mercoledì 15 maggio 2024

Corso di materie prime tipiche del beverage: Lezione 1 Vini liguri piemontesi valdostani

 

VINI LIGURI 1

VINI LIGURI 2




ALBA



L'Alba è un vino a DOC prodotto nelle Langhe cuneesi.
 Sono previste le tipologie "Alba" e "Alba riserva", entrambe prodotte con une Nebbiolo almeno al 70% e Barbera almeno al 15%, con un massimo del 5% di altre uve piemontesi. Il disciplinare è stato approvato con DM il 30 novembre 2011.

ALTA LANGA

 

La zona di produzione delle uve dei vini appartenenti alla denominazione Alta Langa Doc è costituita dai terreni collinari situati nei territori di 142 comuni, nelle province di Cuneo, Asti ed Alessandria, alla destra del fiume Tanaro. Vitigni sono Pinot Nero e/o Chardonnay 90-100%; per l’eventuale restante percentuale possono concorrere le uve di altri vitigni non aromatici, autorizzati nella zona. L’Alta Langa Docg è un vino spumante metodo classico prodotto nelle tipologie: Bianco e Rosato. La gradazione minima deve essere di 11,5 gradi. All’esame visivo l’Alta Langa spumante bianco si presenta brillante, con spuma fine e persistente e colore giallo paglierino più o meno intenso; l’odore è netto, fruttato e complesso, con sentori che ricordano il lievito, la crosta di pane e la vaniglia; il sapore è secco, sapido e strutturato. Lo spumante rosato si presenta brillante, con spuma fine e persistente e colore rosa più o meno intenso; l’odore è netto, fruttato e complesso con sentori che ricordano il lievito, la crosta di pane e la vaniglia; il sapore è secco, sapido e ben strutturato. E' un vino da degustare alla temperatura di 6-8°C. Ottimo come aperitivo si abbina facilmente con pesci e carni bianche ma anche con antipasti e primi leggeri.

ARNEIS


Roero Arneis D.O.C.G. - D.M. 23 marzo 2006. Sulle arenarie siccitose del Roero, terreni soffici e permeabili dove gli strati sabbiosi sono inframmezzati da sottili strati di marne, l'Arneis acquista profumi sottili ed eleganti che richiamano i fiori bianchi e suggestioni di frutta fresca che vanno dalla mela alla pesca alla nocciola. Brillante nel suo giallo paglierino che scarica vivaci riflessi verdognoli, si propone secco e delicatamente acidulo al palato, con una gradevole persistenza di retrogusto amarognolo. Deriva dalla vinificazione di uve Arneis in purezza e la gradazione alcolica minima complessiva è di 11 gradi.
Accanto alla tradizionale vinificazione esiste la possibilità di produrre il Roero Arneis Spumante: in questo caso abbinato ad una spuma persistente emergono sentori di lievito, di crosta di pane e di vaniglia. Questo vino bianco che nasce dalle uve di un vitigno antico e spesso ricordato con il nome latino "Renexium" nelle zone viticole del Piemonte, è stato protagonista negli ultimi trent'anni di un singolare caso di rinascimento vitivinicolo nel Roero, la zona collinare alla sinistra del fiume Tanaro. Citato a partire dalla fine del '400 in vari documenti che si riferiscono a questo territorio, oggetto di esperimenti di vinificazione come vermout verso la fine del '700, fino all'800 era considerato uno dei vitigni più validi e radicati nella mentalità produttiva, tanto che il suo vino era citato espressamente negli inventari contabili come "bianco Arnesi" mentre il resto andava sotto la voce di "bianco di uve diverse".
Secondo l'usanza del tempo era prodotto probabilmente come vino dolce, ma le sue scorte nelle cantine equivalevano, quando non le superavano, a quelle del Nebbiolo.
Ancora agli inizi del '900 era talvolta definito come Nebbiolo bianco e la sua immagine era già legata esclusivamente al Roero.
Poi fu fatalmente colpito dalla crisi della viticoltura e dallo spopolamento delle campagne a cavallo delle due guerre mondiali, al punto che alla fine degli anni sessanta era ridotto a pochi ettari di impianto, filari sparsi qua e là tra quelli di Nebbiolo, soprattutto a contorno dei vigneti per tenere lontani gli uccelli dalle uve nere, più remunerative, con acini dolcissimi e di precoce maturazione.
E' stata intuizione imprenditoriale di alcuni produttori vitivinicoli che hanno voluto imporre un bianco di valore in una terra che sembrava destinata solo ai vini rossi, a ridare visibilità e prestigio al vino e al suo territorio d'elezione: il Roero.
Cavalcando l'onda dei vini bianchi richiesti dal mercato negli ultimi decenni è diventato in poco tempo il bianco piemontese più di moda, dando fiato agli impianti ed alla produzione. Ama la cucina semplice ed elegante, il pesce naturalmente, soprattutto quello di lago e di fiume, le carni bianche, le verdure, i primi delicati di pasta e di riso. Nella versione passita, che profuma deliziosamente di miele e di frutta secca, accompagna i dolci più sontuosi con sicura personalità.
Nel 1994 viene costituito l'attuale Consorzio di Tutela Barolo, Barbaresco, Alba Langhe e Roero, punto di riferimento per le aziende vitivinicole del territorio tra Langa e Roero, che hanno individuato in questa struttura lo strumento più idoneo per affrontare insieme ed in modo autorevole i problemi di sviluppo e di organizzazione della propria realtà e del settore nel suo complesso.
Caratteristiche organolettiche
colore: paglierino più o meno intenso, con riflessi leggermente ambrati.
odore: delicato, fresco ed erbaceo o legnoso.
sapore: asciutto, gradevolmente amarognolo, erbaceo e tannico (aspro)

ASTI

Denominazione di Origine Controllata e Garantita dal 1993 l’Asti è un vino di color giallo paglierino caratterizzato da un'intensa componente aromatica che ricalca il profumo dei grappoli maturi dell'uva moscato, accompagnata da un basso tenore alcolico e da un'armoniosa dolcezza. Deriva dalla vinificazione in purezza del vitigno moscato bianco e si presenta nelle due tipologie Asti Spumante" e Moscato d'Asti. Il primo è un vino spumante caratterizzato da un perlage fine e persistente, una gradazione compresa tra 7 e 9,5 gradi, mentre il secondo, fermo o talvolta vivace con un tenore alcolico inferiore, compreso nei limiti di 4,5 - 6,5 gradi, presenta una maggior dolcezza, dovuta ad una parziale fermentazione dello zucchero contenuto nell'uva. In virtù della diversa pressione interna alle bottiglie, l'Asti Spumante è identificabile dal fratello Moscato d'Asti dal tappo: il primo presenta il classico tappo a fungo, mentre il secondo un tappo raso.
L'area di produzione, delimitata ufficialmente fin dal lontano 1932, comprende 52 Comuni delle province di Alessandria, Asti e Cuneo.
Senza dubbio il moscato fu la prima uva a essere coltivata per via dei suoi profumi intensissimi e la sua dolcezza. Naturalmente non è il moscato che intendiamo oggi, quell'antico vitigno si è trasformato nel tempo nei tanti moscato che popolano le colline che si affacciano sul Mediterraneo ed ognuno ha avuto una vita diversa. Dallo zibibbo di Pantelleria al moscato bianco di Canelli le differenze si notano immediatamente, ma si nota anche una notevole parentela.
Il termine moscato deriva dal vocabolo latino "cuscus", un'essenza che veniva estratta dalla ghiandola di un piccolo animale e che veniva molto usata in profumeria, e significa semplicemente profumato, speziato.
La coltivazione del moscato nelle Langhe e nel Monferrato, inizia presumibilmente nel 1200, mentre la prima documentazione scritta del commercio di vino "moscatello" risale al 1593.
Dai due milioni di bottiglie dell'immediato dopoguerra, oggi la produzione tocca gli ottanta milioni Questo vistoso aumento della produzione è stato possibile grazie all'ampliamento dei vigneti in zona di origine, a scapito di altre varietà di uve meno ricercate e meno nobili.
Moscato d'Asti è un vino dolce a DOCG.

