Acqua imbottigliata (600 cl per Kg di farina)
Lievito Madre
La sera prima si lavora la semola, circa un 40% dell'intero impasto, insieme al semolato, circa un 10% dell'intero impasto, per circa 15/20 minuti con un'impastatrice altrimenti circa 40 minuti se lavorato a mano, ottenendo così una pasta elastica e liscia. Per impastare semola e semolato utilizzate solo una piccola parte dell'intera quantità d'acqua che servirà per il totale impasto. Avvolgere l'impasto con della pellicola trasparente affinché su quest'ultimo non si formi quel leggero strato di crosta dovuto al contatto con l'aria. Se l'impasto risulta essere troppo morbido si rischia che la pellicola trasparente si amalgami all'intero impasto risultando difficile o quasi impossibile separare i due, dunque assicurarsi di utilizzare una quantità di acqua inferiore e di recuperarla in seguito con l'intero impasto di semola e semolato. Tenete conto che, il giorno dopo, l'impasto di semola avrà una consistenza molto inferiore di quando l'avete lasciato riposare. La mattina successiva si lavora il restante 50% di semolato che va aggiunto al precedente impasto di semola e semolato ed al lievito madre. Il lievito madre è dato dalla fermentazione di un pezzo di pasta (su frammentu), ricavato da un precedente impasto (il lievito, affinché continui a fermentare, viene lasciato riposare coperto interamente dalla farina dentro un contenitore se riutilizzato entro la settimana oppure può essere conservato in freezer, dopo averlo fatto riposare almeno un giorno intero nel contenitore coperto dalla farina, per garantirne la durata nel tempo) che lavoreremo con del semolato. La quantità di semolato che ci servirà per lavorare su frammentu sarà uguale al 10% dell'intero impasto. Ad esempio: se intendiamo fare 10 kg di pane impasteremo 4 kg di semola insieme ad 1 kg di semolato, lo aggiungeremo ai 5 kg di semolato del giorno dopo ed infine lo uniremo ad 1 kg di lievito preparato il giorno prima), e lasciato riposare ben coperto per diverse ore che variano a seconda della temperatura esterna. Lavorare il tutto nei contenitori in terracotta xifedda (pronunciato in "scivedda"). Una volta impastato il tutto è bene lasciarlo lievitare minimo due ore all'interno dello stesso contenitore di terracotta che manterrà così l'impasto caldo, coprendolo con dei teli lavati a mano con del sapone di Marsiglia. Il pane è un alimento delicato che, durante la lavorazione, assorbe qualsiasi tipo di odore o profumo, anche dei detersivi. Dopodiché si fanno le forme, lasciando lievitare anch'esse minimo un'ora all'interno di canestri, recipienti di giunco o materiali simili (parinedda) sempre coperte con i teli. Il nostro pane è pronto per essere infornato.
Civraxiu dal latino “cibarius”, conosciuto anche col nome di civràxu, civàrxu o semplicemente pane di Sanluri. Esiste anche una leggenda, che vuole che nell’anno 235 a.C. un soldato, il legionario romano di nome Ciro e un ragazzo di nome Vargio con la semola di grano duro inventarono un buon pane. Gli abitanti della zona talvolta lo chiamava Ciro, talvolta Vargiu, altre volte Ciro-Vargiu o in modo abbreviato Ci-Vargiu, col tempo il nome divenne civraxiu
Caratteristiche
Pane di semola di grano duro, caratteristico profumo, peso non inferiore a 2 kg, base circolare, presenta una crosta croccante e la mollica morbida. Grazie alla sua preparazione e agli ingredienti rimane buono e morbido per lungo tempo. In passato veniva preparato una volta alla settimana.
Il Coccoi a pitzus è un tipico pane decorato, di semola di grano duro prodotto in Sardegna conosciuto anche col nome di su scetti o pasta dura. È un tipo di pane pregiato che in passato si preparava per le grandi ricorrenze, matrimoni (coccoi de is sposus) e la Pasqua (coccoi cun s'ou). Pane di pasta dura, di forma complessivamente tonda o a semicerchio, crosta dorata croccante, mollica compatta e di colore bianco con tipiche sporgenze (pitzus).
Gli ingredienti sono semola di grano duro, acqua, sale su fromentu "pasta acida".
