martedì 28 maggio 2024

Corso di cucina: Lezione 7 Pane

BAGUETTE
La baguette (dall'italiano bacchetta), in italiano baghetta, francesino o pan francese, è un particolare tipo di pane distinto dalla sua forma molto allungata e dalla sua crosta croccante, originario della Francia.
La forma classica della baguette è di 5 o 6 cm di larghezza e 3 o 4 cm di altezza, lunga circa 65 centimetri e con un peso di circa 250 grammi. Le baguette più corte sono spesso usate per fare i panini, oppure vengono tagliate a fette e servite con formaggio fresco o pâté.
Le baguette sono spesso legate nell'immaginario collettivo come uno dei prodotti culinari più noti della Francia, specialmente a Parigi, ma sono reperibili in tutto il mondo.
La baguette è un discendente del pane sviluppatosi a Vienna nella metà del XIX secolo, quando si iniziò ad utilizzare i forni a vapore, che favorivano la formazione della crosta croccante e dei solchi obliqui che ancora distinguono l'odierna baguette. La forma venne adottata in Francia nell'ottobre del 1920, quando una legge vietò ai fornai di lavorare prima delle quattro, rendendo impossibile cucinare le tradizionali pagnotte rotonde in tempo per la colazione dei clienti: la baguette risolse il problema perché può essere preparata e infornata molto più brevemente.
Le leggi francesi del cibo definiscono come «pane della tradizione francese» un prodotto contenente solo i seguenti 4 ingredienti: acqua, farina, lievito (di birra o pasta madre) e sale.
L'aggiunta di qualsiasi altro ingrediente impedisce di usare il nome di «pane della tradizione francese» per il prodotto finale.

CIABATTA
La ciabatta è un classico tipo di pane italiano con un alto contenuto di liquidi circa il 70% sulla farina, generalmente senza lipidi, riconoscibile dalla grande alveolatura della mollica, dalla crosta generalmente bruna e dalla sua croccantezza.
L'impasto è formato in gran parte da biga a cui verrà aggiunta poi nella fase di impastamento una piccola quantità di farina.
14500 g di biga
4000 g di farina tipo 0 (w 280)
9800 g d'acqua
140 g malto
140 g integratore
280 g sale
1000 g d'olio d'oliva (a scelta)
150 g lievito di birra
Unire farina, biga, i 3/4 dell'acqua, lievito, olio, malto, integratore e fare andare l'impasto in prima velocità affinché non sia ben agglomerato.
Unire il sale e di seguito un goccio d'acqua per facilitarne l'assorbimento, dopodiché fare girare l'impasto in seconda velocità aggiungendo lentamente il restante dell'acqua. Fare impastare bene.
Le tempistiche dell'impasto sono abbastanza lunghe, è preferibile utilizzare acqua fredda.

CIAPPE
Prodotto a base di farina di grano. Si presentano sottili, dal colore dorato, croccanti e saporite in bocca. In dialetto ligure, ciappa significa pietra piatta sottile come la lastra di ardesia il cui nome deriva da ardere: infatti grazie alle sue caratteristiche fu sicuramente uno dei primi metodi di cottura usate dall'uomo.
Ancora oggi si utilizza questo strumento per cucinare la carne e il pesce senza l'aggiunta di grassi; noto è il tonno in sciä ciappa.
Lastra di ardesia è anche la tradizionale copertura dei tetti in Liguria dove le tegole vengono denominate ciappe: la stessa parola nel ponente ligure indica una sorta di schiacciatina, resa croccante e friabile dall'olio extravergine di oliva della Riviera.
Zona di produzione: Costa del ponente ligure, nel territorio del comune di Taggia
Ingredienti: farina, acqua, olio e sale.
Preparazione: la farina (di grano tenero) viene lavorata con acqua, olio e sale e stesa formando dei dischetti dello spessore di pochi millimetri e del diametro di 10/15 cm. Le ciappe vengono cotte al forno e si mantengono per 15/20 giorni.
farina,
acqua,
olio
sale. la farina (di grano tenero) viene lavorata con acqua, olio e sale e stesa formando dei dischetti dello spessore di pochi millimetri e del diametro di 10/15 cm. Le ciappe vengono cotte al forno e si mantengono per 15/20 giorni.
Ciappe La zona di produzione è la Costa del ponente ligure, nel territorio del comune di Taggia. Prodotto a base di farina di grano. Si presentano sottili, dal colore dorato, croccanti e saporite in bocca. In dialetto ligure, ciappa significa pietra piatta sottile come la lastra di ardesia il cui 164 nome deriva da ardere: infatti grazie alle sue caratteristiche fu sicuramente uno dei primi metodi di cottura usate dall'uomo. Ancora oggi si utilizza questo strumento per cucinare la carne e il pesce senza l'aggiunta di grassi; noto è il tonno in sciä ciappa. Lastra di ardesia è anche la tradizionale copertura dei tetti in Liguria dove le tegole vengono denominate ciappe: la stessa parola nel ponente ligure indica una sorta di schiacciatina, resa croccante e friabile dall'olio extravergine di oliva della Riviera.