Da notare che Asti spumante e Moscato d'Asti, pur facendo parte della medesima denominazione Asti ed essendo ambedue espressioni di moscato bianco, sono due vini molto diversi: il primo è uno spumante, il secondo no. Spesso sono confusi dal consumatore nonché, cosa più grave, dai ristoratori.
In effetti il Moscato d'Asti, non subendo la presa di spuma, è caratterizzato talvolta da una lieve frizzantezza naturale (si dice che è "vivace") oppure è tranquillo. Il disciplinare prevede entrambe le possibilità.
La prima delimitazione della zona di produzione dell'Asti risale al 1932.
Vitigni con cui è consentito produrlo: Moscato Bianco 100%
Tecniche di produzione: I vigneti possono insistere esclusivamente su terreni collinari. Per i nuovi impianti e i reimpianti la densità non può essere inferiore a 4.000 ceppi/ha. Le forme di allevamento consentite sono a controspalliera. È vietata ogni pratica di forzatura ed anche l'irrigazione di soccorso.
Tutte le operazioni di vinificazione debbono essere effettuate nella zona DOC.
Produzione e invecchiamento
La produzione varia ogni anno da una provincia all'altra, secondo un accordo stipulato tra la parte industriale e quella agricola. Non è previsto per legge un invecchiamento minimo, tuttavia il moscato è un vino da bersi giovane, possibilmente nel giro di un anno, un anno e mezzo al massimo.
Caratteristiche organolettiche
colore: paglierino giallo più o meno intenso;
odore: caratteristico e fragrante di Moscato;
sapore: dolce, aromatico, caratteristico, talvolta vivace;
Cenni storici
Il Moscato bianco è un vitigno antico, proveniente dal bacino orientale del Mediterraneo. La diffusione di queste uve è dovuta dal particolare gusto dolce che si otteneva facendole appassire.
A partire dal Trecento, il vino dolce aromatico divenne molto ricercato, e grazie principalmente ai commerci che Venezia aveva nel Mediterraneo orientale si diffuse nella penisola italiana con il nome di "vino greco".
Nel 1511, l'uva è citata come "Muscatellum" negli statuti di La Morra, e nel 1597, sono richieste talee di Moscato alla comunità di Santo Stefano Belbo da parte del duca di Mantova.
Giovan Battista Croce, milanese, si trasferì in Piemonte alla fine del XV secolo, gioielliere del Duca di Savoia Carlo Emanuele I, può essere considerato, secondo Renato Ratti, il fondatore della branca enologica piemontese che ha dato origine ai vini dolci, aromatici e poco alcolici tra i quali primeggia il Moscato d'Asti.
Proprietario di un vigneto tra Montevecchio e Candia, il Croce produsse alcuni vini ottenuti da sperimentazioni da lui stesso eseguite e pubblicate in un libro dal titolo " Della eccellenza e diversità dei vini che sulla montagna di Torino si fanno e del modo di farli" (stampato nel 1606).
In questo manuale Giovan Battista Croce trattò di alcune tecniche ancora attuali al giorno d'oggi dalla spremitura, alla purificazione, che consiste di asportare tutte le sostanze impure dal vino ( sostanze pectiche e mucillaginose ), fino all'uso del freddo per bloccare la fermentazione.
La divulgazione di queste notizie, permise lo sviluppo del "vino bianco" in tutto il Piemonte e l'affermazione di questo sui mercati mondiali.
Il Consorzio per la tutela dell'Asti
Il Consorzio per la tutela dell'Asti è stato ufficialmente costituito il 17 dicembre 1932 e venne riconosciuto nel 1934.
Nato con l'intento di definire la zona d'origine, il vitigno, la tecnica di preparazione e la tipologia finale, oggi ha il compito anche di promuovere la conoscenza e la diffusione dell'Asti in tutto il mondo, oltre che vigilare sulle caratteristiche qualitative.
Nel caso che il prodotto sia ritenuto non idoneo, il marchio consortile non viene concesso.
La sede del Consorzio è in Piazza Roma 10 ad Asti nel Palazzo Gastaldi.
Abbinamenti consigliati
Dolci in genere. Ultimamente si consiglia anche con formaggi e salumi o generiche pietanze salate. Si abbina facilmente con i cibi speziati o piccanti, tipico abbinamento soprattutto negli Stati Uniti è il Moscato d'Asti con la cucina etnica soprattutto indiana.

BARBARESCO


https://youtu.be/KMXn6MYWUdY

La nascita del Barbaresco sconfina quasi nella leggenda. Infatti nel comune di Neive, al servizio del Conte di Castelborgo, operò l’enologo e mercante Louis Oudart che attrezzò la cantina e che, per primo nell’area, produsse con le uve nebbiolo un vino secco, stabile e quindi commerciabile, che, con il nome Neive, ottenne una medaglia d’oro all’Esposizione di Londra del 1862. Con le stesse tecniche utilizzate dall’Oudart per il Neive trent’anni più tardi fu prodotto nel castello di Barbaresco il primo vino Barbaresco.
Il Barbaresco è un vino DOCG la cui produzione è consentita nella provincia di Cuneo (comuni di Barbaresco, Neive, Treiso, Alba ma solo parte della frazione San Rocco). Il vino è ottenuto unicamente dalle uve Nebbiolo (sottovarietà Michet, Lampia e Rosé). Deve essere sottoposto ad un periodo di invecchiamento di almeno due anni, di cui almeno un anno in botti di rovere o di castagno, a decorrere dal 1 gennaio dell'anno successivo a quello della vendemmia.
Ha colore granato con riflessi aranciati, profumo caratteristico, etereo, con note di pepe verde, spezie e mandorla amara e sapore elegante fine, di corpo, speziato.
Il Barbaresco d.o.c.g è adatto per la cucina nazionale ed internazionale. Va servito a 18-20 gradi, eventualmente decantato in bottiglia. A tavola si sposa egregiamente con primi piatti potenti o abbinati al tartufo bianco, funghi porcini e cucina piemontese, tipo tajarin al tartufo bianco o ravioli d'anatra con tartufo bianco. E’ particolarmente indicato con vari tipi di carni rosse alla griglia e carni rosse da pelo, agnello al forno, arrosti, brasato (al Barbaresco), lepre al vino e in salmì, cinghiale, selvaggina in genere, cacciagione a piuma, pollame nobile, rognoncini trifolati, fegatini. Si abbina bene con formaggi stagionati e piccanti, il castelmagno, il grana padano, il pecorino romano, il montasio, il parmigiano reggiano.

BARBERA


 
 
https://youtu.be/1tWvT3i00uo
 



Per prima cosa il nome: la barbera o il barbera? In Piemonte il vino e' sempre stato indicato al femminile, mentre il maschile si riferisce al vitigno. Quindi chiamiamo questo italianissimo vino "la" barbera, come un simpatico vezzo distintivo. E' il vitigno a bacca rossa piu' diffuso in Piemonte, certo per la sua resistenza al clima e ai parassiti.
Nel Liber Ruralium, celebre trattato di enologia e viticoltura del Medioevo, Pier de' Crescenzi, giudice in Asti, nel 1304 cita, tra le varieta' di uve, la Grissa, cioe' la Grigia, da cui si ricava "un ottimo vino, molto potente, tenuto in grande onore nella citta' di Asti". Con ogni probabilita' era proprio la barbera. Tuttavia le prime notizie certe della sua presenza si hanno nel '700 e da allora il suo successo e' stato grandissimo, sicuramente aiutato dal disastro provocato dalla fillossera. Fu uno dei pochi vitigni a salvarsi e ad essere quindi innestato nella vite americana che non teme il terribile parassita.
Per decenni ha rappresentato il tipico vino da pasto. Poi alcuni produttori ne hanno via via migliorato la qualita' e l’immagine, esaltandone le grandi capacita' di invecchiamento e le ottime potenzialita', facendolo diventare in alcuni casi un vino da meditazione. La Barbera puo' essere messa in commercio l'anno successivo a quello della vendemmia dichiarato in etichetta. Tuttavia, due o tre anni di affinamento esaltano le sue caratteristiche organolettiche. Ne sono riconosciute 7 DOC, tra cui Barbera d'Alba, di Asti e del Monferrato.
Abbinamenti: Antipasti caldi, primi piatti (tajarin con fegatini), pollo alla cacciatora, arrosti, formaggi a media stagionatura o cremosi.

BAROLO

 

Il Barolo è un vino DOCG Denominazione di Origine Controllata e Garantita, ottenuto dalla fermentazione di uva Nebbiolo in purezza nelle sue tre varietà Michet, Lampia e Rosé anche se quest’ultimo è un vitigno differente dal nebbiolo, anche se uno suo stretto parente
Deve essere invecchiato minimo 3 anni a decorrere dal 1º gennaio dell'anno successivo alla vendemmia, di cui almeno 2 in botti di rovere o castagno. Se invecchiato per un periodo minimo di 5 anni, cui almeno 2 in botti di rovere o castagno, può fregiarsi della dicitura Riserva.
La gradazione alcolica minima deve essere di almeno12,5°. La zona di produzione è in provincia di Cuneo, in Piemonte.
Vino di colore rosso granato con riflessi aranciati, al naso si presenta intenso e persistente, ovvero con un patrimonio olfattivo eccezionalmente complesso, che tende a prediligere, a seconda dello stato evolutivo, note fruttate e floreali come viola e vaniglia o note terziarie come goudron e spezie.
In bocca le componenti "dure" (acidità, tannini, sali) risultano piacevolmente equilibrate da quelle "morbide" (alcoli e polialcoli), con una intensità e persistenza eccezionali che fanno del Barolo un vino potente, elegante e di grande personalità. Il Vino Barolo prende il nome dalla nobile famiglia Falletti, marchesi di Barolo, che ne iniziarono la produzione nei loro vigneti. Si racconta che un giorno la marchesa Falletti offrì al re Carlo Alberto, 300 carrà di Barolo, perché il Re aveva espresso il desiderio di assaggiare quel "suo nuovo vino"; l'omaggio passò alla storia: le carrà erano infatti botti da trasporto su carro, della capacità di circa 600 litri (12 brente). Carlo Alberto rimase così entusiasta del vino avuto in dono che decise di comprare la tenuta di Verduno per potervi avviare una sua produzione personale.
Il vino Barolo, vino da meditazione per eccellenza, trova il giusto abbinamento con piatti come arrosti di carne rossa, brasati, cacciagione, selvaggina, cibi tartufati, formaggi a pasta dura e stagionati.

