sono una pasta ripiena di formaggio e fritta; sono una specialità tipica della cucina della riviera ligure di levante, Sori, Recco, Uscio, Camogli, tutti comuni della provincia di Genova, che si affacciano nel Golfo Paradiso e che è diventata nota in tutto il mondo.
Da oltre 40 anni si svolge ogni anno a Recco la Sagra delle Focaccette, in concomitanza con la Festività della Santa Spina, nel giorno di Pasquetta e la domenica successiva. Ottanta persone della comunità parrocchiale di N.S. delle Grazie di Megli, preparano le famose focaccette col formaggio, gustose frittelle salate, con una sfoglia croccante e sottile, ripiene di formaggio stracchino, fritte nell’olio bollente. Vengono preparate circa 3.500 focaccette, per la preparazione delle quali occorrono circa 400 kg di farina, 400 litri di olio, in un padellone di circa 2,00 m. di diametro, visibile al pubblico. Il padellone contiene circa 150 litri d’olio per ogni turno di frittura.
La focaccetta col formaggio può essere considerata una variazione della famosa focaccia col formaggio originaria di Recco: in effetti gli ingredienti adoperati sono molto simili, alla tradizionale focaccia senza lievito, fatta con farina, acqua e olio, viene in questo caso aggiunto del formaggio di tipo crescenza, varianti casalinghe con altri formaggi come la prescinsêua, il grana grattugiato o il gorgonzola; mentre diversi sono ovviamente il modo di preparazione e la procedura di cottura, che nel caso delle focaccette prevede un taglio rotondo o quadrato e la frittura. Variante casalinga è di cuocerle al forno, con un velo d'olio nella teglia.
Alle focaccette col formaggio si abbina un vino bianco, fresco e leggero come il Vermentino.
Le focaccette al formaggio molto spesso vengono inserite in un assortimento di antipasti, come i grissini al timo, le frittelle salate di cipolla e le frittelle di lattuga, i biscotti salati, le olive marinate.

FOCACCIA BARESE
focaccia alla barese
La focaccia tipica barese è un prodotto lievitato da forno tipico della Puglia e diffuso specialmente nelle province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Taranto, dove la si può trovare abitualmente nei panifici. Nasce, probabilmente ad Altamura o Laterza, come variante del tradizionale pane di grano duro, probabilmente dall'esigenza di sfruttare il calore iniziale forte del forno a legna, prima che questo si stabilizzi sulla temperatura ideale per cuocere il pane. Prima di procedere all'infornamento delle pagnotte, si stendeva un pezzo di pasta di pane cruda su una teglia, lo si lasciava riposare un po', dunque lo si condiva e infine lo si cuoceva.
Trattandosi di un prodotto della tradizione, la ricetta, tramandata di generazione in generazione, presenta numerose varianti, per lo più su base geografica.
Nella sua versione più tipica, la base della focaccia si ottiene amalgamando semola rimacinata, patate lesse, sale, lievito e acqua così da ottenere un impasto piuttosto elastico, molle ma non appiccicoso, che viene lasciato lievitare, steso in una teglia tonda unta con molto olio extravergine d'oliva, quindi lasciato lievitare di nuovo, condito e cotto, preferibilmente in forno a legna.
L'olio viene anche versato sulla superficie della focaccia insieme al condimento. Circa quest'ultimo, che va posto sull'impasto inderogabilmente prima della cottura, è possibile distinguere almeno tre varianti tradizionali:
la focaccia per eccellenza, che prevede pomodori freschi e/o olive baresane;
la focaccia alle patate, che prevede il ricoprimento dell'intera superficie superiore con fette di patata spesse circa 5 mm;
la focaccia bianca, condita con sale grosso e rosmarino.
A tali varianti se ne affiancano altre, che di volta in volta prevedono l'aggiunta di peperoni, melanzane, cipolle o altre verdure.
Al termine della cottura, si sarà ottenuta una spianata più soffice della pizza con un'altezza di 1-3 cm. Va gustata calda per assaporarne appieno la fragranza.

FOCACCIA CON LE CIPOLLE
La focaccia con le cipolle alla genovese (a fugàssa co-e çiòule in lingua genovese) è una variante della comune focaccia genovese. Alimento di antiche tradizioni nei quartieri più popolari di Genova e colazione usuale degli scaricatori del porto perché capace di saziare molto, in quanto la cipolla blocca i recettori dello stimolo della fame. La focaccia con la cipolla è un alimento molto economico ed è possibile prepararla anche in casa. A Genova molte persone mangiano la focaccia con le cipolle per colazione, intinta nel caffelatte o al bar con un buon bicchiere di vino bianco (u gianchettu).
L'impasto è come quello per la focaccia genovese: farina, acqua, lievito di birra, olio e sale.
Si usa l'olio d'oliva in quantità che può variare rispetto al peso della farina: più olio si aggiunge e più la focaccia viene unta. Per farla indorare molto bisogna aggiungere del malto. La pasta va lavorata col mattarello e tirata una sfoglia il più sottile possibile, al massimo mezzo centimetro, delle dimensioni della teglia da forno che si usa e una volta posizionata nella teglia unta d'olio, bisogna schiacciarla il più possibile, con la punta delle dita. Le cipolle, abbondanti, tagliate sottile, crude, irrorate con un poco d'olio e sale, si aggiungono a lievitazione avvenuta, prima di mettere nel forno. La temperatura del forno e i tempi di cottura variano dal tipo di forno che si usa: in media, forno ad alta temperatura per il tempo minimo per rendere cotta la farina. La morbidezza dipende dal tempo di cottura, meno si cuoce e più rimane molle.

FOCACCIA DI PATATE
500 g di farina, 
300 g di patate quarantine, 
olio, 
sale, 
pepe, 
lievito di birra q.b.
Bollire le patate e farle raffreddare. Impastare insieme le patate, la farina, l'acqua l'olio ed il lievito. Far lievitare il tempo necessario. Stendere l'impasto in una teglia unta e cuocere in forno a 200° per circa 30 minuti. Dopo la cottura gettare qualche chicco di sale grosso sulla focaccia ancora calda.

FOCACCIA DI RECCO
300 grammi di farina di grano duro,
500 grammi di formaggetta ligure o crescenza,
acqua,
olio extravergine di oliva,
sale.
Preparate la sfoglia unendo due parti di farina e una d'acqua e volendo un po' d'olio. Formate un panetto e fatelo riposare sotto uno strofinaccio in un luogo tiepido al riparo dalle correnti. Dividete la pasta in due tirando due sfoglie molto sottili, quasi trasparenti. Stendetene una sul fondo di una teglia ben unta e distribuitevi sopra il formaggio a pezzetti. Coprite con l'altra sfoglia, chiudete bene i bordi e praticate dei piccoli fori sullo strato superiore. Cospargete di sale, spalmate con olio e infornate per 10-15 minuti a temperatura elevata.