GALLETTE DEL MARINAIO
gallette del marinaio
500 g Acqua
1000 g Farina w 320
5 g Lievito di birra secco
1 g Sale
Le gallette da Marinaio sono praticamente delle focaccine secche, quasi immangiabili se non bagnate, ed erano utilizzate al posto del pane sia nelle zuppe che nelle insalate.
Pare che sin dal 1500 venisse fatto uso di queste gallette del marinaio sulle navi, insieme ai biscotti, che si conservavano per lunghi periodi. La storia ci narra che queste gallette di pane erano preparate per chi partiva per mare ed era destinato a trascorrerci lunghi periodi. Le gallette del marinaio molto secche e leggere si conservano per mesi e anticamente alla bisogna venivano bagnate nell’acqua di mare per essere ammorbidite; questo è un’altro il motivo per cui nella ricetta c’è pochissimo sale. Una volta ammorbidite venivano sgranocchiate cosi o anche cucinate insieme al pescato. Con il passare degli anni è divenuto sempre più difficile trovare nei forni questo tipo di pane che però sta tornando di moda soprattutto nella cucina casalinga.
Mettiamo nella ciotola dell'impastatrice acqua e lievito e mescoliamo. Aggiungiamo la farina ed iniziamo ad impastare. Appena l'acqua è assorbita aggiungiamo il sale e continuiamo ad impastare finche l'impasto non si compatta. Stacchiamo l'impasto dal gancio e riprendiamo ad impastare per altri 3-5 minuti. Trasferiamo l'impasto sulla spianatoia. Pesiamo dei pezzi da 80 - 90g e formiamo delle palline. Copriamo con la pellicola trasparente e lasciamo riposare 30 minuti. Spianiamo le palline con il matterello fino a 0,5 cm di spessore e copriamo i dischi risultanti con un telo e della pellicola di plastica. Lasciamo lievitare circa 45 minuti. Riprendiamo i dischi di pasta e facciamo su di essi dei fori con una forchetta o con il bucasfoglia. Trasferiamo delicatamente sulle teglie ed inforniamo a circa 220° per 8-10 minuti. Trascorsi 10 minuti trasferiamo le gallette dalle teglie alle griglie e inforniamo di nuovo per circa 5-6 minuti. Trascorsi 5-6 minuti spegnamo il forno apriamo leggermente la porta del forno e lasciamo raffreddare. Ecco le gallette del marinaio che sigillate all'interno di un contenitore dureranno anche mesi.

GRISSINO

Il grissino (ghërsin in piemontese) è uno dei più celebri e diffusi prodotti della gastronomia torinese, nonché uno dei più noti della cucina italiana all'estero. Tradizionalmente la sua nascita si fa risalire al 1679, quando il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico lanzese Teobaldo Pecchio, inventò questo alimento per poter nutrire il futuro re Vittorio Amedeo II, di salute cagionevole ed incapace di digerire la mollica del pane. Re Carlo Felice li prediligeva così tanto che, in palco, al Teatro Regio, ne sgranocchiava per passatempo. Il successo dei grissini fu particolarmente rapido, sia per la maggiore digeribilità rispetto al pane comune, sia per la possibilità di essere conservato anche per diverse settimane senza alcun deterioramento. Fra i grandi estimatori del grissino torinese, non si può non citare Napoleone Bonaparte, il quale creò, all'inizio del XIX secolo un servizio di corriera fra Torino e Parigi prevalentemente dedicato al trasporto di quelli ch'egli chiamava les petits bâtons de Turin. Del tutto identica a quella del pane normale, salvo che la forma lunga e stretta fa sì che la cottura sia più uniforme e quindi, causa la sottigliezza dell'impasto, il prodotto finale in pratica è come pane di sola crosta, cioè privo di mollica. Gli ingredienti sono: farina 00, acqua, lievito e sale. Recentemente sono state introdotte varianti nella composizione che vengono commercializzati come "grissini al...": latte al posto dell'acqua, aggiunta di olio di oliva, aggiunta di grasso animale (strutto in genere), aggiunta di aromatizzanti vari, fino a variarne la forma (più tozza). L'aggiunta di sostanze grasse rende il grissino più "morbido", ma ne limita la durata di conservazione. La forma di grissino più antica e tradizionale è indubbiamente il robatà, che in piemontese significa "caduto" (o anche "rotolato"), di lunghezza variabile dai 40 agli 80 cm, facilmente riconoscibile per la caratteristica nodosità, dovuta alla lavorazione a mano. Il robatà di Chieri è incluso nella lista prodotti agroalimentari tradizionali italiani del ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Sono allo stesso modo considerate zone di produzione classica del robatà il Torinese, la zona di Andezeno e il Monregalese. L'unica altra forma di grissino tradizionale e tutelata è il "grissino stirato". D'invenzione più recente rispetto al robatà, si distingue da questi in quanto la pasta, invece che essere lavorata manualmente per arrotolamento e leggero schiacciamento, viene allungata tendendola dai lembi per la lunghezza delle braccia del panificatore, il che conferisce maggiore friabilità al prodotto finale. Soprattutto questo tipo di lavorazione permise la produzione meccanizzata già a partire dal XVIII secolo. Ne esistono anche diversi tipi aromatizzati (all'origano, al sesamo, al cumino, ecc.).