BRACHETTO D'ACQUI




Anche se qualcuno lo vuole importato dalla Provenza, si ritiene il vitigno Brachetto originario delle provincie di Asti e Alessandria, in particolare della zona di Acqui Terme. Pare ce ne siano tracce giaàin epoca romana, tanto che Plinio parla di un vinum aquense, dolce e aromatico, molto apprezzato per i suoi poteri afrodisiaci.
 Il vitigno nasce e cresce in una zona famosa per le sue terme: la cittadina di Acqui Terme e' infatti una rinomata stazione termale, conosciuta gia' dai Romani, come Aquae Statiellae. Famosa per la Bollente, fonte ottocentesca nella piazza principale, da cui sgorga l'acqua a una temperatura di 75 gradi, Acqui quindi coniuga il buon vino con il benessere, elementi che vanno sicuramente d'accordo.
La tradizione popolare vuole che il brachetto fosse il vino preferito da Gianduia, Gioan de la duja, cioe' Giovanni dal boccale, la maschera torinese, che dalla sua spuma fragrante e finemente dolce, traeva la sua allegria e la sua fama di gran bevitore.
Apprezzato già nell'800, ma poi messo da parte dalla moda del brut. Poco alcolico e profumato di rose era considerato il vino delle donne per eccellenza e nelle riunioni domenicali nella campagna piemontese addolciva le chiacchiere femminili.
Offre alla vista un bellissimo colore rosso rubino, tendente al granato chiaro o al rosato ed all'olfatto un profumo di rosa, di fragola, con sentori muschiati; il suo sapore e' dolce, morbido e delicato. Dal corpo debole, ha una sapidita' appena accentuata e una discreta acidita' che lo rende piacevolmente fresco. Si serve ad una temperatura di 8-10 gradi circa, in un calice a tulipano, e si abbina perfettamente a pasticceria secca, crostate ai frutti di bosco, cannoncini alla panna, bavarese ai lamponi, madeleine e pesche ripiene.
Il consumo deve avvenire dopo un anno, massimo due dalla vendemmia, per poter apprezzare al meglio la fragranza del profumo e la freschezza, le sue caratteristiche principali.

DOLCETTO

Dolcetto
Esistono due tipologie di Dolcetto DOCG: il Dogliani superiore la cui produzione è consentita nella provincia di Cuneo e l’Ovada superiore la cui produzione è consentita nella provincia di Alessandria.
La gradazione alcolica minima deve risultare di almeno 12,5 °C. L’acidità totale deve essere minimo del 5‰. E’ ottimo nell'annata, deve essere invecchiato almeno 1 anno, ma si conserva bene per 2÷3 anni.
Ha colore rosso rubino tendente al violaceo o al granato. Il suo odore è vinoso, gradevole, caratteristico, talvolta con sentore di legno. Il sapore risulta di moderata acidita', asciutto, amarognolo, delicato, gradevole, di discreto corpo, armonico, con sentore mandorlato o di frutta. La temperatura di degustazione consigliata varia da 16 a 20 °C. Per gustare completamente tutte le sue qualità occorre sturare la bottiglia a temperatura ambiente, maneggiando delicatamente per evitare di scuotere l'eventuale deposito.
L’abbinamento gastronomico prevede: antipasti robusti, primi piatti con sughi di carne, risotti, minestre, fritto misto piemontese, carne cruda tritata anche insaporita con scaglie di tartufo bianco, carni bianche, cotechino/salamelle, salumi, è vino da tutto pasto.

ERBALUCE DI CALUSO
Le prime notizie del vitigno Erbaluce risalgono al 1606; esso è stato menzionato per la prima volta in un suo libro da Giovan Battista Croce, gioielliere presso il duca Carlo Emanuele I. Il nome del vitigno deriva dal colore che assumono gli acini in autunno: i riflessi rosati e caldi si fanno più intensi, ambrati, nelle parti esposte al sole. Questa Docg viene prodotta in diverse tipologie: oltre il Tranquillo, esistono le versioni Spumante e Passito. Questo vino è ottenuto con le uve del vitigno Erbaluce coltivate in una ristretta zona viticola di cui il comune di Caluso (Torino) è l'epicentro e che si estende fino alle province di Vercelli e di Biella. Può essere usato sia come aperitivo, sia durante il pasto, abbinandolo ad antipasti e piatti a base di pesce.

FREISA D'ASTI
Il Freisa d'Asti è un vino DOC la cui produzione è consentita nella provincia di Asti.
Caratteristiche organolettiche
colore: rosso granato cerasuolo piuttosto chiaro, con tendenza a leggero arancione quando il vino invecchia.
odore: caratteristico, delicato, di lampone e di rosa.
sapore: amabile, fresco con sottofondo assai gradevole di lampone.
In genere la Freisa veniva vinificata soprattutto in versione spumante o "mossa". Se ne ottiene così un vino di facile accesso, beverino e poco impegnativo, abbastanza vicina come tipologia ai lambruschi mantovani e reggiani o alla bonarda dell'oltre Po. Questa scelta deriva anche dal fatto che la Freisa, benché sia genealogicamente una parente stretta del ben più famoso Nebbiolo, l'uva principe del Piemonte, ha con una componente tannica sensibilmente più marcata di questo. Da alcuni decenni è però prodotta in versione "ferma". Vino da tutto pasto, di buon corpo, è secco e asciutto.

GATTINARA
Il Gattinara è un vino DOCG prodotto con il vitigno nebbiolo, con eventuale aggiunta di vespolina (max 4%) oppure bonarda (max 10%) purché tali vitigni non superino il 10% totale,. la cui produzione è consentita nella provincia di Vercelli, esclusivamente nel territorio del comune omonimo.
Di colore rosso granato tendente all'aranciato, ha odore fine di viola e sapore asciutto, armonico, con caratteristico fondo amarognolo.
Titolo alcolometrico minimo 12,5% e affinamento minimo di 36 mesi di cui almeno un anno in botti di legno. Nella versione riserva, con titolo alcolometrico minimo di 13%, l'affinamento è di minimo 48 mesi di cui almeno due anni in botti di legno.
Si abbina bene a carni rosse di selvaggina e cacciagione, arrosti, brasati, formaggi stagionati a pasta dura. Ottimo anche utilizzato per cucinare il risotto che prende il nome di risotto al gattinara.

GAVI

Il Gavi o Cortese di Gavi è un vino bianco piemontese DOCG prodotto esclusivamente da vitigno Cortese in provincia di Alessandria. Se vendemmiata precocemente, l'uva Cortese offre vini acidi, di colore e struttura leggera, da consumarsi nei primi tre anni. Ma il Gavi prodotto da uve più mature, di maggior struttura, può affinare a lungo in bottiglia aprendosi a profumi terziari e minerali di grande eleganza. La gradazione alcolica minima deve essere di 10,5%; l’acidità totale minima 5 per mille. Viene prodotto in tre diverse tipologie: tranquillo, frizzante e spumante.
Di colore paglierino più o meno intenso, limpido ha odore caratteristico, delicato e sapore asciutto, gradevole di gusto fresco e armonico.
Come aperitivo va degustato a 8-10 °C; in tavola a 12 °C. Si accompagna con antipasti, zuppe, primi piatti di pasta, pesce (insalate di mare, alici marinate, gamberi bolliti conditi con olio/limone), fritti di verdure, carni bianche e nelle tipologie più strutturate anche con formaggi caprini o erborinati. Secondi di pesce come trota alla mugnaia, merluzzo bollito condito con olio e limone, orata al forno o al sale.