Uno statuto del 1287 ordinava ai panettieri di fare pane:
con orletti
che non si abbassasse quando si cuoceva
di un peso specifico
ben cotto
quando ultimato di coprirlo con un drappo bianco
apporre un sigillo che identificasse il produttore
i forni non dovevano essere situati nelle vie più trafficate perché il pane non si impolverasse
La versione più rassomigliante nella forma all'attuale coppia ferrarese si può far risalire al Carnevale del 1536. Quando in una cena imbandita in onore del duca di Ferrara, secondo la leggenda, messer Giglio presentò in tavola un pane ritorto, con i caratteristici "crostini" aventi una forma simile a cornetto.
Metodo di produzione
Lavorazione: gli ingredienti vengono lavorati nell’impastatrice per 15/20 minuti. La pasta viene “stirata” nel cilindro con 15/20 passaggi. Viene tagliata a strisce e immessa nella macchina per la formazione delle coppie. Il pane viene posto su assi di legno coperto da un telo e immesso nella cella di lievitazione per 70/90 minuti. La cottura avviene in forni a platea fissa (calore dal basso verso l’alto). Pesa tra gli 80 e 250 gr. Umidità massima da 12 al 15%. Venduto entro 24 ore, non potrà essere surgelato o congelato. Anche nella proposta di modifica del disciplinare del 2007 viene confermata la stessa procedura.
Conservazione domestica della coppia
La conservabilità della coppia ferrarese è infatti nella sua origine storica. Le tradizioni rurali del territorio di Ferrara infatti prevedevano che in famiglia si panificasse una o al massimo due volte a settimana. Questo comportava la necessità della conservazione del pane per diversi giorni. Per questo motivo non è escluso che la ricetta della coppia ferrarese si sia progressivamente adattata a questa necessità di avere pane buono anche dopo giorni. Il pane infatti rimane friabile e sempre adattissimo per molte pietanze.
Come per gli altri tipi di pane è bene che nei contenitori dove si conserva la coppia non vi siano cibi aromatici, perché il pane in breve tempo acquisisce il loro sapore. Negli ultimi anni si è imposto anche il metodo di conservazione mediante surgelazione domestica. Il pane quindi può essere consumato anche molto tempo dopo la sua produzione
La coppia ferrarese nella cultura
Riccardo Bacchelli parlava del pane ferrarese come de “Il Pane migliore del mondo.” Nella sua opera "Il mulino del Po" narra appunto del luogo dove si produceva la farina per il pane ferrarese.
Il rito della panificazione domestica nelle famigle ferraresi è cantato anche da Corrado Govoni in "Casa Paterna" nell'opera poetica "Inaugurazione della primavera" del 1915. Ed in un altro luogo ebbe occasione di dire: "Il nostro Pane: orgoglio di noi ferraresi. Dono dell'aria, dell'acqua, dell'uomo. Offerta generosa di Ferrara al mondo.”
I dischi di terracotta o di pietra refrattaria in cui originariamente erano cotte le crescenti sono chiamati tigelle e per questo motivo oggi, nelle zone di pianura e nel resto d'Italia, ci si riferisce alle crescentine con il sempre più diffuso appellativo metonimico di tigelle, nonostante - secondo i puristi - l'unico nome corretto rimane crescentina perché quello originario ed etimologicamente esatto.
Le crescentine modenesi si preparano a partire da un impasto di acqua, farina di grano tenero e lievito di birra, da cui si formano palline o dischi del diametro di 6-10 cm. In alcune varianti viene aggiunto anche un pizzico bicarbonato di sodio, e una piccola quantità di grassi come ad esempio strutto, olio (di oliva o di girasole), panna oppure latte. Il bicarbonato di sodio, in alcune ricette, sostituisce completamente il lievito, trasformando quindi la crescentina in un pane azzimo.
La cottura tradizionale avveniva impilando la pasta in alternanza con dischi di terracotta (chiamati tigelle) precedentemente arroventati nel camino e foglie di castagno o di noce. Questi erano rotelle di circa 15 cm di diametro ed un centimetro e mezzo di spessore, formate tradizionalmente con terra di castagneto finemente triturata e modellata in uno stampo di legno con incisioni in bassorilievo (decorazioni geometriche o floreali che poi rimanevano stampate sulla pasta durante la cottura) e poi essiccati e cotti.
Con opportuna maestria la cuoca spostava periodicamente gli elementi della pila per rendere uniforme e verificare l'avanzamento della cottura. Attualmente la cottura è solitamente effettuata in maniera più veloce ponendo i dischi di pasta tra due piastre di materiale refrattario o metallico (dette cottole), in macchine appositamente realizzate per lo scopo, alimentate a gas o elettricità. L'attrezzo più diffuso per l'uso familiare è uno stampo in alluminio che può contenere dalle 4 alle 7 crescentine.