MICCA
Con il termine di "miseria" a Busseto si identifica un pane che, al di fuori del paese, viene chiamato "micca", comune a tutta la Padania. Quando il peso è superiore al mezzo kg., allora diventa la "gran      miseria", retaggio di un passato recente dove, quando non c'era nulla da mangiare, si mangiava solo pane: "miseria", se piccolo, e - non senza contraddizione - "gran miseria" se grande.
Composizione: farina di grano tenero, acqua, strutto raffinato, lievito naturale, sale.
La farina viene impastata con lievito di birra sciolto in acqua salata e lo strutto fuso. L'impasto, duro, viene lavorato a lungo lasciandolo fermentare per molte ore. Quando la lievitazione è completata si formano dei pezzi dalla forma oblunga di 30 cm. circa e dal peso di 2 etti e mezzo. Vengono incisi nel centro assumendo la forma di farfalla. Si cuoce nel forno caldo.

PAN MARTÌN
pan Martìn
farina di castagne
farina di grano in parti uguali,
sale
lievito di birra (venti grammi circa per un chilo di farina),
acqua.
Unisco gli ingredienti e li impasto. Faccio riposare il composto per quarantacinque minuti, quindi inforno in una teglia unta con olio d'oliva. Faccio cuocere per circa un'ora e mezza.
Le castagne furono talmente fondamentali per l'alimentazione e, spesso, sopravvivenza delle popolazioni dell'entroterra, da essere considerate il pane dei poveri. Oltre a questa esplicita metafora, va detto che un po' di farina di castagne veniva sempre unita a quella più preziosa e rara di grano per preparare il pane. Tale variante arricchiva di zuccheri il prodotto da forno e lo rendeva più sostanzioso e nutriente. Questo tipo di pane scuro, di tradizione domestica, dall'aroma delicatamente dolce che gli viene conferito dalla presenza della farina di castagne nella miscela di preparazione, prese il nome di Pan Martìn probabilmente dal giorno di San Martino, 11 novembre, quando era pronta la farina di castagna. Il Pan Martìn è ottimo consumato caldo insieme al latte, ai formaggi e ai salumi dell'entroterra. La zona di produzione è l’entroterra spezzino e genovese, in particolare, val di Vara, val Graveglia e valle Sturla Il luogo dove veniva posto tradizionalmente il testo era l'essiccatoio. La parte inferiore delle seccatoio, infatti, fungeva anche da cucina: dal solaio pendeva un gancio al quale si applicava la campana, che creava, calata sul testo con un meccanismo di contrappesi, un rustico forno.

PANE D'ORZO
pan d'ordiu carpasinn-a
Nella valle Argentina in provincia di Imperia, alle falde del monte Grande, sorge un antico paese caratterizzato dall'architettura tipica montana della zona, con i muri in pietra a vista e i tetti in ardesia. È Carpasio, il cui nome sembra derivi da Cara Pax, un trattato di pace stipulato tra i Liguri e i Romani. Carpasinn-a, pane d'orzo, è invece il nome del prodotto tipico di questo borgo dalla storia antica e di Badalucco. C'era un tempo in cui il grano era raro e pertanto si macinavano anche altri cereali per ottenere la preziosa farina, tra questi c'era anche l'orzo che qui sostituiva il frumento nella realizzazione del pane. Oggi l'orzo per la produzione di questo pane arriva ormai dal Piemonte. La carpasinn-a è sostanziosa ma molto dura, tanto da dover essere ammorbidita nell'acqua prima di venir consumato condita con olio, aglio, pomodoro, acciughe e foglie di basilico come accade per le friselle meridionali.
Nel mese di settembre a Carpasio si rivivono i tempi della transumanza e protagonista della festa è la carpasina che insieme al latte e al formaggio, rappresenta il cibo dei pastori quando per alcuni mesi vivevano negli alpeggi.
Pane d'orzo biscottato, di consistenza dura e dal caratteristico colore dorato.
Ingredienti:
farina d'orzo, acqua, lievito di birra.
Lavorazione:
impastare la farina con l'acqua e il lievito di birra. Lasciare in riposo l'impasto coperto con la farina di orzo. Riprendere l'impasto lavorandolo bene e a lungo, formando poi delle lunghe pagnotte. Con un filo di spago tagliare delle fette che devono essere disposte nelle teglie e cotte nel forno a legna non troppo caldo per un'ora. Togliere dal forno, girare dall'altra parte e rimettere in forno, completare la cottura per un'ora ancora, sempre a bassa temperatura.

PANE DI CASTAGNE
pane di castagne calabrese
Il Pane dei castagne (o di castagna) è un tipico alimento che veniva usato dalle popolazioni più disagiate, soprattutto nei centri delle aree interne delle Calabria, come alimento alternativo al più costoso pane tradizionale ottenuto dalla farina 00, ma anche per sfruttare la castagna, di cui sono molto ricche alcune aree della regione. Il pane veniva prodotto e consumato soprattutto nei periodi invernali, quando molti centri montani rimanevano completamente isolati a causa delle abbondanti nevicate, e risultava difficile il reperimento della farina per la produzione del pane.
Questo prodotto assume forma circolare, di piccole dimensioni e del peso di 1 o 1,5 kg. E' un prodotto ricavato dalla lavorazione della farina di castagne, farina prodotta per metodo di essiccazioni delle castagne dopo adeguata lessatura e successiva trasformazione in purea, oppure con le castagne macinate dopo essiccazione.