GHEMME



https://youtu.be/cStmL_tEqEk

Il Ghemme è un vino DOCG la cui produzione è consentita nell'omonimo comune ed in parte nel comune di Romagnano Sesia, in provincia di Novara. Vino prodotto con i vitigni nebbiolo (biotipo spanna) e vespolina (fino ad un massimo del 25%) e/o eventualmente uva rara (bonarda novarese). Titolo alcolometrico minimo 11,5%. Affinamento minimo di tre anni di cui almeno venti mesi in botti di rovere e almeno nove mesi in bottiglia.
Può essere designato in etichetta con la menzione "riserva" qualora derivi da uve aventi un titolo alcolometrico naturale minimo del 12,5% e sia stato sottoposto ad un periodo di invecchiamento di quattro anni, di cui almeno venticinque mesi in botti di legno e almeno nove mesi in bottiglia.
 Il colore è rosso granato intenso con riflessi mattonati dopo lunga maturazione; l’odore ha profumo caratteristico intenso di violette, con sentori speziati, etereo e di liquirizia; il sapore è tannico e particolarmente strutturato, buona acidità con fin di bocca amarognolo. L'uvaggio con l'uva rara (vitigno inserito nella disciplinare insieme alla vespolina) ammorbidisce i toni del nebbiolo che è il vitigno principale di questa docg.
La prima testimonianza del Ghemme risale ad una iscrizione romana sulla lapide di Vibia Earina, di proprietà di Vibio Crispo, senatore romano ai tempi di Tiberio, rinvenuta nei pressi di Ghemme, un reperto archeologico che è la prova della coltivazione nella zona della vite fin dai tempi dei Romani. Essi possedevano in queste terre delle vere e proprie vigne modello che coltivavano seguendo regole stabilite in tutte le fasi di produzione, dall'impianto delle viti alla vinificazione. La località, quella appunto che oggi conosciamo, era chiamata ‘pagus Agamium’, da cui il nome Ghemme. Già Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia del 77 d.C., parla di “un vitigno ‘spionia’ (nome che ricorda da vicino un altro vino novarese, lo Spanna, ndr)” caratteristico per la maturazione che avviene alle prime nebbie di autunno, particolarità questa tipica delle uve di Nebbiolo. Un'importante testimonianza non tanto sul vino in sé, ma sui luoghi dove nasce, l'ha lasciata Stendhal ne La Certosa di Parma (romanzo), romanzo storico scritta alla fine del 1838. Lo scrittore attribuisce alla madre di Fabrizio Del Dongo, il protagonista, una proprietà a Romagnano Sesia: “Si stabilì a poca distanza da Romagnano, in un magnifico palazzo […] disabitato da una trentina d'anni, tanto che vi pioveva in tutte le stanze e neppure una finestra chiudeva. S’impossessò dei cavalli dell'amministratore, che egli montava senza soggezione tutto il giorno…”. Forse lo stesso Stendhal aveva cavalcato fra le colline del Ghemme, dimostrazione della dovizia di particolari con cui lo scrittore descrive quelle zone. Lo storico novarese Angelo Luigi Stoppa parla della “villa del Cavanago che in quegli anni si trovava nelle misere condizioni descritte da Stendhal”, come aveva potuto appurare lui stesso da alcuni documenti locali dell'epoca. Oggi quel palazzo è stato ristrutturato ed è raggiungibile percorrendo una strada che fiancheggia la collina con i vigneti che producono l'uva del Ghemme. Un'altra testimonianza nei secoli del Ghemme ci è data dallo storico Carlo Dionisotti che, nel 1871, citando proprio Plinio, parla del metodo di coltivazione della vite e asserisce che nella zona del Ghemme è “ancora praticato” come allora. Con il tempo le testimonianze si moltiplicano: da Fogazzaro che nel primo capitolo di Piccolo mondo antico, del 1895, cita il “vin di Ghemme” come accompagnamento di un pranzo organizzato dalla marchesa Maironi, a Mario Soldati che nel suo racconto L'albergo di Ghemme decanta questo vino: “Il Ghemme: eccellente, prim’ordine. Lo definirei un Gattinara più spesso, più scuro, più violento. Meno trasparente, meno liquoroso, meno raffinato: ma forse più genuino”. Il Ghemme diventa DOC nel 1969, mentre il disciplinare che istituisce la denominazione DOCG è stato istituito il 14 giugno del 1997.
Questo vino si abbina a primi piatti con ragù robusti, brasato al Ghemme, arrosti di carne rosse, selvaggina da piuma in salmì e allo spiedo, lepre in civet e tupalone, oltre che a tutti i formaggi stagionati.

MOSCATO D'ASTI




Da notare che Asti spumante e Moscato d'Asti, pur facendo parte della medesima denominazione Asti ed essendo ambedue espressioni di moscato bianco, sono due vini molto diversi: il primo è uno spumante, il secondo no. Spesso sono confusi dal consumatore nonché, cosa più grave, dai ristoratori. In effetti il Moscato d'Asti, non subendo la presa di spuma vera e propria, è caratterizzato da una leggera frizzantezza.
Vitigni con cui è consentito produrlo
Moscato Bianco 100%
Tecniche di produzione
I vigneti possono insistere esclusivamente su terreni collinari. Per i nuovi impianti e i reimpianti la densità non può essere inferiore a 4.000 ceppi/ha. Le forme di allevamento consentite sono a controspalliera. È vietata ogni pratica di forzatura ed anche l'irrigazione di soccorso.
Tutte le operazioni di vinificazione debbono essere effettuate nella zona DOC.
Caratteristiche organolettiche
colore: paglierino giallo più o meno intenso;
odore: caratteristico e fragrante di Moscato;
sapore: dolce, aromatico, caratteristico, talvolta vivace;
Abbinamenti consigliati
Dolci in genere. Ultimamente si consiglia anche con formaggi e salumi o generiche pietanze salate. Si abbina facilmente con i cibi speziati o piccanti, tipico abbinamento soprattutto negli Stati Uniti è il Moscato d'Asti con la cucina etnica soprattutto indiana

NEBBIOLO D'ALBA
Il Nebbiolo d'Alba è un vino DOC la cui produzione è consentita nella provincia di Cuneo.
Caratteristiche organolettiche
colore: rosso rubino più o meno carico con riflessi di granato per il vino invecchiato.
odore: profumo caratteristico, tenue e delicato che ricorda la viola che si accentua e perfeziona con l'invecchiamento.
sapore: dal secco al gradevolmente dolce di buon corpo, giustam. tannico da giovane, vellutato, armonico.
Abbinamenti consigliati
Ottimo con le carni di manzo, maiale e pollo. Come antipasti, è ben adatto ad affettati o formaggi. Comunque questo vino, pur essendo gustoso, si abbina molto bene con risotti, pasta e lasagne.

PINOT CHARDONNAY SPUMANTE PIEMONTE

Il Piemonte Pinot Chardonnay spumante è un vino DOC la cui produzione è consentita nelle province di Alessandria, Asti e Cuneo.
Caratteristiche  organolettiche
colore: giallo paglierino
odore: caratteristico, fruttato
sapore: sapido, caratteristico
Resa (uva/ettaro) 110 q
Resa massima dell'uva 70,0%
Titolo alcolometrico naturale dell'uva 9,5%
Titolo alcolometrico minimo del vino 10,5%
Estratto secco netto minimo 17,0‰
Vitigni con cui è consentito produrlo Chardonnay: 0.0% - 100.0% Pinot Nero: 0.0% - 100.0%

ROERO
Il Roero è un vino DOCG la cui produzione è consentita in 19 comuni sulla riva sinistra del Tanaro, vicino ad Alba, nella provincia di Cuneo. Prende il nome dall'omonimo territorio, appunto il Roero.
Caratteristiche organolettiche
colore: rosso rubino più o meno intenso con riflessi granati se invecchiato.
profumi: delicato, fragrante fruttato e con profumo caratteristico, etereo se invecchiato.
sapore: asciutto, di buon corpo, vellutato, armonico di buona persistenza.
Cenni storici
Il 4 marzo 2014 è stato costituito il "Consorzio di tutela Roero" che ha la funzione di tutelare e valorizzare la DOCG "Roero". Tale DOCG si articola su due vini: il Roero, un vino rosso a base di uve nebbiolo, e il Roero Arneis, un vino bianco a base di uve arneis. Entrambi sono vitigni autoctoni.
Abbinamenti consigliati
La "Terra dei Vini" consiglia di accompagnare il vino Roero con carni in umido e bollite tipiche della regione Piemonte. Si può accompagnare anche con carni arrosto principalmente rosse. Ottimo con piatti a base di tartufo