FOCACCIA LIGURE
La focaccia classica di Genova, meglio conosciuta come focaccia alla genovese (in lingua ligure a fugàssa), è una specialità tipica della cucina ligure: sorta di pane piatto (al massimo 2 cm) si distingue perché, prima dell'ultima lievitazione viene spennellata con un'emulsione composta da olio extravergine d'oliva, acqua e sale grosso, la si può consumare già a colazione, come "rompi digiuno" nella mattinata o come aperitivo-antipasto.
È particolarmente gradevole se accompagnata con un buon bicchiere di vino bianco (o gianchetto - pron. [u gianchettu] in lingua ligure) che ne favorisce la digestione. I genovesi usano anche inzuppare la focaccia nel caffelatte come colazione.
La focaccia viene preparata nei forni di ormai diverse città italiane, ma risulta spesso differente da quella tradizionale genovese. A parere di molti, infatti, la vera focaccia alla genovese la si può apprezzare solo nelle città liguri e nei borghi dislocati lungo la riviera ligure. I buongustai sono soliti aspettare di acquistarla calda, appena uscita da una delle varie infornate che si succedono nella mattinata, come si usa per la farinata. La focaccia è tipica del mattino, la farinata della sera, anche se ormai con i tempi moderni questo ritmo si è perso.
Il segreto della sua fragranza è costituito dalla qualità della farina e soprattutto dall'uso di olio extravergine d'oliva.
La elaborata lievitazione e l'accurata lavorazione della pasta richiedono una ventina di ore (ecco perché il prodotto risente decisamente delle condizioni climatiche, riuscendo meno buono nelle giornate particolarmente piovose); l'optimum di cottura lo garantisce soltanto un forno da panettiere (meglio se a legna), tuttavia una discreta focaccia può essere preparata anche nella cucina di casa. La sua variante più classica consiste nella sua ricopertura con cipolle tagliate assai finemente (fugàssa co-a çiòula).
Nella sua versione classica gli ingredienti occorrenti sono:
Farina bianca di grano tenero tipo 00 o 0 di media forza (W 200-300, 500 g)
lievito di birra (quantità variabile a seconda delle condizioni climatiche. Per una lievitazione di 20 ore con temperatura ambiente di 20 °C 0.1%)
acqua pura (400 g) oppure una miscela di acqua e vino bianco (300 g acqua e 100 g di vino bianco)
sale fino per l'impasto (10-15 g) e sale grosso per il condimento (10 g)
olio d'oliva extravergine (100 g, includendo sia quello dell'impasto sia quello usato per ungerla)
Spesso viene aggiunto sopra l'impasto base o cipolle o rosmarino o olive
La possibilità di elaborare varianti è limitata solo dalla fantasia del panettiere.
Molto diffusa è anche la focaccia con le cipolle, alimento di antiche tradizioni nei quartieri più popolari di Genova e pasto usuale degli scaricatori del porto perché capace di saziare molto, in quanto la cipolla blocca i recettori dello stimolo della fame.
Tradizionali sono la focaccia con le olive (sopra, come per quella con le cipolle) o con la salvia (nell'impasto) o con il rosmarino (nell'impasto) o con le patate (nell'impasto) o con l'uvetta passa (in forma più dolciastra, nell'impasto); ultimamente si fanno focacce con patate e/o pomodori (sopra) o noci (nell'impasto) o con il formaggio (non tipo Recco).
In Liguria è anche possibile trovare versioni decisamente moderne, ma non meno valide. È possibile assaporare, per esempio, focaccia cosparsa di salse varie, affettati o anche versioni dolci, farcite di panna, frutta secca o crema gianduia.
Da alcuni anni a questa parte è invalsa a Genova la locuzione linguistica errata ancorché deplorevole, di indicare la focaccia genovese classica come "focaccia normale", per distinguerla dalle varianti.
La fugàssa co-o formàggio, focaccia con il formaggio, propria di Recco, non è considerabile una variante della focaccia genovese in quanto prodotta con pasta non lievitata.
Oltre alla vendita a peso, la focaccia è venduta secondo altre unità di misura. Tra queste ricordiamo:
Mille lire (usata in particolare per focaccia da consumarsi subito, uscendo dal panificio. Ovviamente oggi non più usata)
Sleppa (o slerfa) (corrispondente a 1/8 di leccarda, che equivale a 150~200 g.)
Strisce (misura equivalente circa a 40~60 g.) Le strisce di focaccia vengono disposte su un cabaret di cartone (o polistirolo) in occasione di piccoli rinfreschi mattutini sul luogo di lavoro.
Quadretti (bocconi quadrati con lato di 6~8 cm. utilizzati in alternativa alle strisce).

500 grammi di farina di grano tenero,
1 decilitro d'olio extravergine d'oliva,
30 grammi di sale,
30 grammi di lievito di birra,
acqua.
Formate con parte della farina una fontana sulla spianatoia. Sciogliete il lievito di birra con acqua tiepida e unitelo alla farina che deve essere lavorata come la pasta del pane. Lasciate riposare la pasta sotto un canovaccio, meglio se di lana, in un luogo tiepido per almeno 2 ore. A questo punto prendete la pasta lievitata ed unite la restante farina, l'olio e, facoltativo, mezzo bicchiere di vino bianco; lavorate per ottenere una pasta morbida e fate nuovamente lievitare sempre sotto uno strofinaccio per altre 2 ore. Dopo la lievitazione, stendere la pasta in una teglia con le mani e lasciare le impronte delle dita che raccoglieranno l'olio versatovi. Spolverizzate con il sale grosso che deve essere frantumato da una bottiglia usata come mattarello. Lasciate riposare ancora, prima di cuocere in forno a 200-230° per circa 30 minuti. La focaccia può essere aromatizzata alla salvia che deve essere tritata ed aggiunta direttamente nell'impasto, con le olive tritate, anch'esse unite alla farina, oppure arricchita con le cipolle che tagliate a fette si cospargono sulla pasta già stesa prima di infornare.

FOCACCIA LIGURE CON LE PELLETTE DI OLIVE
Focaccine fritte o al forno, nel cui impasto viene inserita la pelle (epicarpo) dell'oliva, conservato sott'olio.
La proverbiale parsimonia ligure ha partorito un’altra squisitezza: la focaccia con le pellette di olive, nata dall'esigenza di non sprecare nulla, la focaccia co-e porpe, come si chiama nel Levante, co-a murcia come si chiama nel Ponente, per non buttare le olive già spremute;
Dalla frangitura delle olive (nei frantoi con macine in pietra) per la produzione di olio extravergine di oliva le pellette vengono separate dalla sansa mediante lavaggio in acqua calda e per affioramento: vengono quindi raccolte, asciugate e messe sott'olio. Tutti gli olivicoltori della zona conoscevano questi prodotti in quanto quando portavano a frangere le oliva si facevano donare le pellette. Poi una volta a casa le lavavano bene, togliendo alcuni residui di nocciolo macinato. Asciugate, venivano messe in barattoli di vetro coperte d'olio e durante l'anno venivano usate quando si impastava per preparare le focaccette che erano un piatto di lusso che ogni contadino offriva ai proprietari o agli ospiti di casa.
Zona di produzione: Da Varazze a Quiliano
Ingredienti: per un etto di farina di grano, un bicchiere di olio extravergine di oliva, mezzo bicchiere d'acqua, sale q.b., due cucchiai di pelli di oliva, lievito di birra.
Preparazione: Si impasta il tutto e si lascia lievitare, si stende a sfoglia e si inforna. In alternativa lo taglia a losanghe, quindi si frigge in abbondante olio extravergine d'oliva.
per un etto di farina di grano,
un bicchiere di olio extravergine di oliva,
mezzo bicchiere d'acqua,
sale q.b.,
due cucchiai di pelli di oliva,
lievito di birra.
Si impasta il tutto e si lascia lievitare, si stende a sfoglia e si inforna. In alternativa lo taglia a losanghe, quindi si frigge in abbondante olio extravergine d'oliva.