PANE DI PATATE

Questo tipo di pane è sinonimo di povertà: era infatti consumato soprattutto dalle famiglie meno abbienti che utilizzavano le patate in sostituzione di parte della farina di grano, economiche e sostanziose, la cui produzione risulta tutt'oggi notevole nelle valli del Casale e del Pignone in Comune di Pignone. Rappresenta un modo di mangiare povero legato strettamente alle condizioni socio-economiche di queste valli. I panini sono ottimi se serviti unitamente a saporiti insaccati.
Pane ottenuto dall'impasto di farina e patate, di forma tonda o allungata e di piccole dimensioni: il suo peso massimo è infatti di mezzo chilo. Il colore è dorato, la crosta è molto saporita e racchiude un interno morbido.
1 Kg farina di grano, 

2 Kg di patate di Pignone, 
sale q.b., 
poco olio e lievito. 
Con queste dosi si ottengono circa 3 Kg di pane.
Nel tondo della farina opportunamente lavorata mettere le patate bollite e passate, aggiungendo un pizzico di sale e poco olio. Dividere il composto ottenuto in piccoli pezzi, schiacciandoli leggermente con il palmo della mano. Lasciare lievitare per un ora circa in ambiente caldo. Intanto, portare il forno a 150°C di temperatura, quindi mettere i panini in una grande teglia unta con poco olio e infornare il pane. Qualora si disponga di un forno a legna non occorre la teglia. Il pane sarà pronto quando inizia ad acquisire la classica doratura. Si consiglia di consumare il pane entro due giorni.

PANE DI SEGALE
Il pane nero, o pane di segale, è un tipo di pane di colore più scuro, usato in sostituzione al pane bianco, soprattutto nelle regioni di lingua tedesca e scandinava.
Questo pane viene impastato usando la farina di segale, al posto di quella bianca, dato che la segala era maggiormente resistente ai climi freddi tipici dei paesi montani, ma anche all'aridità.
Nella cucina altoatesina esistono storicamente tre variazioni di pane nero:
il Vinschger Paarl: questo pane viene impastato usando farina di segale e grano; il panino viene ottenuto unendo due pani rotondi e piatti, da qui il nome “paarl”, ovvero coppia. Di questo pane si è riscoperta la ricetta, che era custodita dai frati benedettini dell'Abbazia di Monte Maria, sopra Burgusio nel comune di Malles.
il Schüttelbrot (letteralmente: pane scosso), la schiacciata tradizionale della val d'Isarco. Il nome del pane è dovuto al fatto che l'impasto a tre quarti della lievitazione viene battuto e appiattito utilizzando un’assicella di legno rotonda.
il Pusterer Breatl della val Pusteria, si ottiene impastando farina di segale e di grano.
Queste tipologie di pane sono nate come un pane per poveri, che veniva cotto soltanto due/tre volte l'anno e conservato al buio.
In Valtellina il pane di segale, pan de séghel è prodotto in tre varianti:
la ciambella del diametro di circa 15 cm e di 1,5 cm di altezza
la Brazzadéla ossia la ciambella fatta essiccare al sole infilzandola su pioli di legno.
la ciambella con aggiunta di anice.
In Valtellina è possibile trovare ogni giorno il pane di segale fresco oppure la Brazzadelà confezionata. Il pane di segale con l'anice è reperibile soprattutto in alta Valtellina.

PANELLA
La panella, detta anche pattona, decisamente sostanziosa e saporita, era consumata come piatto unico dai contadini. La totale mancanza di grassi non permetteva però un apporto nutrizionale completo che veniva soddisfatto da altri piatti. In valle Sturla la panella era utilizzata anche in sostituzione del pane. Veloce da preparare e da cuocere, si trovava sulle mense ad accompagnare il pasto giornaliero. Per le occasioni si arricchiva di pezzi di salsiccia. Lo stesso piatto era anche preparato sostituendo alla farina di castagna quella di mais.
Tipica del Levante ligure è una preparazione a base di farina di castagne, di forma circolare e con un colore marrone più o meno intenso a seconda del grado di cottura.
Ingredienti: 1 chilo di farina di castagne, acqua, sale, olio extravergine d'oliva
Preparazione: ponete la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, e aggiungete acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Quindi procedete alla cottura versando la pastella in una teglia unta e ponendo in forno a 180° per circa un'ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.
Nella versione antica la panella si cuoceva su fuoco a legna in un testo in terracotta o ghisa. In questo modo era possibile arricchire la preparazione con foglie di castagno, usate per evitare che il composto si attaccasse come una sorta di antica carta-forno.
Le foglie di castagno si dovevano raccogliere a fine luglio direttamente dagli alberi oppure a settembre-ottobre prima che cadessero (la tradizione vuole che il giorno di San Lorenzo non si dovessero raccogliere foglie, in quanto non si sarebbe riusciti a conservarle). Queste foglie ordinate in fasci di spago erano poste ad essiccare al chiuso o all'aperto. Così conservate, a causa dei bordi troppo stropicciati, non sarebbero state adatte all'uso: si provvedeva quindi alla loro preparazione qualche giorno prima di usarle. Bagnate in acqua bollente, si lasciavano scolare (per evitare formazione di muffa) e si ponevano sotto peso in careghèira per circa mezza giornata. Rimaneva quindi solo da applicare l'arte della loro corretta disposizione sul tagliere, pena l'imperfetta riuscita del piatto, e ricoprirle con il composto steso.
Intanto il testo, generalmente posto nell'essiccatoio delle castagne, veniva fatto scaldare con fuoco di legna per circa 20-30 minuti. Si asportavano quindi le braci, e si faceva scivolare dal tagliere sul basamento l'alimento da cuocere, si chiudeva la campana (cioè la parte superiore del testo) e si lasciava per il tempo necessario alla cottura, senza mai aprire. Il coperchio o campana del testo, era movimentata attraverso un contrappeso, per permettere con minimo sforzo la regolazione della sua altezza.