RUCHÉ
Il Ruché di Castagnole Monferrato è un vino DOCG piemontese rosso della provincia di Asti, prodotto da un vitigno autoctono omonimo, presso una piccola zona nord-orientale del suo capoluogo. Il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, con Decreto ministeriale 8 ottobre 2010, ne ha delimitato la DOCG in soli sette comuni astigiani: oltre Castagnole Monferrato, anche i vicini paesi di Montemagno, Grana, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo e Viarigi. Attualmente la denominazione ha un'estensione vitata di 110 ettari.
Caratteristiche
colore: rosso rubino non troppo carico, con leggeri riflessi violacei che poi divengono tendenti all'aranciato con l'invecchiamento.
odore: intenso persistente leggermente aromatico, fruttato.
sapore: secco o amabile, armonico leggermente tannico di medio corpo, leggera componente aromatica.
Cenni storici
Il suo nome ha etimologia incerta, tuttavia alcuni ipotizzano un legame in merito ai primi vigneti coltivati vicino a una chiesetta benedettina dedicata a san Roc (san Rocco), oggi inesistente, che si doveva trovare neri pressi di Portacomaro o Castagnole Monferrato. Il vitigno fu probabilmente importato durante il XII secolo da monaci cistercensi provenienti dalla Borgogna. Altri ancora pensano che il nome possa derivare dai tipici luoghi collinari, da cui il dialettale ruché, indicando l'erto arroccamento della vigna ben esposto al sole.
Ha un gusto unico e particolare, mediamente strutturato e generoso. Fino al XIX secolo, il vitigno veniva coltivato anche tra Monferrato e Langhe, ma il terreno a nord-est di Asti (leggermente meno alcalino) si presta meglio ad esaltarne le qualità. A Castagnole Monferrato verso la fine degli anni settanta, il parroco don Giacomo Cauda, insieme al sindaco Lidia Bianco - già segretaria della scuola d’agraria di Asti - si impegnarono nella sua rivalutazione qualitativa, fino a ottenerne la DOC nel 1987. Da allora, Il Ruchè un posto di nicchia nell'enologia, a livello nazionale e internazionale, di tutto rispetto. Infatti, sebbene ne sia autorizzato legalmente un taglio d'uvaggio del 10% di altre uve, quali brachetto e/o barbera, si preferisce produrlo puro. Successivamente, alcuni comuni limitrofi a Castagnole Monferrato si impegnarono con quest'ultimo per diffondere l'eccellenza qualitativa di tale vino.
Abbinamenti consigliati
È un ottimo vino da formaggi saporiti di media-alta stagionatura (Castelmagno, Grana Padano, tome varie) e per i piatti tipici piemontesi come la bagna cauda, la finanziera e gli agnolotti, si abbina molto bene con secondi di selvaggina.

ARNAD-MONTJOVET

Il Valle d'Aosta Arnad-Montjovet è un vino DOC la cui produzione è consentita in Valle d'Aosta.
colore: rosso rubino brillante con riflessi granata.
odore: fine, caratteristico, lievemente mandorlato.
sapore: secco, con fondo amarognolo, armonico.

BLANC DE MORGEX ET DE LA SALLE

Il Valle d'Aosta Blanc de Morgex et de La Salle è un vino DOC la cui produzione è consentita nella Regione Valle d'Aosta. Il vino pare prendere il nome da due comuni tra i vari in cui viene prodotto (Morgex e La Salle). Viene prodotto tra i più alti vigneti d'Europa, dai 900 ai 1200 m di altitudine.
Caratteristiche organolettiche
colore: giallo paglierino tendente al verdino.
odore: delicato con sottofondo di erbe di montagna.
sapore: secco, acidulo, leggermente frizzante, molto delicato.
Cenni storici
La data di inizio produzione è ancora incerta, alcune fonti la fissano intorno all'VIII secolo, altre invece lo vorrebbero importato in Valle d'Aosta verso l'anno 1630. Un'altra ipotesi è quella che il vitigno sia autoctono, scelto attraverso i secoli secondo una selezione attuata partendo da eventuali modificazioni o da spontanee seminagioni.
Abbinamenti consigliati
Adatto come aperitivo, si accompagna con antipasti delicati, con piatti di pesce o con carni bianche, è ottimo anche con formaggi come Fontina e Reblec.

CHAMBAVE MOSCATO

Il Valle d'Aosta Chambave Moscato (conosciuto soprattutto nella denominazione in francese Vallée d'Aoste Muscat de Chambave) è un vino DOC la cui produzione è consentita nella Valle d'Aosta.
Caratteristiche organolettiche
colore: giallo paglierino.
odore: intenso, caratteristico di moscato.
sapore: secco, fine, delicato e aromatico.
Cenni storici
È un vino prodotto da una varietà di vitigni, appartenenti alla famiglia dei moscati, giunta in Italia dall'Asia Minore in epoca pre-romana.
La zona di coltivazione dell'uva è situata lungo il corso della Dora Baltea, tra i paesi di Chambave, Châtillon, Pontey, Montjovet, Saint-Vincent, Saint-Denis e Verrayes, a quote collinari.
Abbinamenti consigliati
Vino da dessert adatto ad accompagnare biscotti e pasticceria secca; ottimo nello zabaione. Tuttavia si può servire anche come aperitivo, o abbinato a piatti di crostacei, pesce o a base di uova, oppure semplicemente come vino da degustazione.

ENFER D'ARVIER
Enfer d'Arvier
Il Valle d'Aosta Enfer d'Arvier è un vino DOC la cui produzione è consentita in Valle d'Aosta.
colore: rosso granata piuttosto intenso.
odore: delicato, con bouquet caratteristico.
sapore: secco, vellutato, di giusto corpo, gradevolmente amarognolo. L'Enfer d'Arvier doc si abbina gradevolmente a carni rosse, arrosti e selvaggina, bollito misti ma anche a piatti tipici come agnolotti di carne canavesani, fonduta, soupe paysanne con toma e fontina, polenta e salsicce, pernice e formaggi locali.

NUS
Il Valle d'Aosta Nus rosso è un vino DOC la cui produzione è consentita in Valle d'Aosta.
Caratteristiche organolettiche
colore: rosso intenso con riflessi granata.
odore: vinoso, intenso, persistente.
sapore: secco, vellutato, leggermente erbaceo.

TORRETTE
Il Valle d'Aosta Torrette è un vino DOC la cui produzione è consentita in Valle d'Aosta.
Caratteristiche organolettiche
colore: rosso vivace con riflessi violacei.
odore: profumo di rosa selvatica, tendente a mandorlarsi con l'invecchiamento in bottiglia.
sapore: secco, vellutato, di buon corpo, con fondo amarognolo
Abbinamenti consigliati
Salumeria tipica, carni bianche e rosse, formaggi locali di media stagionatura (Toma e Fontina).
Produzione
Le uve provengono da vigneti situati nei comuni di Quart, Saint-Christophe, Aosta, Sarre, Villeneuve, Saint Pierre, Aymavilles, Jovençan, Gressan, in destra e sinistra orografiche della Dora Baltea. La vendemmia è scaglionata nell’arco di dodici/quindici giorni in riferimento alle diverse altitudini ed esposizioni dei vigneti. I vigneti sono situati tra i 600 e gli 800 metri s.l.m..

Il Valle d'Aosta è dal 2002 un vino DOC rosso e bianco della Valle d'Aosta.
Attualmente, la denominazione Valle d'Aosta è suddivisa in sette sotto-denominazioni geografiche e in nove sotto-denominazioni secondo i vitigni in questione.
Le condizioni climatiche della Valle d’Aosta unitamente alle caratteristiche dei terreni, alla loro esposizione, giacitura e pendenza sono i punti di forza di una viticoltura di montagna che, inserita in un ambiente ancora incontaminato, ha saputo evolversi con modernità e oggi rappresenta una realtà significativa anche in termini economici.
A partire dagli anni ‘60, la Regione Autonoma Valle d’Aosta ha investito notevoli risorse finanziarie nel settore viticolo, attivando numerose iniziative che, nel volgere di pochi anni, hanno contribuito al recupero e successivamente allo sviluppo della coltivazione della vite.
Negli anni successivi il mondo viticolo valdostano ha assunto la piena consapevolezza che lo strumento di valorizzazione delle produzioni viticole locali si basava sul binomio qualità-territorio e che pertanto ogni sforzo doveva essere compiuto per ottenere il riconoscimento di origine per i principali vini prodotti.
La denominazione di origine controllata Valle d'Aosta Müller Thurgau, Pinot grigio, Pinot bianco, Chardonnay, Petite Arvine, Blanc de Morgex et de La Salle, accompagnata dalla menzione vendemmia tardiva è riservata ai vini ottenuti da uve sottoposte a parziale appassimento naturale sulla vite. La vinificazione del vino Valle d'Aosta Pinot nero può essere effettuata anche in bianco. La denominazione di origine controllata Valle d'Aosta Novello deve essere ottenuta con macerazione carbonica di almeno il 30% delle uve. La denominazione Valle d'Aosta Blanc de Morgex et de La Salle spumante può essere utilizzata per designare i vini spumanti naturali ottenuti con vini derivati dal vitigno Prié blanc e rispondenti alle condizioni stabilite dal presente disciplinare. La tipologia spumante deve essere ottenuta esclusivamente per rifermentazione naturale in bottiglia con permanenza sui lieviti per almeno 9 mesi e la durata del procedimento di elaborazione deve essere non inferiore a 12 mesi e deve essere posto in commercio nei tipi "extra-brut", "brut", "demi-sec" e "pas dosé" con l'indicazione del tenore zuccherino.