Le crescentine cotte vengono tradizionalmente consumate tagliandole a metà ed imbottendole con un pesto formato da un trito di lardo di maiale, aglio e rosmarino (noto localmente come cunza di Modena, lo stesso usato per i borlenghi) e con Parmigiano Reggiano. Oggi, oltre ad esso vengono anche imbottite di affettati e formaggi.
Si è diffusa anche l'abitudine di utilizzare come farcitura marmellate e creme di cioccolato, cosa però vista malvolentieri dai cultori della tradizione dell'Appennino.
In passato il pane era elemento centrale per l'alimentazione dei poveri. Il pane casereccio viene prodotto senza aggiunta di grassi. La lavorazione richiede alcune ore tra lievitazione, formatura e pezzatura, prima di passare alla fase di cottura che avviene nel forno a legna. Si caratterizza per la sua fragranza e digeribilità. Veniva prodotto con ogni tipo di cereale: dal frumento, all'orzo, all'avena, al sorgo. Ancora oggi molto diffuso e particolarmente saporito è il pane di porri e di patate.
PANE CARASAU
I due tipi principali di impasto sono uno a base di fior di farina di grano duro (più pregiato) e consumato dalle famiglie più agiate, l'altro a base di farina d'orzo o cruschello, di colore scuro, consumato dai meno abbienti.
S'inthurta è la prima fase della lavorazione e avviene prima del sorgere del sole. Il lievito già precedentemente sciolto in acqua tiepida viene mescolato alla farina passata al setaccio (sedattu) e impastata dentro una madia di legno chiamata nelle diverse varianti del sardo iscivu, lacu, lachedda, oppure dentro una conca di terracotta (tianu, impastera). Esistono molte varianti sulla preparazione dell'impasto, sulla sua lavorazione e sulla cottura del pane, varianti che determinano sfumature di sapore, di leggerezza della sfoglia, di dimensione della stessa, e che seguono antiche tradizioni familiari o paesane.
Cariare o hariare. Durante questa seconda fase l'impasto viene lavorato energicamente sul tavolo (sa mesa pro su pane, sa mesitta), nel passato non ancora lontano anche in ginocchio sulla madia stessa. La pasta fresca viene schiacciata, allargata con la pressione dei pugni e riavvolta su stessa, con l'aggiunta di acqua viene manipolata con forza (ammoddihare) fino ad ottenere un impasto liscio. Da questa fase dipende molto la riuscita del pane e la sua durata è diversa per le tante varietà. Per il carasau o altri pani di grano duro è necessario continuare più a lungo: più la pasta è ben lavorata, più il risultato sarà apprezzabile. Questa fase è molto faticosa e spesso le donne sono aiutate dagli uomini.
Pesare. La fase della lievitazione viene chiamata pesare (alzare). La pasta ben lavorata viene posta in speciali contenitori come conche di terracotta o come in Barbagia dentro il malune di sughero, ben ricoperta con teli di lana. Si lascia riposare l'impasto mentre si preparano gli strumenti per passare alle fasi successive.
Orire, sestare. Una volta constatato l'avvio della lievitazione si divide l'insieme dell'impasto in tocchi regolari (sestare, orire) che vengono arrotondati, infarinati e riposti in particolari canestri (sas horves, canistreddas) avvolti tra le pieghe di teli di lana o di lino per farli riposare (pasare) ancora in modo da continuare la lievitazione.
Illadare. Durante questa fase la pasta lievitata si lavora con dei piccoli mattarelli in legno (canneddos, cannones) e mediante i polpastrelli delle mani, infarinandola in continuazione, appiattendola e allargandola a formare dei dischi (sas tundas) dal diametro variabile a secondo le località. Ottenuto il diametro e lo spessore desiderato, si depositano sulle pieghe di speciali panni di lana chiamati pannos de ispica o tiazas. Questi sono dei panni particolari, lunghi anche dieci metri e larghi 50 cm. Vengono tenuti solitamente arrotolati, ma nel momento del loro utilizzo si srotolano progressivamente prima verso destra per un tratto di 50 cm, e - una volta depositata la sfoglia sferica (sa tunda) - verso sinistra, a coprirla completamente, permettendo in questo modo di depositarne un'altra sulla parte superiore della piega, e così via in un susseguirsi di piegature fino al completo srotolamento. Vengono poi messi da parte e coperti con delle coperte. Ogni pannu de ispica o tiaza, a secondo della sua lunghezza, può contenere fino a venti tundas che sono in questo modo facilmente trasportabili.