FOCACCIA MESSINESE
La focaccia messinese (o focaccia alla messinese, così chiamata nei comuni limitrofi ove non è natìa e quindi solo rassomigliante) è una specialità tipica della gastronomia messinese. La sua preparazione è molto comune nella città e meno nella provincia di Messina: essa si caratterizza per un impasto alto, soffice, che si cucina in forno a legna in grandi teglie. Tradizionalmente è ricoperta di scarola, pomodoro a pezzi, acciughe e formaggio (in genere tuma, anche se negli ultimi anni è usata anche la mozzarella). Condivide gran parte degli ingredienti con il pitone messinese, noto prodotto della rosticceria locale. Sia la pasta, sia lo spessore, differiscono significativamente rispetto a quelli di una normale pizza. Si ritiene che la ricetta abbia iniziato ad acquistare una sua fisionomia all'inizio del Novecento, per poi essere stabilizzata dai panificatori messinesi all'inizio del secondo dopoguerra, nella forma in cui la conosciamo oggi. Il prodotto è comunemente presente in tutti i panifici e le rosticcerie di Messina e molto meno in quelli della sua provincia, oltre a conoscere una discreta diffusione anche nel resto della Sicilia orientale dove però la ricetta si discosta dal prodotto tipico messinese. Nella zona dei Nebrodi, in luogo della tuma o della mozzarella, è spesso utilizzata la provola locale, che costituisce un presidio slow food.

FOCACCIA NOVESE
La focaccia novese è una specialità da forno tipica della cucina piemontese, prodotta artigianalmente dalle panetterie della zona di Novi Ligure (Novese) ed Ovada. È una sorta di pane piatto (presenta al massimo un centimetro d'altezza) condito con olio extravergine d'oliva e sale grosso. Durante il processo produttivo la focaccia viene stirata e poi successivamente manipolata per produrre piccoli alvei sulla superficie. È consigliato l'abbinamento al vino di produzione locale Cortese di Gavi DOCG.
La composizione degli ingredienti, e dunque dell'impasto, rendono tale prodotto molto simile alla focaccia genovese, dalla quale si distingue per un minor contenuto di olio d'oliva e l'aggiunta di strutto.
Con la deliberazione della Giunta Regionale del Piemonte del 15 aprile 2002 n. 46-5823 la focaccia novese è stata riconosciuta prodotto agroalimentare tradizionale del Piemonte in attuazione del D.lgs. n. 173/98, art. 8 e D.M. n. 350 dell'8 settembre 1999.

FOCACCIA VERDE
farina,
olio,
sale,
lievito,
bietole,
1 cipolla,
uova,
formaggio in grana.
Impastare la farina con olio di oliva, sale e lievito. Porre l'impasto in una teglia unta d'olio. Tritare le bietole a crudo e aggiungere olio, sale, uova, cipolla e formaggio. Il composto preparato con gli ingredienti sopra elencati si pone sulla pasta e si inforna. A cottura ultimata, aggiungere le olive.

PIZZOLO

150 g di farina per pizza
50 g di farina integrale
110 ml di acqua tiepida
2 cucchiaini di zucchero
1/3 di bustina di lievito disidratato
grana grattugiato
timo
olio extravergine d’oliva
Disponete le farine in una ciotola, e sulla spianatoia versate le farine al centro e aggiungete il lievito disidratato e lo zucchero. Versate l’acqua tiepida a poco a poco e impastate con le mani. Rimettete l’impasto ben lavorato nella ciotola dopo aver unto i bordi con un po’ d’olio. Lasciate a lievitare per almeno 3-4 ore, in un luogo caldo. Prendete una teglia da pizza e ungetela leggermente con olio. Stendete il vostro impasto omogeneamente, in modo che sia alto più o meno un centimetro. Infornatelo a 200° per almeno 15-20 minuti. Quando il pizzolo sarà cresciuto un po’ e si sarà un po’ colorato, uscitelo dal forno e fatelo raffreddare per 5-10 minuti. Con un coltello tagliate il pizzolo in due facendo molta attenzione a non romperlo. Farcitelo secondo il vostro gusto con salumi, carne, formaggi o verdure. Chiudete il pizzolo e bagnate la parte superiore con poco olio, mettendo anche il grana grattugiato e il timo. Rimettete in forno per circa 10 minuti, a 220°. Sfornate e gustate.
Se vi trovate dalle parti di Siracusa, in particolare a Sortino, non potete non assaggiare il pizzolo (pizzòlu). Si tratta di un prodotto tipico della cucina dell’isola: è una sorta di pizza tonda, farcita all’interno e condita con olio, origano, pepe, formaggio e sale. I ripieni sono i più disparati: spinaci, melanzane, peperoni, carne di ogni tipo, prosciutto crudo e scamorza. In alcuni casi, ai può anche optare per la doppia farcitura: il pizzolo, in questo caso viene condito in due modi diversi.Il nome deriva da una grossa pietra di forma ovoidale, che richiamerebbe la concezione greca della ciclicità della vita. Il pizzolo sarebbe legato alle focacce rituali diffuse in epoca greco-romana. Nel corso dei secoli si è affermato come tipico pane contadino, un piatto povero che veniva farcito con ciò che si aveva. La notorietà del pizzolo, però, arriva molto più avanti. Alcuni sortinesi emigrarono nel nord Europa in cerca di fortuna, aprendo delle pizzerie specializzandosi nella preparazione di pizze farcite. Al ritorno in Sicilia, negli anni Ottanta, continuano a preparare i pizzoli, che riscuotono un enorme successo. Il boom arriva negli anni Novanta.

SCACCIATA
Nella provincia di Catania, da una tradizione che risale alla fine del XVII secolo, deriva la scacciata, molto simile ad un calzone o ad una pizza a due strati, che prevedeva due differenti versioni originali: in città a base di caciocavallo e acciughe, nelle zone intorno a Catania con broccoli, cavolfiori, patate lesse e addirittura carne speziata (salsiccia o brasato).

SFINCIONE
La pizza siciliana più conosciuta è lo sfincione originario di Palermo e diffuso in molte zone dell'isola, ma accanto ad esso esistono diverse altre varietà di pizze. Le differenze nella preparazione della pizza in Sicilia sono legate alla cultura e alla tradizione locale che, in un'isola vasta come la Sicilia, hanno portato a ricette dalle caratteristiche a volte assai diverse tra loro. Con i fenomeni di emigrazione che hanno toccato la popolazione siciliana all'inizio del XX secolo, alcune ricette sono sbarcate anche in altre nazioni mantenendo in parte le loro caratteristiche originarie, così ad esempio nel New Jersey si indica col termine inglese sicilian pizza la versione italoamericana dello sfincione.
A Palermo è molto diffuso lo sfincione (in siciliano sfinciuni), una pizza al taglio venduta sia nelle rosticcerie che dagli ambulanti a base di pomodoro, cipolla, acciughe, pangrattato e caciocavallo.
Lo sfincione (sfinciuni o spinciuni in siciliano) è un prodotto tipico della gastronomia palermitana. È un prodotto tipico siciliano, come tale è stata ufficilamente inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (Mipaaf).
Al pari della sfincia di San Giuseppe, il nome si fa derivare dal latino spongia, "spugna" oppure dall'arabo isfan col quale si indica una frittella di pasta addolcita con il miele. Si tratta di una antica ricetta che vede come ingrediente cardine il pane pizza (morbido e lievitato, simile appunto ad una spugna) con sopra una salsa a base di pomodoro, cipolla, e pezzetti di formaggio tipico siciliano (chiamato caciocavallo ragusano). Lo sfincione si può gustare solo a Palermo e dintorni presso alcune pizzerie, gastronomie e panifici.
Il prodotto più originale viene però prodotto artigianalmente nei pressi di Porta Sant'Agata, e commercializzato da ambulanti che spaziano per le vie della città a bordo di motoveicoli a tre ruote (conosciuti meglio come "lapini") ed invitano ad assaporare il loro prodotto gridando a voce alta o attraverso un amplificatore.