Corso di cucina: Lezione 4 Frittelle salate e fritture

CAZZILLI
cazzilli palermitani
gr. 500 patate da gnocchi
2 uova
sale
olio
prezzemolo
Alla purea di patate bollite e ben amalgamate aggiungere una manciata di prezzemolo finemente tritato con uno spicchio d’aglio, sale e pepe. Al raffreddamento si formeranno piccole crocchette cilindriche della grandezza di un dito mignolo. Si tuffano nel bianco d’uovo battuto e si friggono in abbondante olio molto caldo.

FIORI DI ZUCCA FRITTI
Acqua 275 ml
Farina 185 gr
Fiori di zucca 270 gr
Olio di semi q.b.
Sale q.b.
Immergete delicatamente i fiori di zucca in acqua fredda poi sgocciolateli e poneteli a scolare su di un panno asciutto con il quale li tamponerete delicatamente; eliminate il gambo divaricate leggermente i fiori di zucca con le dita ed estraete i pistilli carnosi posti all’interno e sulla base dei fiori stessi. Una volta puliti ponete i fiori di zucca in una ciotola. Nel frattempo preparate la pastella: mettete la farina setacciata in una capiente ciotola, aggiungete poco alla volta l’acqua mescolando con una frusta per evitare i grumi. Una volta che avrete ottenuto un composto liscio aggiungete il sale. Ponete a scaldare un’ampia padella con l’olio di semi per la frittura. A questo punto avvolgete delicatamente nella pastella i fiori, ad uno ad uno, cercando di non romperli e subito dopo immergete il fiore nell’olio bollente, girandolo durante la cottura. Appena cotti, scolate i fiori di zucca e lasciateli asciugare su un vassoio rivestito di carta assorbente. Servite i fiori di zucca fritti ben caldi.

FOCACCINE DI MAIS

farina di mais,

olio,
acqua,
sale.
Unisco la farina, l'olio, l'acqua e il sale, ottenendo un impasto denso. La cottura la eseguo in forno, con gli appositi testetti.
Le focaccine di mais (
fugassette de mega) sono diffuse su quasi tutto il territorio regionale e cambiano nome e dimensioni a seconda del luogo di produzione: fugassetta in val Petronio e dintorni, revzora in valle Stura. Anche il metodo di cottura subisce delle variazioni a seconda delle consuetudini locali: in val Petronio e levante ligure si cuociono utilizzando i testetti, tegami di argilla fatti arroventare direttamente sul fuoco, in altre zone nel forno a legna, come in valle Stura. Dopo la cottura il prodotto risulta friabile e decisamente saporito. Muta anche il companatico: se nel levante sono le erbette di campo (prebuggiùn e cavolo nero), nel ponente si prediligono i salumi come ad esempio la testa in cassetta. Quest'ultimo abbinamento viene riproposto nella sagra di primavera che si svolge a Campo Ligure (in valle Stura, Genova). Nell'entroterra del levante (Chiavari, Lavagna, Sestri) la fugassetta si degusta insieme ai cavoli broccoli di Lavagna (cavoli neri) per assaporare l'olio novello, appena franto. Nelle fugassette de mega, la farina bianca viene sostituita da quella più povera e rustica del mais che conferisce all'impasto un aspetto più grezzo e un delizioso colore dorato. Le zone di produzione sono la Val Petronio (GE), la valle Stura (GE), la val di Vara (SP).

Frittelle di baccalà

600 grammi di baccalà bagnato,
farina bianca,
olio extravergine di oliva,
lievito di birra,
due uova,
sale.
Per la pastella unite la farina bianca con l'acqua e aggiungete il lievito di birra, precedentemente sciolto in acqua tiepida, e salate. Sbattete le uova, aggiungendo la pastella e i pezzetti di baccalà, quindi friggete in olio ben caldo. Quando le frittelle sono dorate, scolatele e asciugatele per eliminare l'unto in eccesso.

FRITTELLE DI BORRAGINE
500 grammi di borragini,
50 grammi di formaggio grana grattugiato,
200 grammi di farina,
alcune foglie di maggiorana,
acqua minerale gassata,
olio extra vergine d'oliva, sale.
Lavate e strizzate la verdura, tagliatela finemente. Tritate le foglioline della maggiorana e unitele alle verdure tagliate, poi aggiungete anche il formaggio. Diluite la farina con poca acqua minerale e mescolate fino ad ottenere una pastella piuttosto liquida. Fate riposare mezz'ora, quindi aggiungetevi la verdura mescolando. Fate scaldare dell'olio abbondante in padella e quando è caldissimo, versatevi a cucchiaiate il composto. Scolate le frittelle su una carta assorbente e servitele subito.

FUGASSETTE DI SAVONA 

Panissa,

farina di semola,
olio.
Le fugassette si preparano con farina di semola fine cui si aggiunge olio e acqua, emulsionati, in uguale quantità. Lavoro con cura, aggiungendo acqua sino ad ottenere un impasto morbido. Divido l'impasto in tante parti della grandezza di un'arancia, formo dei pani e faccio riposare per un'ora. Stendo i pani fino a raggiungere l'altezza di due centimetri e cuocio in forno a 180°, per 20 minuti. Nel frattempo taglio la panissa a fette sottili come le patatine, le friggo in abbondante olio e le mantengo calde. Le focaccine si tagliano a metà e si farciscono con le panissette cui si può provare ad aggiungere una fetta di formaggetta.

GNOCCO FRITTO
Farina 500 g
Strutto 70 g
Zucchero 1 cucchiaino
Sale 10 g
Acqua 180 ml circa
Lievito di birra 12 g
per  friggere
Olio di oliva q.b. (oppure secondo la tradizione strutto q.b.)
Per preparare lo gnocco fritto, sbriciolate in una ciotola il lievito di birra, unite il cucchiaino di zucchero quindi versate 50 ml di acqua tiepida: fate sciogliere bene il lievito mescolando con un cucchiaino unite poi 2 cucchiai di farina, quanta ne serve per formare una pastella molto morbida, che lascerete riposare per mezz'ora. Passata la mezz'ora versate la restante farina in una ciotola capiente ed unite la pastella, aggiungete lo strutto, dopodiché fate sciogliere i 10 gr di sale in circa 125 ml di acqua tiepida; quando il sale si sarà disciolto versate tutta l'acqua all'interno della ciotola e cominciate a impastare. Quando il liquido sarà stato interamente incorporato alla farina, trasferite l'impasto su un piano infarinato e lavoratelo fino a quando sarà diventato liscio ed omogeneo, quindi date all'impasto una forma di palla, e incidetela a croce, e posizionatelo in una ciotola capiente che avrete precedentemente spolverizzato con una manciata di farina, sigillate la ciotola con della pellicola trasparente. Lasciate lievitare per circa 4 ore in un ambiente tiepido e privo di correnti d'aria, fino a quando l'impasto avrà circa triplicato il volume. Trascorso il tempo necessario, riprendete l'impasto e lavoratelo su un piano infarinato e stendetelo in una sfoglia dello spessore di circa 3 mm; con un tagliapasta con la lama liscia ricavate dei rombi o dei quadrati di 8-10 cm di lato. A questo punto preparate una pentola, con abbondante olio di oliva (o strutto) e fatelo riscaldare per bene. Immergete pochi gnocchi per volta nell' olio di oliva (o nello strutto bollente), fateli friggere, scolateli con una schiumarola e mettete gli gnocchi fritti ad asciugare su un pezzo di carta assorbente per eliminare l'olio in eccesso. Servite lo gnocco fritto ancora caldo accompagnandolo con un bel tagliere di salumi misti, lardo e con qualche formaggio con cui andrete a riempirli dopo averli tagliati a metà.
Lo gnocco fritto, denominazione tipica nelle province di Bologna, Modena e Reggio Emilia (luoghi in cui viene citato con l'articolo il), è un prodotto alimentare italiano tipico dell'Emilia di origine longobarda il cui nome varia da un'area all'altra.
Per esempio in gran parte della provincia di Parma viene chiamato torta fritta e nella provincia di Ferrara viene chiamato pinzino. Nella parte nord-orientale della provincia di Piacenza è comune la dizione dialettale chisulén (italianizzata in chisolino), ma anche qui è diffuso il nome parmense di torta fritta; nella parte meridionale e in Val Trebbia si ritorna alla denominazione tipica dello gnocco fritto. Nel bolognese viene chiamato più comunemente crescentina.
In alcune zone dell'appennino modenese è chiamato paste fritte (quasi sempre al plurale). Nel centro - sud Italia, in Campania e nelle zone appenniniche comprese tra l'alto Lazio, l'Umbria e una parte delle Marche viene denominato al plurale, le pizze fritte, o anche paste fritte, in quest'ultima forma specialmente nel casertano e in alcune zone del napoletano. Infine, in Sicilia nel palermitano viene preparata col nome di vastedda fritta. In provincia di Reggio Emilia lo gnocco (citato sempre con l'articolo il) è una focaccia fatta al forno con lardelli di maiale, molto diffusa. Fondamentale per tanto aggiungere l'attributo "fritto" che indica un prodotto piuttosto differente.
Dapprima viene preparato un impasto di farina di frumento, sale, strutto e lievito. Dopo la lievitazione, la pasta viene ridotta in una sfoglia alta pochi millimetri (da circa 2 a 6) e tagliata in rombi di circa 10 cm di lato, che vengono fritti secondo la tradizione in abbondante strutto bollente. Lo strutto di maiale ha un punto di fumo molto alto (ca. 230 °C). Le moderne norme di sicurezza imposte a bar, ristoranti, mense e comunità rendono difficile reperire in commercio friggitrici che superano la temperatura di 190 °C.
Dovendo calare la temperatura di frittura, almeno negli ambienti industriali e della ristorazione, si è costretti ad usare vari olii al posto dello strutto, che alla temperatura di 190 °C lascerebbe lo gnocco eccessivamente unto. Si ricorre quindi all'utilizzo di olii di semi o di palma, frazionato o bifrazionato ad una temperatura di frittura che può variare fra i 180 °C ed i 188 °C in relazione allo spessore della pasta da friggere. La pasta viene quindi fritta (normalmente circa un minuto per lato) e si gonfia formando una "pancia". Lo gnocco fritto può essere gustato dopo averlo riempito con affettati, formaggi.
Impasto della versione bolognese
Nella versione bolognese (denominata localmente "crescentina") l'impasto è composto da:
farina tipo 00 (grano tenero)
lievito istantaneo (1 bustina ogni circa 500 grammi di farina)
un pizzico di sale
latte per impastare
A volte si aggiunge anche un po' d'olio, ad esempio un paio di cucchiai per 1 o 2 kg di impasto, per far sì che durante la frittura assorba meno grasso.
Riconoscimenti
La regione Emilia-Romagna e il Ministero hanno incluso lo gnocco fritto, con la settima revisione, nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T.).