Kokere. Per il forno si utilizza legno di quercia o di olivastro. Una volta introdotto viene sistemato nel centro del forno. Dopo l'accensione del fuoco (inchendya de su forru), che avviene solitamente mentre si preparano le sottili e sferiche sfoglie di pasta, il forno inizia a scaldarsi e a raggiungere una temperatura (temperare su furru) stabile di 450-500°. La fase della cottura dei pani avviene dopo che le braci sono state spinte da una parte tramite una particolare paletta in ferro (palitta 'e furru) e la pavimentazione del forno spazzata con una scopa speciale (iscovulos, ishopiles). Quando la persona addetta ritiene il forno abbastanza caldo, inizia la fase della prima cottura. Da una tiazza viene prelevata una tunda e tramite una pala in legno dalla forma arrotondata per meglio contenerla chiamata pala 'e linna o pala lada, introdotta nel forno per la prima cottura. Il forte calore rigonfia la foglia in poco tempo formando una palla. L'aria al suo interno inizia ad espandersi, determinando la separazione dei due strati. A seconda delle tradizioni locali la si rivolta o meno, e vi si appoggia delicatamente la pala in legno per favorire l'omogeneità del rigonfiamento spingendo il vapore verso quelle parti non ancora staccate. Non sempre il rigonfiamento è uniforme.
Fresare o calpire. Una volta sfornato il disco di pasta, le due facce ormai distaccate vengono separate (carpire, calpire o fresare) con il coltello, velocemente, possibilmente prima che l'aria defluisca da qualche fessura o che si riduca troppo di volume e la sfoglia si afflosci per il raffreddamento. Questa operazione richiede maestria e chi se ne occupa (sa fresadora) deve fare attenzione perché la sfoglia è molto calda e sprigiona vapore; afflosciandosi inoltre può capitare che le due parti (sos pizos) si riattacchino impedendo una corretta separazione (fresare su pane, aberrer a pizos). Non sempre l'operazione riesce specialmente se il forno non ha raggiunto la giusta temperatura (o non riesce a tenerla), o se la lievitazione non è abbastanza. I dischi (sos duos pizos) che rappresentano il prodotto finale hanno una faccia liscia (quella che era all'esterno della focaccia) ed una ruvida (il lato interno della focaccia originale). Il pane ottenuto dalla prima cottura e separato in due sottili strati viene chiamato pane lentu, pane modde o pane cruhu, ed ha la caratteristica di essere abbastanza elastico da non spezzarsi facilmente, inoltre può essere piegato o arrotolato a piacimento, caratteristica che riacquisterà dopo la carasatura solo con immersione in acqua. Può essere consumato anche subito ed il sapore è altrettanto apprezzabile, ma a differenza del carasau non si presta ad una lunga conservazione. Se il pane deve essere trasportato, in questa fase, grazie alla sua elasticità, la sfoglia può essere piegata in due a formare una mezzaluna, o ripiegata ulteriormente di un quarto per adattarla ai contenitori, e rimessa in forno con questa nuova forma per la tostatura. Dopo la separazione, sos pizos vengono impilati dentro dei cesti e solamente quando tutte le tundas saranno cotte si passa alla fase successiva.
Carasare. Con l'ultimazione della prima cottura, di solito nel primo pomeriggio dopo la sosta del pranzo, si procede alla seconda infornata necessaria a completare l'intero processo. Sos pizos uno per uno vengono rimessi dentro il forno per la cottura finale (sa carasadura). A secondo dei gusti dei nuclei familiari, le sfoglie vengono lasciate nel forno per un tempo più o meno lungo; di solito quelle che assumono un colore più scuro sono le più tostate ed hanno una sfumatura di sapore diverso dalle altre più chiare e meno tostate. Man mano che le sfoglie escono dal forno, vengono impilate (piras de pane) in grossi cesti di asfodelo (isportas). Queste caratteristiche piras sono spesso alte fino ad un metro, vengono avvolte in speciali panni e viene sistemato sulla sommità un peso, di solito un'asse in legno di forma rotonda o dei panni in modo da pressare un po' le sfoglie.