STIRPADA 
Stirpada, scherpada o scarpazza, rotonda o quadrata, mignon o di normali dimensioni, ma sempre di torta di verdure si tratta.
Zona di produzione: comune di Calice al Cornoviglio, località Pegui (per la stirpada), comune di Ponzano, La Spezia (per la scherpada) comune Sarzana (per la scarpazza)
Stirpada
Preparazione: lavare le foglie di bietola e borragine e tritarle non troppo fini. Bollire la zucca gialla, tagliare il porro e farlo soffriggere insieme alla zucca e alle erbette. Mescolare il tutto con pecorino e parmigiano. Preparare quindi la classica sfoglia ligure con farina, acqua, olio e sale e tirarla molto sottile. Tagliare la sfoglia in piccoli quadrati, versarvi sopra l'impasto di erbe e ripiegare i bordi. Cuocere in forno caldo per 30 minuti circa.
Scherpada
Preparazione: si fanno bollire le erbe (1500 g) e zucca gialla (500 g) tagliata a pezzi; nel frattempo si soffriggono a parte con olio di oliva i porri (3) tagliati finemente e si ammorbidisce con acqua la mollica di pane (200 g). Una volta cotte, le verdure vengono macinate e quindi mescolate con i porri, la mollica del pane strizzata, il formaggio grattugiato (100 g formaggio pecorino e 100 g formaggio vaccino stagionato), l'olio di oliva (un bicchiere) e il sale quanto basta. Il tutto viene impastato sino ad ottenere un ripieno compatto che è disposto tra due dischi di sfoglia preparata con farina di grano, acqua e sale, e quindi cotta nei testi caldi dieci minuti per lato.
Scarpazza
Preparazione: per la sfoglia, predisporre 200 grammi di farina, due cucchiai d'olio, un bicchiere d'acqua e un pizzico di sale. Procedimento per il ripieno: tagliare i porri a rondelle e farli rosolare per cinque minuti; aggiungere le erbette (sia coltivate che spontanee) e salarle. Sbattere a parte le uova, unire i porri, le erbette, il parmigiano, il pecorino grattugiato e amalgamare il tutto. Versare l'impasto di verdure nella teglia foderata con la sfoglia, spianarlo e guarnire con striscioline di pasta come una crostata. Cuocere in forno per 40 minuti.
Lavare le foglie di bietola e borragine e tritarle non troppo fini. Bollire la zucca gialla, tagliare il porro e farlo soffriggere insieme alla zucca e alle erbette. Mescolare il tutto con pecorino e parmigiano. Preparare quindi la classica sfoglia ligure con farina, acqua, olio e sale e tirarla molto sottile. Tagliare la sfoglia in piccoli quadrati, versarvi sopra l'impasto di erbe e ripiegare i bordi. Cuocere in forno caldo per 30 minuti circa.
Si fanno bollire le erbe (1500 g) e zucca gialla (500 g) tagliata a pezzi; nel frattempo si soffriggono a parte con olio di oliva i porri (3) tagliati finemente e si ammorbidisce con acqua la mollica di pane (200 g). Una volta cotte, le verdure vengono macinate e quindi mescolate con i porri, la mollica del pane strizzata, il formaggio grattugiato (100 g formaggio pecorino e 100 g formaggio vaccino stagionato), l'olio di oliva (un bicchiere) e il sale quanto basta. Il tutto viene impastato sino ad ottenere un ripieno compatto che è disposto tra due dischi di sfoglia preparata con farina di grano, acqua e sale, e quindi cotta nei testi caldi dieci minuti per lato.
per la sfoglia, predisporre 200 grammi di farina, due cucchiai d'olio, un bicchiere d'acqua e un pizzico di sale. Procedimento per il ripieno: tagliare i porri a rondelle e farli rosolare per cinque minuti; aggiungere le erbette (sia coltivate che spontanee) e salarle. Sbattere a parte le uova, unire i porri, le erbette, il parmigiano, il pecorino grattugiato e amalgamare il tutto. Versare l'impasto di verdure nella teglia foderata con la sfoglia, spianarlo e guarnire con striscioline di pasta come una crostata. Cuocere in forno per 40 minuti.
Nel piccolo borgo di Pegui, frazione di Calice al Cornoviglio, era consuetudine preparare le stirpade in occasione del Natale. La rotonda scherpada è protagonista della sagra che dal 1975 si svolge ogni anno, l'ultima settimana di agosto, a Ponzano superiore, piccolo paese collinare del comune di Santo Stefano Magra. La scarpazza è invece di Sarzana, territorio in cui anche a livello culinario si incontrano ben tre regioni: Liguria, Emilia Romagna e Toscana. Queste torte di erbetti, hanno comunque un denominatore comune: il ripieno è costituito da una miscellanea di verzure, coltivate e spontanee, un riferimento preciso al preboggion genovese espressione della cucina povera dell'entroterra ligure.

STRAZZATA
La Strazzata è un tipo di focaccia caratteristico della Basilicata, originario della zona di Avigliano. Il nome è una forma italianizzata di strazzat, che in dialetto locale significa "stracciata" o "strappata", il che rimanda all'uso di staccarne i pezzi "strappando" la focaccia con le mani, anziché con l'uso del coltello. Gli ingredienti base sono acqua, lievito, farina, pepe nero macinato e origano (un'altra varietà prevede anche l'aggiunta di strutto e piccoli pezzi di lardo). Come da tradizione, questo alimento era utilizzato nei matrimoni e nelle feste in genere, per accompagnare il vino.
Preparazione
La strazzata, tramite lavorazione a mano, si ottiene sciogliendo il lievito nell’acqua tiepida e mescolandolo con la farina si crea un impasto morbido e compatto. La farina deve provenire da una molitura non troppo fine, cioè deve contenere una parte di crusca che dà una colorazione alla strazzata leggermente più scura del pane. All’interno dell'impasto viene aggiunto il pepe nero, dopo essere stato rigorosamente macinato, e il lardo (secondo un'altra variante della ricetta). L’impasto finale viene fatto riposare fino ad una completa lievitazione naturale e dopo aver effettuato un buco al centro viene cotto nel forno a legna. La strazzata viene farcita, generalmente, con provolone e prosciutto crudo, ma anche con frittata e peperoni.
Manifestazioni
L'alimento è il protagonista dell'omonima Sagra della Strazzata, organizzata dall'associazione culturale "Il Cigno" e che si tiene annualmente nel periodo di agosto a Stagliuozzo, frazione aviglianese di circa 250 abitanti, a un paio di km dal castello federiciano di Lagopesole. Altri prodotti offerti dalla manifestazione sono il vino Aglianico del Vulture DOC e i formaggi di Filiano.