LATTE BRUSCO
un litro di latte,
150 grammi di farina,
60 grammi di burro,
100 grammi di pane grattugiato,
6 uova,
mezza cipolla, un ciuffo di prezzemolo, olio evo, sale.
Tritate la cipolla con il prezzemolo e fateli rosolare nel burro a fiamma dolce per una decina di minuti, unite la farina e mescolate. Aggiungete sempre mescolando il latte e continuate così per altri 20 minuti. Ritirate la casseruola dal fuoco, aggiungete due uova intere e quattro tuorli leggermente sbattuti, tenendo da parte gli albumi. Amalgamate, salate e rimettete di nuovo sul fuoco facendo cuocere a fiamma bassa per mezz'ora sempre mescolando. Ungete un grande piatto con un po' d'olio e versate la crema di latte, stendetela con la lama di un coltello o una spatola in modo che mantenga uno spessore di circa due centimetri. Fatela raffreddare. Tagliate delle losanghe di circa 4 centimetri per lato, passatele negli albumi sbattuti, quindi nel pangrattato e friggetele in olio caldissimo. Servite subito.

PANELLE

gr.200 farina di ceci;
per friggere
lt. 2 olio di arachidi.
Fare sciogliere in ½ lt. di acqua fredda la farina di ceci con sale e pepe a mescolare bene fino alla scomparsa di eventuali grumi. Mettere il tegame a fuoco moderato e mescolando continuamente ottenere all’ebollizione un impasto denso che si stacchi dal fondo. Versare su un ripiano di marmo o su di una teglia molto bassa e larga, livellando con una spatola la polenta in uno strato regolare di non più di 3 cm. Al raffreddamento tagliare a rombi o quadri di 5 cm. di lato e friggere in abbondante olio molto caldo.

PANISSA LIGURE
g 280 farina di ceci
Sale fino g 10
Per condire
2 limoni
Olio evo
Per friggere
1 l olio di semi di arachidi
Mettete la farina di ceci in pentola. Mescolando con una frusta, versate a piccole dosi l’acqua leggermente tiepida: amalgamate bene per evitare la formazione di grumi. Salate, ponete su fuoco lento e rimestando in continuazione con un cucchiaio di legno portate a cottura per almeno un’ora. La panissa sarà cotta quando si staccherà dalle pareti della pentola. La panissa può essere servita calda, nei piatti, condita con olio, limone e pepe. Oppure: fate cuocere ancora un po’ l’impasto, finché avrà la consistenza di una soda polenta, poi rovesciatelo su un largo piatto o su un piano di marmo, distendendolo, con una spatola, in modo uniforme. Appena la panissa sarà ben raffreddata, tagliatela a grossi fiammiferi di 7-8 cm e friggeteli in abbondante olio bollente a 180 °C. Scolateli e sistemateli su carta di tipo assorbente. Serviteli caldi con un pizzico di sale e una spruzzata di succo di limone. Nel Savonese, per tradizione, da aprile a settembre, la panissa viene tagliata a fette e usata per farcire un riquadro di focaccia all’olio o pane azzimo.
La panissa è un piatto tipico della cucina ligure per il quale si usano gli stessi ingredienti della farinata di ceci, con l'esclusione però dell'olio di oliva. Si unisce la farina di ceci con l'acqua ed il sale e si mette sul fuoco, quando ha raggiunto una certa consistenza si rovescia dentro a dei piatti fondi oppure, più spesso, in appositi stampini lunghi e stretti con profilo semicircolare di 7-10 cm di diametro. Dopo che si è solidificata si taglia a fette con sezione semicircolare, si taglia a cubetti e si serve fredda o tiepida, condita con olio e limone, o si condisce con cipolla. Oppure si friggono le striscioline in abbondante olio, dando origine alle Fette, analoghe alle panelle palermitane; si servono salate da sole o, più spesso, dentro un panino speciale, a forma di piccola focaccia bianca senza crosta, rotonda, piatta e senza sale: sono le "fette con le fugassette". Il piatto ligure è totalmente diverso dall'omonimo piatto tipico della cucina piemontese. Sicuramente dovuto ai rapporti commerciali con le Americhe confluenti in Europa attraverso il porto di Cadice (Spagna), questo piatto esiste anche nella cucina della città iberica con il nome di paniza. La versione spagnola è preparata usando la farina di ceci in una percentuale variabile fino al 20% insieme alla farina di frumento per dar consistenza al tipico fritto di pesce locale. È un cibo di origine povera, ma nutriente.

PASTE CRESCIUTE

400 gr di farina
25 gr di lievito di birra
sale, pepe (facoltativo)
olio per friggere
Sciogliete, in una ciotolina, il lievito di birra con un po' d'acqua tiepida. Aggiungete un pizzico di sale, la farina e acqua tiepida, un po' alla volta, fino ad ottenere un impasto molle. Mettete la pastella a riposare, coperta da uno strofinaccio pulito, in un luogo fresco ed asciutto per circa 2 ore. Trascorso il tempo friggetela a cucchiaiate nell'olio ben caldo creando delle palline. Quando saranno cotte e ben dorate da entrambe le parti scolatele ed asciugatele sulla carta assorbente, spolverate con il sale e il pepe (se piace) e servite subito in tavola.
Le paste cresciute (pasta crisciute in napoletano) sono un prodotto tipico napoletano di friggitoria, dette anche zeppole, da non confondersi con le omonime pietanze da pasticceria.
Sono frittelle salate sferiche irregolari fatte di pastella di farina, acqua e lievito naturale. Vengono fritte in abbondante olio bollente. Si vendono nelle friggitorie tipiche di Napoli insieme ad altri prodotti caratteristici come gli scagliozzi/scuppette (fette triangolari di polenta fritte), i sciurilli (fiori di zucchini), le fette di melanzane fritte in pastella (simili alla tempura giapponese), piccoli arancini rotondi (palle di riso) e crocchè di patate.
Una variante molto apprezzata nel napoletano prevede l'aggiunta all'impasto di pezzetti di alghe di mare. Questa variante è diffusa come antipasto nei ristoranti, ma in genere non è venduta nelle friggitorie tipiche. Altre possibili aggiunte sono acciughe salate o cicenielli.