Consumo
Uno dei modi più diffusi di consumo ha luogo con l'aspersione o una rapida immersione in acqua (pane infustu), passaggio che restituisce alla sottile sfoglia l'umidità e conseguentemente la morbidezza necessaria perché possa essere avvolta intorno a salumi affettati e formaggi o essere associata ad altro companatico. Anche bagnato, il pane carasau continua ad avere la caratteristica di assorbire i liquidi con cui entra in contatto. Questa caratteristica è sfruttata per usarlo sotto le pietanze succose, ad esempio carni rosse cotte al sangue, o comunque quei cibi che rilasciano oli o grassi (dalla carne di maiale, alla verdura). Per bagnarlo si deve far scorrere dell'acqua unicamente dalla parte interna e ruvida della sfoglia per poi far subito sgocciolare la stessa tenendola qualche istante in posizione verticale; se il pane risulta troppo bagnato viene considerato da un vero barbaricino alla stregua della pasta scotta per un napoletano. Le grosse briciole che residuano invariabilmente alla spezzatura delle sfoglie sono dette nell'insieme "farrutta", pistizzu o frikinadura, ed uno dei loro utilizzi tipici, che peraltro consente di non perdere gli avanzi, è nel caffelatte.
Il pane guttiau
L'Indicazione Geografica Protetta Pane Casareccio di Genzano si riferisce al prodotto di panetteria ottenuto da farina di ottima qualità di tipo 0 o 00, lievito naturale, sale, acqua e cruschello di grano. Il prodotto finito, estremamente leggero, si presenta nella classica forma a pagnotta tonda o in filone, con crosta scura e fine, mollica soffice e fortemente occhiata, dal profumo di cereale.
La zona di produzione del Pane Casareccio di Genzano IGP è limitata al territorio del comune di Genzano di Roma, in Provincia di Roma, nella regione Lazio.
L’Indicazione Geografica Protetta Pane Casareccio di Genzano è riservata al prodotto che ha le seguenti caratteristiche:
• peso da 0,5 a 2,5 kg;
• crosta di colore scuro, dallo spessore di circa 3 mm;
• mollica di colore bianco-avorio;
• profumo che ricorda quello dei cereali genuini e dei granai;
• sapore sapido;
• tasso di umidità non superiore al 33,7%;
• peso specifico pari a 0,23 kg/dm3.
A seconda della forma si possono distinguere le seguenti tipologie, così come immesse in commercio:
Filone: rotondo e lungo.
Pagnotta: con “baciature” evidenti ai lati.
Ogni pagnotta o filone di pane casareccio di Genzano IGP deve riportare sempre il bollino identificativo sul quale si trovano le seguenti indicazioni:
• PANE CASARECCIO DI GENZANO - INDICAZIONE GEOGRAFICA PROTETTA
• Garantito dal Mi.P.A.A.F. ai sensi dell’Art. 10 del Reg. CE 510/2006
• Il codice del produttore autorizzato
• Il numero progressivo di produzione.
• Il logo comunitario dei prodotti IGP
L’Indicazione Geografica Protetta pane casareccio di Genzano ha ottenuto la registrazione europea con Regolamento CE n. 2325/97 (pubblicato sulla GUCE L 322/97 del 25/11/1997).
Storia
Il pane di Genzano IGP è ottenuto attraverso le seguenti fasi di produzione:
Impasto - viene preparata la biga, un preimpasto ottenuto tramite la miscela di acqua, farina e lievito. L’operazione dura circa 20 minuti, anche se il tempo necessario per tale fase può variare a seconda del quantitativo di preparato da lavorare. Per l’impasto di una dose pari ad 1 quintale di farina di tipo 0 o 00, vanno aggiunti: 2 kg di sale, 1,5 kg di lievito naturale e 70 l di acqua circa. Lievitazione - dura circa 1 ora, tempo durante il quale l’impasto raggiunge il punto ottimale di lievitazione, anche se spesso è il fornaio stesso a decidere se il preparato è pronto o meno per essere spianato.
Modellatura - l’impasto viene spianato e modellato per formare le caratteristiche pagnotte o i filoni, che vengono collocati all’interno di apposite casse di legno. Qui gli impasti vengono sistemati in teli di canapa e spolverati con cruschello o tritello, che conferiscono al prodotto il caratteristico colore scuro della crosta.