mercoledì 15 maggio 2024

Corso di Tecniche dell'alimentazione: Lezione 1 ESSERE CONSAPEVOLI DI CIO' CHE COMPRIAMO

COLORANTI ALIMENTARI
Colorante alimentare è un qualsiasi composto chimico (organico oppure inorganico) che possa essere usato per modificare il colore di un prodotto alimentare e pertanto è classificabile come un additivo alimentare.
Alcuni coloranti sono sostanze naturali, altri sono sostanze naturali concentrate o modificate chimicamente, altri sono imitazioni di sintesi di sostanze naturali, altri sono totalmente artificiali e sono generalmente indicati con la sigla E100-E199, vedi la voce additivi alimentari.
Il colore dei cibi deriva dall'assorbimento delle diverse lunghezze d'onda luminose da parte di una o più sostanze coloranti naturali o artificiali, e la successiva riflessione o trasmissione di quelle lunghezze d'onda corrispondenti al colore che riusciamo a percepire in modo soggettivo (dal momento che la percezione del colore varia da persona a persona).
Coloranti naturali alimentari
Arancione: viene dato da vari tipi di carotene (dalla carota), utilizzati per esempio nel formaggio Cheddar.
Bianco: caratteristico del lardo animale (traslucida rifrangenza e riflessione di tutti colori), il colorito giallastro che può prendere è dovuto alla alta solubilità di coloranti come i caroteni, presenti nell'alimentazione dell'animale.
Giallo: nel giallo d'uovo viene dato da colesterolo e fosfolipidi.
Nero: nel ribes nigrum, il colore nero è dato soprattutto dal pigmento antociano.
Rosso: nel sangue è caratteristico dell'emoglobina, che possiede molti gruppi insaturi nel tetra-pirrolo, molecola portante della protoporfirina-eme, il sangue, imbibendole, dà colore anche alle carni.
Rosso: nella frutta (particolarmente nell'uva da vino rosso) è spesso associato a flavonoidi (come il resveratrolo, che si sono rivelati dei potenti antiossidanti utili contro l'arteriosclerosi).
Rosso pomodoro: il colore acceso dei pomodori più maturi, è dovuto al licopene (sostanza naturale con proprietà antiossidanti).
Verde: più spesso deriva dalla clorofilla, che può colorare anche l'olio extravergine.


ADDITIVI ALIMENTARI

Nella definizione fornita dalla Direttiva del Consiglio 89/107/CEE, per additivo alimentare si intende "qualsiasi sostanza normalmente non consumata come alimento in quanto tale e non utilizzata come ingrediente tipico degli alimenti, indipendentemente dal fatto di avere un valore nutritivo, che aggiunta intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico nelle fasi di produzione, trasformazione, preparazione, trattamento, imballaggio, trasporto o immagazzinamento degli alimenti, si possa ragionevolmente presumere che diventi, essa stessa o i suoi derivati, un componente di tali alimenti, direttamente o indirettamente".
Il Regolamento (CE) n. 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, definisce inoltre le diverse tipologie, i quantitativi, l’ambito di applicazione e quant’altro serva a regolamentare con precisione l’utilizzo degli additivi alimentari, perché essi non costituiscano problemi per la sicurezza dei consumatori.

Come si riconoscono in etichetta?