1 chilo di farina di castagne,
acqua,
sale,
olio extravergine d'oliva
Ponete la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, e aggiungete acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Quindi procedete alla cottura versando la pastella in una teglia unta e ponendo in forno a 180° per circa un'ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.

PANIGACCIO
Il panigaccio è un tipo di pane rotondo, non lievitato, cotto in uno speciale piatto di terracotta e mica, chiamato Testo, arroventato a fuoco vivo in un falò o in un forno a legna. Una pastella di farina, acqua e sale si frappone tra un testo e l'altro, sino a formare una pila. La consistenza finale è morbida o croccante a seconda del tempo di cottura.
Si possono gustare con gli affettati, formaggi molli come lo stracchino e e il gorgonzola, o con vari sughi, da quello di funghi al pesto. Il modo più adatto per gustarli con dei sughi è quello di farli bollire una volta raffreddati, servirli e versare il sugo, creando un primo piatto originale. In alcuni ristoranti della Lunigiana esiste la variante "dolce": si servono a fine pasto con della cioccolata da spalmare.
I panigacci hanno origini molto antiche, sono diffusi nella Lunigiana ed hanno i natali nel paese di Podenzana, dove è stato costituito un consorzio tra i ristoratori, per mantenere inalterato il sapore antico di questo semplice prodotto. In Liguria i testi di terracotta e mica, vengono fabbricati da tempo immemorabile ad Iscioli, nel comune di Ne, nell'entroterra di Chiavari e si possono trovare nei negozi e nei consorzi agrari del chiavarese. Nella seconda guerra mondiale, quando i tedeschi distrussero un ponte che collegava il comune di Podenzana con il resto della regione, gli abitanti del comune sopravvissero mangiando panigacci fatti con farina di ghiande e castagne. A Ponzanello (Comune di Fosdinovo) un piatto tipico sono le focaccette, una variante dei panigacci.
Sono fatti con acqua, farina e sale e si preparano mescolando gli ingredienti fino a ottenere una pastella fluida. Tale pastella viene quindi versata nei testi, precedentemente lasciati arroventare su di un fuoco vivace, tipicamente in un falò o in un forno a legna. Quando sono roventi al calor rosso, vengono estratti dal forno e fatti raffreddare un poco poi viene fatta una pila di testi, in modo tale che stando nel mezzo la pastella si cuocia sui due lati. Una volta "smontata" la pila i panigacci si servono in cestini di vimini e usati come companatico di salumi e formaggi cremosi. In Liguria i panigacci si chiamano testaieu e si servono durante le feste di paese autunnali, nell'entroterra del levante, con un sostanzioso strato di pesto alla genovese, con parmigiano grattugiato o dolci al miele e naturalmente un vino nuovo nostralino.
I panigacci cuociono in pochi minuti a temperature molto alte e non necessitano di lievitazione.