Seconda lievitazione - A questo punto il Pane Casareccio di Genzano IGP deve essere sottoposto ad una seconda fase di lievitazione che dura circa 40 minuti. Le casse contenenti il prodotto non ancora pronto devono, in questa fase, essere sistemate in un ambiente caldo con una temperatura idonea alla lievitazione.
Cottura - il Pane Casareccio di Genzano IGP può venire cotto sia in forni a legna sia in forni ad alimentazione diversa. La temperatura del forno deve essere compresa tra i 280 ed i 320°C al fine di permettere al prodotto di raggiungere al suo interno una temperatura di cottura compresa tra i 94 ed i 96°C ottenendo così una cottura uniforme e completa e di consentire il formarsi di una crosta di circa 3 mm di spessore. Proprio la conformazione di questa parte più superficiale del pane, consente alla mollica del prodotto di rimanere spugnosa e soffice, con fori o alveoli irregolari e non eccessivamente grandi. A seconda delle dimensioni delle pagnotte e dei filoni, la fase di cottura può durare dai 35 minuti fino ad 1 ora.
PANE DELLA VAL BORMIDA
Il pane di Cutro è un prodotto tipico della cittadina omonima in provincia di Crotone ottenuto dall'impasto di semola di grano duro in gran quantità, e in seguito unito all'impasto a base di farina di grano tenero, lievito naturale, acqua e sale.
Nel 1998, grazie ad un'intesa tra Comune di Laterza e i più antichi panificatori locali, è nato il consorzio Pane di Laterza, per tutelare, valorizzare e promuovere il prodotto laertino.
La città di Laterza fa parte dell'Associazione nazionale città del pane, che ha tra i suoi scopi quello di promuovere il riconoscimento e la valorizzazione dei pani e di tipologie specifiche di pane legate a determinati territori.
L'agricoltura, e in particolare la coltivazione di cereali, è sempre stata alla base dell'economia laertina. L'utilizzo dei cereali per la produzione del pane, e di altri prodotti da forno, ha radici molto antiche nel territorio di Laterza, risalenti al V secolo a.C.. Farro e orzo erano gli ingredienti utilizzati, per quello che allora veniva chiamato focaccia. Al contrario di oggi, il lievito non era sempre utilizzato, e la cottura avveniva sotto la cenere o sopra la brace. Il pane prodotto era per lo più necessario a coprire le esigenze famigliari.
La panificazione, come servizio pubblico, fu introdotta dai romani che a loro volta avevano imparato quest'arte dagli schiavi greci che lavoravano per i nobili. Per diversi secoli, la produzione del pane era riservata solo ai nobili, gli unici che potevano permettersi di mantenere gli alti costi di gestione di un mulino o di un forno. In contrada Fornaci a Laterza è stato rinvenuto un forno attivo fino al 1700 di proprietà di un signore feudale, composto da una singola camera di combustione.
Fino al XVII secolo la produzione del pane per la vendita a terzi fu regolata dai calmieri, ovvero un insieme di norme volte al controllo dei prezzi per proteggere i consumatori. Queste norme, però, portarono inevitabilmente alla produzione di pane di bassa qualità, tant'è che furono ben presto abolite. Il problema del pane, però, diventava sempre più grave e durante la prima guerra mondiale veniva venduto ad un prezzo inferiore al costo di produzione. Questa politica provocò una grave crisi e fu, anch'essa, ben presto sostituita. Infatti a partire dalla seconda guerra mondiale i produttori di grano erano costretti a consegnare la propria produzione al Consorzio agrario di riferimento, il quale consentiva loro di trattenere solo una piccola parte necessaria al fabbisogno famigliare. Per le famiglie che, invece, non possedeva grano, il consorzio donava una razione giornaliera di 200 grammi di pane per ogni componente. Queste restrizioni furono abolite con il boom economico che investì l'Italia nella metà del Novecento.
Per quanto riguarda più in particolare Laterza, fino agli anni cinquanta, a differenza di altri centri, la gestione dei forni era affidata esclusivamente a quattro donne: la fornaia e tre operaie. Compito delle operaie era quello della preparazione della legna nel forno, del ritiro dell'impasto crudo fatto in casa dalle clienti, e della consegna del pane caldo al termine della cottura, con conseguente riscossione del compenso per la cottura. Compito della fornaia, invece, era quello della cottura del pane e, in generale, della gestione del forno, che la stessa aveva preso in fitto.
Caratteristiche
Fasi di produzione
Ingredienti utilizzati per l’impasto: farina di semola di grano duro rimacinata, acqua, sale, lievito madre.