Solo gli additivi autorizzati a livello europeo appaiono in etichetta attraverso una sigla numerica che inizia sempre con la “E” seguita, poi, da un numero costituito da tre cifre.
Nello specifico, vengono così numerati in base alla loro tipologia:
Coloranti (da E100 ad E199)
Conservanti (da E200 ad E299) il loro fine è quello di rallentare il deterioramento del cibo causato da: batteri, lieviti e muffe.
Antiossidanti (da E300 ad E322) evitano il processo di ossidazione nell'alimento.
Correttori di acidità (da E325 ad E385)
Addensanti, emulsionanti stabilizzanti (da E400 ad E495)
Aromatizzanti, donano agli alimenti specifici odori e sapori. La legge italiana prevede la loro indicazione in etichetta in modo generico come aromi.
Additivo impiegato in ambito alimentare
Un additivo, per essere impiegato nel settore alimentare, deve essere ammesso e inserito nell’elenco delle sostanze approvate dal Comitato Scientifico dell’Unione Europea. La possibilità di entrare nella suddetta lista è vincolata da diversi elementi: superamento della valutazione di sicurezza, prove tossicologiche, osservazione di test condotti su animali e poi su uomini. In laboratorio, sulle cavie, sono condotti test su più generazioni, dunque devono trascorrere lunghi periodi prima che una sostanza possa essere dichiarata sicura.
Additivo incluso negli elenchi della UE
Un additivo, per essere incluso nel settore alimentare deve soddisfare le condizioni di seguito riportate:
• fattori ambientali: in base ai dati scientifici disponibili sul prodotto in oggetto, il tipo d’impiego proposto non evidenza problemi di sicurezza per la salute umana;
• il suo impiego è da considerarsi una necessità tecnica;
• il suo impiego non inganna in alcun modo i consumatori.
Un additivo alimentare deve inoltre presentare vantaggi e benefici per i consumatori e dunque sarà incluso negli elenchi comunitari solo se contribuisce al raggiungimento di uno o più dei seguenti obiettivi:
• la qualità nutrizionale degli alimenti deve essere conservata;
• aumentare la capacità di conservazione di un alimento;
• aumentare la stabilità di un alimento e/o migliorarne le proprietà organolettiche, senza però alterarne la natura.
Un additivo alimentare può eventualmente ridurre la qualità nutrizionale di un alimento ed essere incluso nell’elenco comunitario solo se:
• l’alimento non rappresenta un componente importante di una dieta normale;
• l’additivo alimentare è necessario per produrre alimenti “speciali” destinati a diete particolari.
Cosa per legge è da non considerarsi additivo alimentare
• monosaccaridi, disaccaridi od oligosaccaridi e tutti gli alimenti contenenti queste
sostanze impiegate per le proprietà dolcificanti;
• gli alimenti, essiccati e concentrati, introdotti durante la fabbricazione di alimenti che
abbiano poi un effetto colorante secondario;
• le sostanze utilizzate per i materiali di copertura o di rivestimento, che non fanno parte
degli alimenti e non sono consumati con i medesimi;
• i prodotti che contengono pectina derivati dalla polpa di mela essiccata o anche dalla
scorza di agrumi o cotogni, (“pectina liquida”);
• le basi utilizzate per la gomma da masticare;
• la destrina bianca o gialla;
• l’amido arrostito o destrinizzato;
• l’amido modificato mediante trattamento acido o alcalino;
• l’amido bianchito;
• l’amido trattato con enzimi amilolitici;
• il cloruro d’ammonio;
• il plasma sanguigno;
• la gelatina alimentare;
• le proteine idrolizzate e i loro Sali;
• le proteine del latte;
• il glutine;
• gli amminoacidi e i loro sali diversi dall’acido glutammico (glicina, cisteina, cistina e i loro sali);
• i caseinati e la caseina;
• l’inulina.
Soglia massima di consumo
A seguito dei test effettuati e dei loro risultati, l’Unione Europea definisce la soglia massima di consumo di un additivo alimentare; si tratta della quantità che il corpo umano può assumere senza che si evidenzino effetti collaterali e di sorta, soprattutto senza avere problemi a livello tossicologico evidenti e dimostrabili. È stata definita “livello effetto zero”.
Dose giornaliera ammissibile
La Dga ovvero la dose giornaliera ammissibile è la quantità di un additivo che l’essere umano può introdurre ogni giorno attraverso la dieta alimentare senza avere nessun rischio per tutto l’arco della vita; essa è più bassa del “livello effetto zero”.
Si tratta di un calcolo basato su un margine di sicurezza molto ampio, per tutelare la salute del consumatore, dunque ha carattere ovviamente preventivo, considerando le differenze possibili tra i dati provenienti dai test condotti sugli animali e quelli condotti su uomini e anche le possibili differenze tra uomo e uomo.
I coloranti
La categoria funzionale dei coloranti è parte dell’elenco comunitario degli additivi alimentari.
L’uso dei coloranti rossi, in particolare, è stato più di altri oggetto di verifiche da parte dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) a seguito di uno studio condotto dall’università di Southampton in Gran Bretagna dal quale emergeva che sei coloranti - E104, E110, E124, E102, E122, E129 - potevano favorire l’iperattività nei bambini. Il risultati di tali verifiche è che le dosi di alcuni coloranti sono state ufficialmente ridotte per il loro utilizzo in ambito alimentare.
L’importanza di monitorare costantemente l’utilizzo dei coloranti rossi deriva dal fatto che si tratta di additivi presenti in moltissimi cibi e bevande, tra i quali i prodotti a base di frutta, gelatine, caramelle e dolciumi vari, molto graditi dai bambini.
Tra i coloranti anche i coloranti caramello sono sotto la lente attenta dell’Efsa: si tratta di quattro miscele di sostanze derivanti da zuccheri trattati termicamente, da qui il tipico colore “marrone” con varie sfumature. In etichetta, i coloranti caramello sono indicati con la sigla E150 seguita da lettere minuscole (a, b, c, d), ogni lettera sta ad indicare il tipo differente di reagente impiegato durante la loro produzione, ad esempio ammoniaca, solfiti ecc.
Si usano moltissimo in ambito alimentare poiché donano le sfumature marroni più o meno intense richieste in alcune bevande aromatiche (chinotti ad esempio, ma anche cole) analcoliche, per diverse tipologie di prodotti dolciari, zuppe, condimenti come aceti
balsamici, birra ecc.
Si tratta di prodotti che, secondo l’opinione degli esperti scientifici dell’Efsa, non causano modificazioni nella struttura del Dna delle cellule, ma è stata stabilita una dose minima giornaliera accettabile che è di 300 mg per kg di peso, di cui possono provenire dal caramello E150c al massimo 100 mg. È utile sapere che il superamento di tali limiti può verificarsi facilmente, con un consumo elevato e quotidiano di caramelle, dolci, bevande zuccherate, soft drink ecc.
Coadiuvante tecnologico
Qualsiasi sostanza che non è consumata come un alimento in sé, che è stata intenzionalmente utilizzata nella trasformazione di materie prime e che può causare la presenza, anche non intenzionale, di residui della suddetta sostanza: tali residui non devono assolutamente rappresentare un rischio per la salute e non devono avere effetti tecnologici sul prodotto al termine della sua produzione.
Principali definizioni in etichetta
alimento senza zuccheri aggiunti.
Si applica su quegli alimenti che nella loro composizione non hanno alcuna aggiunta di monosaccaridi o disaccaridi;
alimento a ridotto contenuto calorico.
Alimento con contenuto calorico ridotto di almeno il 30 % rispetto all’alimento analogo o originario.
edulcoranti da tavola.
Ci si riferisce alle preparazioni di edulcoranti autorizzati, i quali possono contenere altri additivi e/o ingredienti alimentari, sono destinati a alla vendita come sostituto degli zuccheri.
quantum satis.
Non è specificata una quantità numerica massima, le sostanze sono utilizzate conformemente alle buone pratiche di fabbricazione.
edulcoranti.
Sostanze che danno un sapore dolce agli alimenti
coloranti.
Sostanze che danno un colore a un alimento o ne restituiscono la colorazione originaria, in essi vi sono componenti naturali degli alimenti normalmente non consumati. Sono coloranti tutte quelle preparazioni ricavate da alimenti e materiali commestibili di origine  naturale ottenuti attraverso procedimento fisico e/o chimico che permetta l’estrazione selettiva dei pigmenti.
conservanti.
Sostanze utilizzate per prolungare la durata di conservazione degli alimenti proteggendoli dal deterioramento provocato da microorganismi e/o dalla proliferazione di microrganismi patogeni.
antiossidanti.
Anch’essi, come i conservanti, prolungano la durata di conservazione degli alimenti evitando il deterioramento provocato dall’ossidazione; un esempio di ossidazione è l’irrancidimento dei grassi.
supporti.
Si tratta di sostanze impiegate per sciogliere, diluire, disperdere, modificare fisicamente un additivo alimentare oppure un aroma, un enzima alimentare o, ancora, un nutriente aggiunti agli alimenti. Essi non ne alterano la funzione (e ovviamente non hanno effetto tecnologico). Tutto ciò serve per rendere più facile la manipolazione del prodotto alimentare.
acidificanti.
La loro peculiarità è quella di aumentare l’acidità di un prodotto alimentare e al contempo aumentano il sapore aspro.
regolatori dell’acidità.
Sostanze in grado di modificare e controllare l’acidità o l’alcalinità di un alimento.
antiagglomeranti.
Riducono la tendenza delle particelle di un prodotto alimentare ad agglomerarsi l’una all’altra.
agenti antischiumogeni.
La loro funzione è quella di impedire o comunque ridurre la formazione di schiuma.
agenti schiumogeni.
Permettono la dispersione omogenea di una fase gassosa in un liquido o solido alimentare.
agenti di carica.
Sostanze che contribuiscono ad aumentare il volume di un prodotto alimentare senza contribuire in modo significativo al suo valore energetico disponibile.
emulsionanti.
Permettono la formazione e il mantenimento di una miscela omogenea di sostanze normalmente non miscibili tra loro come ad esempio olio e acqua.
sali di fusione.
Sostanze la cui finalità è quella di disperdere le proteine del formaggio permettendo in questo modo la distribuzione omogenea dei lipidi e degli altri componenti. Molto usati nei formaggi fusi come le sottilette.
agenti di resistenza.
Sostanze che mantengono croccanti i tessuti dei frutti o della verdura in generale, permettono ad un gel di rimanere tale.
esaltatori di sapidità.
Esaltano il sapore e la fragranza di un prodotto alimentare, ad
esempio il glutammato monopodico.
agenti gelificanti.
Conferiscono consistenza ad un prodotto alimentare grazie alla
formazione di un gel.
agenti di rivestimento (inclusi gli agenti lubrificanti).
Sostanze che, quando vengono applicate alla superficie esterna di un prodotto alimentare, gli conferiscono un aspetto brillante o forniscono un rivestimento protettivo.
agenti umidificanti.
Impediscono l’essiccazione degli alimenti.
amidi modificati.
Si ottengono attraverso uno o più trattamenti chimici di amidi
alimentari.
gas d’imballaggio.
Gas differenti dall’aria introdotti in un contenitore prima, durante o dopo aver introdotto in tale contenitore un prodotto alimentare.
agenti lievitanti.
Sostanze che liberano gas aumentando il volume di un impasto o pastella.
agenti sequestranti.
Formano complessi chimici con ioni metallici.
stabilizzanti.
Rendono possibile il mantenimento dello stato fisico-chimico di un prodotto alimentare.
addensanti.
Aumentano la viscosità di un prodotto alimentare