PIADINA
La piadina romagnola, è un prodotto alimentare composto da una sfoglia di farina di frumento, strutto (o olio di oliva), sale e acqua, che viene tradizionalmente cotta su un piatto di terracotta, detto teglia (teggia in romagnolo), ma oggi più comunemente viene cotta su piastre di metallo oppure su lastre di pietra refrattaria chiamate "testo" (test in dialetto). È, per dirla con Giovanni Pascoli, «il pane, anzi il cibo nazionale dei Romagnoli»: in realtà, lo era innanzitutto per i più poveri.
La piadina romagnola è inserita nell'elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani della regione Emilia-Romagna.
Diverse sono le correnti sull'origine della piadina e sulla sua forma e impasto originale. Fin dagli antichi Romani ci sono tracce di questa forma di "pane". La prima testimonianza scritta della piadina risale all'anno 1371. Nella Descriptio Romandiolae, il cardinal Legato Anglico de Grimoard, ne fissa per la prima volta la ricetta: "Si fa con farina di grano intrisa d'acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po' di strutto". I prodromi dell'odierna piada possono essere individuati anche in una focaccia a base di farina di ghianda ed altre farine povere in uso in tempi antichi nel territorio del Montefeltro.
L'etimologia è incerta; i più riconducono il termine piada (piê, pièda, pìda) al greco placus, focaccia. Originariamente, in effetti, è una schiacciata lievitata e ben condita cotta nel forno: come tale è citata nel 1371 nella Descriptio Romandiole. In seguito (dal Cinquecento all'Ottocento), mentre assume la forma attuale, altro non è che un surrogato del pane confezionato con ingredienti per lo più vili e impanificabili (spelta, fava, ghianda, crusca, sarmenti, mais, ecc.). La piadina di farina di grano è relativamente recente, così come le sue varianti ricche: la piadina unta, quella sfogliata e quella fritta. Un'altra ipotesi interessante consiste nel riscontrare la somiglianza con i termini utilizzati in altre lingue per indicare piatti simili, nell'ambito di tutti i paesi che ruotavano nell'orbita dell'Impero Romano d'Oriente (tra i quali anche la Romagna, ovviamente). Basti pensare all'ebraico pat, che significa "pagnotta" o "pezzetto", a "pita", che esiste ancora nell'aramaico del Talmud babilonese ed indica il pane in generale, o a "pide" in turco. È facile pensare, nel caso della piadina, al pane in uso presso l'esercito bizantino, di stanza per secoli in Romagna, nel nord delle Marche (fino a buona parte della provincia di Ancona), e nella valle umbra attraversata dalla via Flaminia.
Usi
Può essere mangiata come surrogato del pane per accompagnare varie pietanze nel corso del pasto.
Piadina farcita
Più spesso però viene piegata a metà e farcita in vario modo: con pezzi di salsiccia cotti alla brace o alla piastra e cipolla; con affettati vari di suino; con la porchetta; con rucola e squacquerone; con erbette o verdure gratinate; con crema gianduia, confetture o Nutella.
Cassone o crescione
Il cassone o cascione o crescione (in romagnolo carson o casòun) è una tipica preparazione basata sulla piadina dove la sfoglia viene farcita, ripiegata e chiusa prima della cottura. La farcitura di erba crescione, che ora è difficile da trovare, ma un tempo abbondava lungo i fossati, ne darebbe il nome: questa erba - di per sé già saporita - poteva venire ulteriormente insaporita con aglio, cipolla, o scalogno. Questa usanza deriverebbe dal largo uso che si è sempre fatto nella cucina romagnola di erbe (compresa la "bietola", ovvero le foglie della barbabietola che si raccoglievano per diradarne la coltura)
Oggi le farciture più comuni, con variazioni da luogo a luogo, sono: alle erbe, chiamato anche 'cassone verde', (può trattarsi di spinaci e/o bietole, e nel riminese anche 'rosole' (papaveri,  macerate nel sale), con o senza ricotta e formaggio grattugiato; con una base di mozzarella e pomodoro abbinata o meno con salumi, e chiamato anche 'rosso'; con zucca e patate, spesso arricchite di salsiccia o pancetta.
Tortello alla lastra
Il tortello alla lastra, forma tipica della Romagna Toscana, si prepara stendendo l'impasto della piadina con il matterello, per ottenere una sfoglia sottile. Questa viene farcita con un ripieno che può essere di patate lesse passate e condite con cipolla, pecorino, noce moscata, pancetta e sale, o con erbe (biete o spinaci) lessate, ricotta e formaggio grattugiato. Il ripieno viene distribuito su metà della sfoglia e coperto con l'altra metà; con la rotella si chiudono i tortelli, dividendoli in forme quadrate di 5–10 cm di lato circa. I tortelli vengono poi cotti sulla lastra per alcuni minuti, girandoli più volte come si fa con i crescioni.
Forme recenti
Forme recenti, e meno diffuse, sono il cosiddetto rotolo, preparato farcendo una piadina sottile che viene poi avvolta su sé stessa, e la piadizza®, recentemente registrata dal gruppo Piada & Piada che opera in USA così chiamata perché farcita da stesa come una pizza. Esiste anche una diversa piadina chiamata sfogliata che risulta più friabile dato che contiene un quantitativo consistente di strutto.
Diffusione
Commercializzata fresca, realizzata sul momento, in appositi chioschi anche detti piadinerie diffusi in tutta la Romagna, diffusissimi nella Riviera Romagnola, è possibile trovarla anche confezionata precotta presso la grande distribuzione. I chioschi della piadina sono colorati a bande verticali, con colori standardizzati per varie località romagnole.
A seconda della zona di preparazione ci sono alcune differenze tra piadina e piadina, per quanto riguarda la forma e la consistenza. Nel ravennate e nel forlivese è spessa e soffice, mentre nel riminese e nel pesarese è più sottile e talvolta di diametro leggermente maggiore. La piadina pesarese, poi, chiamata anche crescia o crostolo nell'entroterra, è sfogliata e saporita.
Pur essendo tipica della Romagna è ormai conosciuta in tutta l'Italia ed all'estero.
Promozione e protezione
Fra il 2002 e il 2003 si sono costituite tre associazioni per la promozione e la tutela della piadina romagnola e promotrici dell'attribuzione dell'Indicazione Geografica Protetta (marchio IGP): l'Associazione per la valorizzazione della Piadina Romagnola, l'Associazione per la promozione della Piadina Romagnola e il Comitato per la valorizzazione della piada riminese com'era e dov'era.
I marchi IGP richiesti sono: Piadina Terre di Romagna e Piada Romagnola di Rimini, differenziate fra loro principalmente per spessore e dimensioni.
Il marchio Piadina è registrato in più di 30 paesi da una ditta svizzera (Renzi AG) alla WIPO e non può essere prodotto o diffuso in questi paesi senza l'autorizzazione di questa.