Lievitazione: 6 ore.
Pezzature autorizzate: uno, due e quattro kg del diametro rispettivamente di 25, 35 e 45 cm circa.
Preriscaldamento del forno: utilizzo di fascine di legna di bosco o di ulivo; in alternativa può essere utilizzato nocciolino di albicocca o buccia di mandorle a seconda della disponibilità stagionale.
Cottura: lenta di 2 ore a 400 gradi in forno a riscaldamento diretto su pietra (dette chianche)
Cottura: lenta di 2 ore a 200 gradi.
L’impasto odierno è costituito da farina di semola di grano duro, sale e acqua (sette litri ogni dieci chili di farina). Comunemente viene utilizzato il lievito madre assieme a una piccola percentuale di lievito di birra, anche se non pochi fornai stanno tornando al lievito madre in purezza, il cosiddetto crescente. L’impasto riposa per una-due ore, secondo la stagione e la quantità di lievito impiegata. I pani, del peso di mezzo chilo, sono modellati a forma di esse e cosparsi di semi di sesamo in superficie. La cottura, della durata di circa 45 minuti, avviene in forni di pietra con fuoco diretto di legna (gusci di mandorle e, in misura minore, rametti di olivo e arancio). Il prodotto che si ottiene presenta mollica compatta con alveoli di piccola dimensione, crosta elastica e sottile.
La laboriosità del processo produttivo limita la produzione a una decina di laboratori artigianali; da qualche anno si sta assistendo a un rinnovato interesse da parte dei consumatori, favorito da una ristrutturazione dei vecchi forni e da una maggiore attenzione agli aspetti igienici della lavorazione. Notevole è anche il progetto di salvaguardia e tutela di questo prodotto da parte di Slow Food, che nel mese di ottobre 2008 ha inserito il Pane di Lentini fra i propri "Presidi". Il disciplinare del Presidio prevede l'utilizzo di semola di grano duro di varietà siciliane, acqua, sale marino e lievito madre (crescente) eliminando del tutto la piccola quantità di lievito di birra ancora impiegata nel pane comune. Grazie alla lunga e lenta lievitazione, il prodotto che si ottiene è caratterizzato da note olfattive e gustative più ricche e complesse e da una maggiore digeribilità.
La zona di produzione del pane di Matera è costituita da tutto il territorio della provincia di Matera; tuttavia il tipico pane a forma di cornetto è prodotto principalmente nel comune di Matera stessa e nei paesi dell'alta provincia materana (Montescaglioso, Irsina, Tricarico, Grassano, Grottole). Nei paesi della bassa provincia materana come Montalbano Jonico, Tursi, Pisticci si produce il pane di forma rotonda, leggermente diverso in termini di sapore e consistenza rispetto al tipico pane materano.
Il pane di Matera deve avere le seguenti caratteristiche:
Forma a cornetto oppure a pane alto;
Pezzatura da 1 o 2 kg.;
Spessore della crosta di almeno 3 mm;
Mollica di colore giallo paglierino con caratteristica alveolazione;
Umidità non superiore al 33%.
La scelta di vecchie varietà di grano, che conservano, nel loro patrimonio genetico, caratteristiche non presenti in altre, dà luogo a farine che trasferiscono al pane il gusto ed il sapore unico che lo contraddistinguono. Si aggiungano il processo di lavorazione e, nello specifico, la realizzazione del lievito madre, che, prodotto con frutta fresca, aggiunge ulteriori e particolari sensazioni di gusto.
Il prodotto si ottiene mediante l'antico processo di produzione che prevede l'utilizzo di lievito madre, semola di grano duro, sale e acqua. Parte delle semole da utilizzare per la produzione deve provenire da vecchie varietà coltivate nel territorio della provincia di Matera quali Cappelli, Duro Lucano, Capeiti, Appulo. Può essere cotto sia nel forno a legna che nel forno a gas. Il prodotto ottenuto, grazie agli ingredienti utilizzati ed alla specificità del processo di lavorazione, si caratterizza per un colore giallo, una porosità tipica e molto difforme (con pori, all'interno del pane, del diametro variabile da 2–3 mm. fino anche a 60 mm.), un sapore ed un odore estremamente caratteristici. La conservabilità del pane, così ottenuto, può raggiungere i 7 giorni di tempo per le pezzatura da 1 kg. ed i 9 giorni per la pezzatura da 2 kg.