PACKAGING

Ogni qualvolta si esce da un supermercato o da una rivendita di alimentari dopo una spesa si riportano a casa, oltre al cibo e ad acquisti di altra natura, anche i diversi imballaggi necessari al trasporto. Ma davvero tutti gli imballaggi sono necessari? E in quale misura? Come sono cambiati nel tempo, quali sono i materiali con i quali vengono confezionati e qual è il loro impatto ambientale?
Si risponderà qui a queste e ad altre domande legate a quello che oggi viene tecnicamente chiamato packaging, parola di origine anglosassone che si riferisce non solo alla parte materiale dell’imballaggio ma anche a tutto ciò che concerne agli aspetti produttivi, estetici e di marketing.
Gli imballaggi sono nati insieme alla pratica del trasporto, nella necessità di proteggere merce delicata o deperibile, alimentare e non, durante uno spostamento più o meno lungo in cui sollecitazioni varie, eventuali urti o cambi di temperatura potessero in qualche modo deteriorala, romperla e compromettere quindi poi la vendita.
Già nell’antica Roma, si usavano anfore in cotto, un materiale perfetto e igienico che permetteva il trasporto nella vasta area del Mediterraneo di alimenti molto delicati e deperibili quali ad esempio olio, frumento e vino. Prima di allora, la stessa natura aveva suggerito la necessità di una protezione all’interno di contenitori speciali: il guscio delle uova, il riccio delle castagne, la dura corazza del cocco, la spinosa protezione del fico d’india, la resistente conchiglia di cozze o di vongole, il guscio delle noci o delle mandorle, o il caldo marsupio con cui i canguri ospitano i propri cuccioli sono tutte forme “naturali” di imballaggio.
Ci sono poi voluti diversi secoli perché le scoperte dell’uomo ispirassero via via nuove tipologie di imballaggio, dalla semplice carta, al cartone, al legno, alla plastica, al polistirolo, ai fogli di alluminio ecc.
Imballaggi: definizione e legge
Per imballaggio si intende un prodotto che può essere costituito da materiali di natura diversa che ha lo scopo di contenere e proteggere le merci, le materie prime o i prodotti finiti in modo da consentirne la manipolazione e la diretta consegna al consumatore finale. A tal fine l’imballaggio dovrà essere sicuro, pratico, economico, facilmente riciclabile.
Sugli imballaggi esistono leggi e norme alle quali i produttori si devono attenere, in particolare l’ex decreto legislativo Ronchi 22/1997(art. 35, lett. a), ora art. 218 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 recante Norme in materia ambientale, in base al quale vi è stata la
precisazione di tre tipologie di packaging indipendentemente dal materiale di cui possono essere fatti.
L’imballaggio primario: si riferisce all’imballaggio della singola unità di vendita; la bottiglia di acqua, la scatola di acciughe, il flacone dell’ammorbidente, di shampoo, ecc. In sintesi, si tratta di un imballaggio destinato in modo diretto al consumatore finale.
L’imballaggio secondario: è la confezione che include un certo numero di unità di vendita. Una volta eliminato, rivelerà comunque l’imballaggio primario. Sono esempi di imballaggio secondario: il film che avvolge la confezione da 6 bottiglie di acqua, la confezione in cartoncino che avvolge le 3 scatolette di tonno, la confezione che contiene le merendine, il cartoncino che chiude le due lattine di birra ecc. In questo caso si tratta di una tipologia di imballaggio da destinarsi o al consumatore finale oppure al rivenditore.
L’imballaggio terziario: è quello che consente il trasporto di un grosso numero di unità di vendita, ad esempio il bancale o il “pallet” sul quale si impilano le confezioni di acqua, o le grandi cassette di plastica che contengono le mele sfuse. Questo genere di imballaggio non è quasi mai reso disponibile al consumatore finale poiché canalizzato solo verso l’esterno della catena di distribuzione, restando nello stoccaggio.
Materiali maggiormente usati per gli imballaggi
Cartone
Si tratta di un materiale cartaceo le cui peculiarità sono rappresentate sia dallo spessore che dalla pesantezza, normalmente formato da uno strato ondulato centrale e da due fogli piani laterali.
Prodotto inizialmente in Cina nel XV secolo, fu poi solo nel 1817 utilizzato in Europa e più specificatamente in Inghilterra per produrre le prime scatole di cartone ad uso commerciale.
Il confine e la differenza tra la carta e il cartone è per convenzione posta a 224 g/m² con uno spessore di almeno 175 mm; dal punto di vista delle proprietà meccaniche e ottiche del cartone sono racchiuse nello standard ISO 5651:1989. Esistono varie tipologie di cartone:
• Cartone piano o cartoncino
• Cartone ad onda semplice (due fogli esterni ed uno ondulato interno).
• Cartone ad onda doppia (tre fogli, di cui due esterni ed uno centrale e tra questi due fogli ondulati).
I fogli esterni possono essere composti da diverse carte:
• Kraftliner (simbolo K)
• Liner (simbolo L)
• Test (simbolo T)
• Camoscio (simbolo S)
Il foglio ondulato interno, invece, può essere:
• Semichimica (simbolo S)
• Medium (simbolo M)
• Fluting (simbolo F)
È utile sapere che per produrre una tonnellata di carta c’è bisogno di circa 15 alberi con un consumo di acqua pari a 440.000 litri, mentre per produrre la stessa quantità di carta riciclata non serve nessun albero e si consumano meno di 1900 litri di acqua. Ecco quindi che indirizzare gli acquisti verso imballaggi riciclati è un segno di sensibilizzazione nei riguardi dell’ambiente e una scelta consapevole ed etica.
Tetra Pak; un imballaggio rivoluzionario
Il Tetra Pak è un materiale molto usato come imballaggio primario per prodotti come succhi di frutta, latte pastorizzato fresco, ecc.
La sua invenzione è attribuita allo svedese Ruben Rausing. Nato nel 1895 a Helsingborg, egli si laureò in Economia e poi si trasferì negli Stati Uniti dove studiò alla Columbia University e qui convogliò i suoi interessi per un settore all’epoca pioneristico come quello degli imballaggi. Appreso quanto c’era da sapere al riguardo, fece ritorno in Svezia e lì, insieme ad un amico, fondò l’Akelund & Rausing, una ditta specializzata in imballaggi.
La sua idea era che l’imballaggio dovesse proteggere il contenuto e nello stesso tempo essere leggero, economico e rendere facile il trasporto. All’epoca il latte, uno degli alimenti più largamente diffusi e consumati al mondo, veniva unicamente trasportato all’interno di bottiglie di vetro, materiale sì igienico ma fragile, per di più pesante e non impilabile. Ecco quindi che Rausing, nel 1943, ideò un contenitore rivoluzionario: una carta speciale per contenere il latte, capace di ostacolare la sua dispersione e atta a proteggerlo dall’aria, naturale apportatrice di potenziali e pericolosi batteri, grazie anche alla presenza, all’interno, di un sottile strato di particolare plastica. In seguito, un collaboratore di Rausing propose una strana forma di imballaggio, a metà tra una piramide e un tetraedro, maneggevole, pratica e sicura dal punto di vista igienico, costituita da un materiale asettico e poco costoso.
Nel 1944 fu depositato il brevetto di Tetra Classic e nel 1950 fu fondata l’AB Tetra Pak, prima azienda al mondo per la produzione del Tetra Pak, un materiale destinato all’industria alimentare ed utilizzato, oltre che per il latte, anche per succhi di frutta, passate di verdure, tuorli di uovo pastorizzati, vino ecc. L’azienda è ancora oggi leader assoluto del settore, con più di 20.000 persone impiegate, oltre 100 miliardi di contenitori prodotti ogni anno e quasi 80 uffici commerciali disseminati sul globo.
Il contenitore Tetra Pak è costituito:
75% di carta, 20% da polietilene, 5% da alluminio.
Plastica
In commercio esistono moltissimi tipi di plastica utilizzati per contenere cibi e bevande; tra gli ultimi contenitori ad essere stati prodotti e commercializzati, quelli adatti ad essere introdotti nei forni a microonde.
Per riconoscere questi ultimi, viene utilizzato il seguente simbolo:
Costituito da tre onde stilizzate, geometricamente sovrapposte le une sulle altre; il simbolo sta quindi ad indicare che il contenitore è adatto all'uso nel forno a microonde, aggiungendovi anche alcune specifiche quali:
• NO LID = senza coperchio
• 400W = la potenza massima che si può programmare sul forno per quel tipo di contenitore.
 Tornando alla plastica è bene sapere che moltissimi contenitori prodotti con tale materiale sono riciclabili. Per verificarlo, bisogna sapere leggere i diversi simboli che vi vengono riportati: la sigla PET indica per l'appunto che si tratta da materiali riciclabili e che dunque possono essere buttati nei cassonetti riservati alla plastica. Dove invece non bisogna buttare, ad esempio, le stoviglie in plastica usa e getta, specialmente se sporche.
Di seguito si riporta uno schema dei simboli riportati sui diversi imballaggi dei prodotti disponibili sul mercato, per comprendere come riconoscere i materiali e regolarsi nella raccolta differenziata. Si tratta di simbologie denominate universalmente come International Universal Recycling Codes (Codici universali internazionali di riciclaggio).