PETTOLE PUGLIESI
500 gr di farina
50 gr di lievito
12 gr di sale
300 ml di acqua tiepida
acciughe q.b.
olio per frittura q.b.
Impastate in una pentola di creta con un cucchiaio di legno la farina, il lievito, il sale e l'acqua tiepida. Lavorate per bene fino al momento in cui, seppur ancora lentamente, l'impasto si staccherà dalla pentola. Lasciate lievitare l'impasto finchè non vedrete apparire le bolle sulla superficie. Riempite una padella con un'abbondante quantità di olio e mettetelo a riscaldare sul fuoco. Con un cucchiaino bagnato di acqua, strappate dei piccoli pezzi di impasto e inseritevi all'interno un'acciuga per ognuno. Mettete le pettole a cuocere nell'olio bollente, nel quale assumeranno la forma di pallottole leggere e soffici. Le pettole devono essere belle dorate da entrambi i lati, quindi in cottura vanno girate con una pinza. Estraetele con uno stecchino dalla padella e poggiatele su della carta da cucina per far assorbire l'olio in eccesso. Servite le pettole pugliesi salate ben calde e croccanti. Le pèttole (pèttëlë a Foggia, nel Tarantino e nel Materano, scorpelle a San Severo, pèttuli nel Brindisino, pìttule nel Leccese, pèttule nel Potentino) sono pallottole di pasta lievitata molto morbida fritte nell'olio bollente, tipiche delle regioni Puglia e Basilicata. A Foggia è usanza preparare l'impasto per le pettole dal primo mattino del 24 dicembre per friggerle e consumarle ancora calde verso mezzogiorno come "spuntino" in attesa del cenone della vigilia. Come variante c'è l'aggiunta di alici sott'olio (prima della frittura) o la preparazione di vere e proprie pizzette fritte da condire con pomodoro, basilico e pecorino. Alcune famiglie ripropongono le pettole la mattina del 31 dicembre. A Monte Sant'Angelo nell'impasto si aggiungono anche delle patate lesse affinché la pettola risulti essere più morbida. A Brindisi, tradizione vuole che le pettole vengano preparate il 7 dicembre, ovvero il giorno della vigilia dell'Immacolata Concezione, per poi essere riproposte nel periodo natalizio. In molte altre località, la data di inizio della preparazione delle pettole è invece la festa dell'Immacolata Concezione, l'8 dicembre, infatti nel Salento tarantino e precisamente a Lizzano, c'è un proverbio che dice: Ti la Mmaculata la prima ffrizzulata, ti la Cannilora l'ultima frizzola, cioè: Nel giorno dell'Immacolata, la prima preparazione di pettole, nel giorno della Candelora, l'ultima. Nella zona leccese del Salento la prima frittura avviene l'11 novembre, giorno in cui si celebrano San Martino e, secondo la tradizione, la fine del periodo di fermentazione del mosto che coincide quindi con l`arrivo sulle mense del vino nuovo o novello. È costume ancora molto praticato tra i leccesi, per l'occasione, festeggiare Santu Martinu ritrovandosi tra amici e parenti, preferibilmente nelle tipiche abitazioni di campagna normalmente preposte alla villeggiatura estiva. L`usanza locale prevede il consumo, oltre che delle pittule e del vino novello, anche di carni arrostite alla brace, particolarmente di cavallo e di maiale. Nell'area di Taranto si preparano nel giorno in cui si festeggia Santa Cecilia, il 22 novembre, e a seguire durante le festività natalizie. In alcuni comuni del sud-est barese, come Rutigliano è consuetudine prepararle il giorno di Santa Caterina, il 23 novembre. Si usa ancora prepararle recitando preghiere. Questo piatto è noto a Gallipoli a partire dal 15 ottobre giorno in cui si festeggia Santa Teresa d'Avila che introduce nella stessa città il periodo natalizio. Possono essere rustiche o dolci, semplici o ripiene, e spesso vengono usate in sostituzione del pane, oppure come antipasto. In tutte le varianti, si realizzano utilizzando farina, patata, lievito di birra, acqua e sale, ma ne esiste anche una versione più semplice che non prevede l'utilizzo della patata e comunque la pasta deve risultare piuttosto fluida per poterla versare nell'olio senza fare un panetto solido destinato ad inzupparsi di olio. La forma può essere quella della "pallottola" oppure di una ciambella, come è tradizione a Ferrandina, Bernalda, Salandra e Pomarico. La ricetta tipica usata a Taranto è quella che le vede cosparse di zucchero, ma anche di sale. In altre zone della Regione è possibile degustarle ricoperte di vincotto o vincotto di fichi o miele, ma volendo si possono riempire con piccoli pezzi di baccalà lessato o di alice salata, oppure con un broccoletto di cavolo cotto a metà.

SCAGLIOZZI PUGLIESI
1500 g di acqua
380 grammi farina di mais (polenta)
120 grammi di ciccioli di maiale
120 grammi di pecorino romano a dadini
2 cucchiai di olio evo
1 cucchiaio di sale fino,
pepe
olio di semi di girasole (per friggere)
In una pentola mettere l’acqua, la polenta il sale e l’olio e cuocere a fuoco medio fino al completo assorbimento dell’acqua, girando continuamente con un cucchiaio di legno. Quando la polenta è pronta, spegnere il fuoco e aggiungere il pepe, i ciccioli di maiali e il pecorino romano tagliati a dadini; girare per qualche minuto. Trasferire la polenta ottenuta su un tagliere rotondo e aiutandosi con una spatola stenderla nello spessore di circa 1,5 cm. Lasciarla riposare per almeno un paio di ore finchè non diventa compatta. Portare a temperatura l’olio in una padella antiaderente, nel frattempo ricavare gli scagliozzi in questo modo, tagliare a metà la polenta, poi ancora a metà, finchè non avrete ottenuto 16 triangoli. Quando l’olio ha raggiunto la temperatura giusta, friggere gli scagliozzi fino a completa doratura, metterli su carta assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Trasferiteli su un vassoio da polenta e aggiungere il sale e il pepe. Servire belli caldi. Gli scagliozzi sono un prodotto tipico di cucina foggiana da friggitoria anche presente nella cucina napoletana e quella toscana e barese. Sono fette di polenta, la quale generalmente viene lasciata a seccare qualche giorno dopo la preparazione per perdere un po' del suo contenuto d'acqua e poter essere fritta senza sciogliersi nell'olio bollente, tagliate a forma di piccoli triangoli, fritte in abbondante olio bollente e salate. Si vendono nelle friggitorie tipiche di Foggia. A Bari è invece tradizione trovare questa preparazione in bancarelle allestite nel centro storico, in particolare nei giorni di festa.

SCHITA
La schita è una frittella composta da acqua, farina e strutto tipica dell'Oltrepò Pavese.
Si prende una biella (ciotola), si mette un po’ di farina, un pizzico di sale e si “bagna” il tutto con l’acqua. Poi si frigge in una padella, versando il preparato fino a stenderlo in modo omogeneo su tutta la superficie. Dopo qualche minuto si gira, si attende finché è ben dorata ed è pronta per essere servita. Tipica dell'Oltrepò Pavese (dove viene anche chiamata schita d’ra nona, “la schita della nonna”) è conosciuta anche come farsùla o paradèla. In base alla tradizione, una volta fritta, viene mangiata senza nessun'altra aggiunta. Tuttavia oggi ci sono diverse versioni: dolce (aggiungendo un pizzico di zucchero oppure anche una goccia di miele) e salata. Si può accompagnare anche ai salumi locali.
100 g farina,
50 g acqua tiepida,
10 g latte,
10 g sale,
strutto per friggere
E' una ricetta povera delle terre dell'Oltrepò pavese. Unisci alla farina il latte e l'acqua tiepida a filo, mescolando in modo da non avere grumi. la consistenza dev'essere di un liquido denso (appena più denso della crepe), se la farina assorbe troppa acqua aggiungine ancora un po'. Fai scaldare lo strutto in una padella sufficientemente larga e versaci l'impasto. Se aumenti le dosi versalo con un mestolo. Aggiungere sale.

SCUGNIZZIELLI
250 gr di polenta
100 grammi di ciccioli
sale, pepe
olio (per friggere)
Preparare la polenta. Nel frattempo prendere i ciccioli, cioè grasso del maiale lavorato, tagliateli a pezzettini molto piccoli ed andate ad incorporali nella polenta ancora calda. Stendere la polenta e farla raffreddare. Con un coltello affilato ricavate dei triangoli. Friggere in padella con l’olio di semi bollente finchè non saranno ben dorati su ambo le parti, scolate su carta assorbente da cucina.
Gli scugnizzielli sono un antipasto tipico napoletano. Consiste in strisce di pasta da pizza, fritte e servite come antipasto con pomodori tagliati a tocchetti, oppure salsa di pomodoro, olio extravergine di oliva, sale e pepe. Esiste anche la variante dolce. Si tratta di una variante delle pastacresciute, con l'aggiunta del condimento.

TIRTLEN

200 g di farina bianca
200 g di farina di segale
1/8 l di latte tiepido
1 uovo
400 g di spinaci
200 g di ricotta fresca
cipolla, noce moscata, sale.
Impastare i vari ingredienti e lasciar riposare la pasta per una mezz'ora. Con la pasta tirata sottile formare quindi dei dischi di circa 10 centimetri di diametro. Riempirli con gli spinaci, richiudere bene con un altro disco e friggere in olio bollente.