Farina 500 g
Strutto 125 g
Sale fino 17,5 g
Acqua 90 ml
Lievito chimico in polvere per preparazioni salate 7,5 g
Miele 5 g
Zucchero semolato 15 g
Latte 100 ml
Per realizzare la piadina setacciate la farina e il lievito nella tazza di una planetaria munita di foglia, aggiungete lo strutto (in alternativa sostituitelo con la stessa quantità di olio di semi), il miele e azionate la macchina a velocità media per 5 minuti. Poi fermate la planetaria, incorporate lo zucchero e versate il latte a filo e sostituite la foglia con il gancio e continuate ad impastare. Mentre la planetaria impasta aggiungete l’acqua poco alla volta e per ultimo unite il sale. Quando l’impasto sarà omogeneo e si staccherà dalle pareti della tazza, spegnete la planetaria e riponete il panetto ottenuto in una ciotola e copritelo con la pellicola trasparente. Lasciate lievitare l’impasto per un ora in un luogo tiepido come il forno spento con la luce accesa. Trascorso il tempo si riposo riprendete l’impasto e stendetelo con il mattarello su un piano di lavoro leggermente infarinato, dovete ottenere una sfoglia di 2 mm circa. Ritagliate le piadine con un coppapasta da 24 cm di diametro. I ritaglia avanzati si possono lasciare riposare qualche minuto e poi impastare nuovamente. Le piadine sono pronte per la cottura: scaldate una padella dal fondo basso e cuocete le piadine su entrambi i lato per 2 minuti. Durante la cottura bucherellate la piadina con una forchetta e, se si formeranno delle bolle in superficie, schiacciatele con un coltellino o i rebbi della forchetta. Una volta cotta, trasferite la piadina su un piatto di portata e farcitela con salumi e formaggi a vostro piacimento e poi gustatela ben calda.

PIRILLA
La pirilla è un pane prodotto durante la panificazione casalinga tradizionale, ottenuto con impasto lievitato di acqua e farina di grano duro. Ottenuta per colatura diretta sulla pietra di un forno a legna con l’aiuto di una paletta. Ha una forma rotondeggiante di circa 20 cm di diametro e pochi centimetri di spessore, presenta la faccia superiore liscia, quasi levigata, dura ma non croccante. La pasta interna ha un aspetto compatto e quasi gommoso con piccoli alveoli. Richiede brevi tempi di cottura (meno di un'ora).
Nella pasta, specie se nata per essere mangiata senza condimento, possono essere inserite olive nere intere per dare sapore, a volte uva passa. Se la pirilla contiene altri ingredienti, come pomodoro, pezzi di zucca, cipolla, ecc. può prendere localmente un nome più specifico (ad esempio cucuzzata).
Lo spessore e la pasta compatta permettono un comodo spacco per la farcitura. La farcitura più usata era il pomodoro fresco, spesso solo il seme e gli umori interni del pomodoro, olio e sale. Pure peperoni fritti, a volte pure accompagnati da pomodoro fresco. Vanno molto bene le farciture che bagnano la pasta e l’ammorbidiscono un po', come i sughetti di pomodoro, cipolla e peperoni ma pure i pezzetti di carne di cavallo. Una variante sfiziosa della farcitura sono i peperoni fritti con fette di mortadella.
Presenta vari sinonimi nel Salento. I più usati sono pirilla (Ortelle, Castro), pitilla (Specchia Gallone, Poggiardo, San Cesario di Lecce), 'mpilla (Sannicola), pilla (Cursi, Cutrofiano, Melpignano, Otranto), simeddhra (Tricase, Depressa).
La pastina era preparata coi resti degli impasti recuperati dai lavaggi dei contenitori. Nella panificazione tradizionale era prodotta in pochi pezzi e generalmente destinata al consumo degli stessi panificatori occupati per diverse ore nelle operazioni di impasto e cottura. A volte era prodotta      appositamente con impasti ad hoc per il consumo casalingo e per distribuzione tra parenti e amici. Non era destinata alla vendita. Con la riscoperta delle antiche tradizioni alcuni forni industriali la producono e la vendono.
Nella tradizione salentina, comune ad altre tradizioni contadine, si procedeva con cadenza regolare alla panificazione, spesso in capientissimi forni a legna pubblici. Gli intervalli di panificazione potevano essere variabili, da cadenze bisettimanali fino a periodi di oltre tre mesi, per cui il quantitativo di farina di una o più famiglie associate, poteva costituirsi anche da un impasto di 100-200 kg. Nella panificazione una quota limitata (20%) si costituiva da pezzi pane morbido da consumarsi nei primissimi giorni in genere da tagliarsi a fette. Moltissime risultano le varianti del pane fresco spesso associate alla presenza nell'impasto di olive nere, zucca, cipolla, ecc.. o a particolari lavorazioni (taralli, pirille, ecc..) per il consumo diretto senza particolari condimenti aggiunti. La quota maggiore dell'impasto di panificazione veniva riservato, in genere, alla produzione di friselle, un biscotto di più lunga conservazione rispetto al pane fresco garantendo intervalli di panificazione maggiori.
Al termine della infornatura, i recipienti e le madie sporche dell'impasto lievitato venivano sciacquate con pochissima acqua e la pastina ottenuta calata direttamente sul piano arroventato del forno. Si cuoceva molto in fretta e veniva consumata nel forno stesso per una colazione di ristoro tra gli addetti.
La pirilla, pertanto, rappresenta più che un tipo di pane, una testimonianza del mondo agricolo arcaico ormai scomparso e molti comuni nel leccese la omaggiano con feste e sagre. La più importante e consolidata è la Festa della Pirilla nel Comune di Ortelle che nell'estate del 2009 si è svolta per la ventinovesima volta, essendo tra l'altro una delle più antiche sagre gastronomiche in assoluto nella Provincia di Lecce. All'evento è accordato il patrocinio da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri - Ministero per i Rapporti con le Regioni, del Presidente della Regione Puglia e del Comune stesso.