LEGGERE LE ETICHETTE

Siamo al supermercato e con la lista della spesa in mano, decidiamo di ripristinare la nostra dispensa, intanto il carrello della spesa si riempie di svariate confezioni diverse per forma, grandezza e colore. Conosciamo esattamente ciò che stiamo acquistando, la sua composizione, l'origine ...in buona sostanza, leggiamo l'etichetta?
La risposta è molto spesso no! Leggere l'etichetta è uno strumento che il consumatore può utilizzare per conoscere tutto ciò che è contenuto in quel determinato prodotto, dunque la lista degli ingredienti, la tabella nutrizionale, i termini di scadenza, le modalità di conservazione e la provenienza del prodotto. Il suo scopo è quello di tutelare e informare l'acquirente in modo corretto e il più possibile trasparente; dal 1982 per legge l'etichetta deve riportare l'elenco degli ingredienti con nome specifico leggibile. Il governo ha poi emanato il D lgs 27/01/92 n. 109 che è il testo vigente secondo il quale devono essere riportate le seguenti indicazioni:
· Nome del prodotto
· Elenco degli ingredienti
· Quantitativo (peso netto/peso sgocciolato)
· Termini di scadenza
· Azienda produttrice
· Lotto di appartenenza
· Modalità di conservazione e eventualmente utilizzo
Al contempo un'etichetta non deve mai indurre in errore sulle caratteristiche del prodotto, sulla sua natura, origine, qualità, ecc. A questo proposito è bene considerare l'aspetto legato alle immagini utilizzate per completare la confezione e la pubblicità del prodotto venduto. Si tratta di "libere immagini", cioè di contorni "pittorici" scelti dall'azienda per richiamare l'attenzione del consumatore. E' comunque specificato in dicitura accanto alla foto che si tratta, appunto, di un'immagine che richiama il prodotto in questione, con il solo scopo di proporcelo esteticamente più interessante.
Per quanto concerne gli ingredienti, l'ordine in cui appaiono in etichetta non è assolutamente casuale ma è decrescente in relazione al peso, quindi il primo è quello quantitativamente più rappresentato e via via seguiranno gli altri. Per fare un esempio pratico: su una confezione di biscotti al miele gli ingredienti sono: farina di grano tenero, uova, miele, zucchero ovviamente sarà quantitativamente più presente il miele che lo zucchero.
Il consiglio è dunque quello di leggere molto attentamente l'etichetta e dunque tutti gli ingredienti in essa contenuti, è particolarmente importante per chi presenta problemi allergici, poiché potrà ponderare la sua scelta e conseguentemente il suo acquisto.
Il termine peso sgocciolato indica che: l'alimento solido è immerso in un liquido, quindi deve esserne indicata la quantità peso sgocciolato oltre al peso netto.
Per quanto concerne la scadenza è bene fare subito molta chiarezza. La data di scadenza è un elemento fondamentale per organizzare e controllare la nostra dispensa. Un piccolo aiuto:
· da consumarsi preferibilmente entro…; fino a quella data il prodotto garantisce le sue proprietà, ma può essere consumato anche per un breve periodo successivo alla data indicata: ad esempio per la pasta o il riso si applica questa dicitura;
· da consumarsi entro: va consumato assolutamente entro quella data e non oltre. Ad esempio per il latte, lo yogurt, i formaggi freschi.
La data può apparire:
gg/mese = per prodotti che si conservano per meno di tre mesi. Esempio latte, mozzarelle, yogurt
· mese/anno = per prodotti che si conservano per più di tre mesi ma per meno di 18 mesi. Esempio pasta all'uovo, biscotti, merendine, maionese.
· Anno = per prodotti che si conservano per almeno 18 mesi. Esempio pelati in scatola, piselli e tonno in scatola, olive in salamoia.
Se leggete un'etichetta che riporta la dicitura "gnocchi di patate"; le patate sono, effettivamente, l'ingrediente principale, mentre se la scritta riporta "gnocchi con patate": è molto probabile che al primo posto troverete farina di grano tenero, e poi le patate.
Ultimamente si dà sempre maggiore importanza alla tracciabilità e alla sicurezza alimentare ad esempio nel settore ortofrutticolo è entrata in vigore a partire dal 15/02/2003 un decreto legislativo (Dlgs/306/02) che dispone l'applicazione di una carta d'identità da applicare alla frutta e alla verdura. Si tratta di cartellini da esporre sulla merce in vendita i quali devono riportare: natura del prodotto, sua origine, varietà, categoria ecc.
Altro elemento interessante è il codice a barre (composto da un insieme di barre, lineette nere) attraverso il quale si risale alla provenienza nazionale ecco alcuni esempi: 80 Italia, 30 Francia, 57 Danimarca, 73 Svezia, 400 Germania, 76 Svizzera, 45/49 Giappone, 87 Olanda, 90 Norvegia.
Ogni confezione è fabbricata utilizzando uno specifico materiale vediamo qualche esempio: CA = cartone, AL = alluminio, PVC = polivinilcloruro, ACC = banda stagnata.
Tutte queste indicazioni sono utili per poter smaltire e differenziare correttamente i rifiuti.
Essere informati attraverso la lettura delle etichette ci permette di conoscere meglio gli alimenti che consumiamo e acquisire una maggiore consapevolezza sulla loro provenienza e tracciabilità.


CALENDARIO STAGIONALE VERDURE