Nel 2006 il pane della città dell'Arcangelo Michele viene inserito nell'Atlante regionale (pugliese) dei prodotti tipici.
Gli ingredienti per la sua preparazione sono la farina di grano tenero Tipo"0", l'acqua, il sale e il lievito naturale (in dialetto locale lu crescente). La farina viene mescolata al lievito naturale e poi stemperata in acqua con l'aggiunta di sale. L'impasto così ottenuto viene lasciato lievitare e dopo ciò viene modellato per ottenere la pagnotta di pane. Fatto questo le forma di pane la si lascia a riposo in cassoni di legno prima di metterla in forno, alla temperatura di 200° per almeno 2 ore (il metodo di cottura tradizionale vuole che il pane sia cotto in forni a legna).
Un'altra variante di pane prevede l'inserimento nell'impasto di patate lesse per rendere più morbido il pane. Il suddetto pane viene oggi esportato in tutto il mondo. Esso è stato al centro di numerosi convegni.
Preparazione
Consumo
Può servire ad accompagnare una vasta gamma di secondi, ed è particolarmente indicato - tagliato a fette - per essere spalmato di bruss. E conservabile a lungo e può essere consumato fresco per circa una settimana dopo la produzione.
La tumminìa è un grano particolarmente duro e a ciclo breve (trimestrale), seminato a marzo, caratterizzato da cariossidi scure e cristalline. Il nome viene fatto risalire al greco trimenaios (grano a ciclo trimestrale seminato a marzo), anche definito grano marzuolo o marzuddu. Il colore scuro della tumminìa è responsabile della colorazione del pane nero e caratterizza il profumo di tostato con note di mandorla e malto.
Dal 2008 è in corso il processo per ottenere il riconoscimento di presidio DOP (Denominazione di origine protetta).
La farina viene impastata con acqua, sale di Trapani e lievito naturale (detto lu criscenti). Dopo una lunga lievitazione dell'impasto, i pani vengono cotti a 300 °C in forni di pietra alimentati con le fronde di ulivo tagliate nella potatura. Quando il fuoco ha portato il forno a temperatura, si toglie la brace e si ripulisce accuratamente il forno con una scopa di palma nana prima di infornare il pane, che cuoce lentamente, senza fuoco diretto.
Il prodotto è compatto, atto ad una lunga conservazione. Si presenta a forma di pagnotta (vastedda) o a "zampa di bue" (cuddura), del peso tradizionalmente di 1 kg e con un diametro di 20–30 cm e uno spessore di 8–10 cm. La crosta, coperta di semi di sesamo, è dura e di colore scuro (caffè). L'interno è di colore giallo grano, con mollica morbida dal sapore dolce.
È tutelato come presidio di Slow Food. Questa unica e particolarissima produzione ha rischiato in passato l'estinzione, finché i panificatori locali si sono riuniti in consorzio rivitalizzando anche la produzione della farina dei mulini locali che usano ancora le macine di pietra.
Sebbene la tradizione vuole che la mancanza di sale sia dovuta a scontri storici tra i pisani e i fiorentini (nel caso della Toscana) oppure fra il papa e i perugini (nel caso dell'Umbria), una ricerca sul pane senza sale a Perugia sembra smentire queste leggende.
Le uliate sono più piccole ed hanno nell'impasto olive in salamoia. Vengono consumate in occasione della vigilia del giorno dell'Immacolata, tradizione vuole che in questo giorno si faccia digiuno mangiando solo una puccia, in questo modo le donne hanno il tempo di seguire i riti religiosi legati alla festività.
In provincia di Taranto, soprattutto nella zona orientale, viene chiamata "Puccia alla vampa" (alla fiamma) e l'impasto della puccia è di farina di semola. Viene preparato un disco di pasta e infornato, il disco man mano che cuoce aumenta di volume. Il risultato è un disco di pane morbido con pochissima mollica. La tradizione tarantina e salentina la vuole farcita con sementa di pomodoro, olio extravergine d'oliva, sale e ricotta forte, oppure con le rape stufate.
La sera si prepara la biga utilizzando pasta conservata da una panificazione precedente che viene sciolta in acqua tiepida con aggiunta di farina e lasciato lievitare tutta la notte. La mattina si impasta farina con acqua salata e si aggiunge la biga fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo. Si formano dei cerchi di mezzo centimetro di spessore e 35-40 centimetri di diametro, si lascia lievitare 6 - 12 ore a seconda del periodo. In passato veniva cotto esclusivamente in forni a legna.