PITTA

La pitta è un tipico prodotto di panetteria calabrese. La pitta generalmente è una specialità da forno (tipo una focaccia) preparata con l'impasto per il pane che accompagna tradizionalmente il Morzeddhu alla catanzarisi.
farina 0 (1000gr)
lievito di birra fresco (25 gr) o una bustina di quello secco
1 cucchiaio raso di sale fino
strutto(60 gr)
1 cucchiaino di malto (facoltativo)
acqua (575 ml).
In Calabria assieme al pane "normale" per la famiglia, si faceva spesso anche una pitta chjina (pitta ripiena, dove pitta è un nome generale per una forma di pane). Tale prodotto ha l'aspetto di una pizza chiusa, ovvero formata da due strati di pasta con il ripieno al loro interno.

ROSETTA
La michetta, conosciuta in buona parte d'Italia anche come "rosetta", è un tipo di pane soffiato (quindi cavo al suo interno) che si riconosce dal tipico stampo a stella con "cappello" centrale.
Molto diffusa in Lombardia, specialmente a Milano, la michetta è stata il pane degli operai fin dal 1700, epoca durante la quale la lavorazione del pane era quasi completamente manuale.
I funzionari dell'Impero Austro-Ungarico, cui faceva capo la Lombardia dopo il trattato di Utrecht del 1713, portarono con sé a Milano alcune novità alimentari (che i Milanesi fecero proprie fino al punto di farle diventare un prodotto della loro tradizione alimentare), come l'allora famoso Kaisersemmel, un panino variabile da 50 a 90 grammi e dalla forma di una piccola rosa.
I risultati non furono, però, incoraggianti: il Kaisersemmel a Milano non rimaneva, come a Vienna, fresco e fragrante fino a sera: si rammolliva velocemente, divenendo "gommoso". L’umidità del clima lombardo penetrava eccessivamente in un prodotto igroscopico come il pane, a differenza di quanto accadeva nel più asciutto clima viennese.
Bisognava privare quel pane della mollica, svuotarlo, alleggerirlo, renderlo "soffiato": così sarebbe stato fragrante e digeribile, garantendone una migliore conservazione. I maestri panificatori milanesi riuscirono nel loro intento, creando un pane unico le cui caratteristiche l’hanno reso famoso.
Il termine michetta nasce in questo periodo. Infatti i Milanesi chiamarono il Kaisersemmel con il diminutivo di “micca”, ossia “michetta”, micchetta in milanese. La "micca", o "mica", era un pane che aveva una certa diffusione nell’Italia del nord e il cui termine, in origine, significava briciola.
Nel 2007 la michetta ottiene, dal Comune di Milano, il riconoscimento “De.Co.”(Denominazione Comunale), assegnato dal capoluogo lombardo ai prodotti gastronomici tradizionali milanesi.
La preparazione della "biga", ovvero la pasta lievitata e fermentata, avviene mescolando ed impastando farina di forza (100%), acqua (35%) con malto (0,1%) e lievito (1%) fino ad ottenere un impasto piuttosto sostenuto dalla texture perfettamente omogenea, viene quindi lasciato riposare per almeno 16 ore (tempo che varia in funzione della temperatura ambientale). La preparazione dei pastoni (forme di pasta arrotondate) avviene impastando la biga con farina di forza (20% della dose iniziale) acqua (quanto basta per ottenere un impasto asciutto e morbido) e sale (0,5% del peso totale).
Questo impasto deve avere una buona elasticità ed una texture perfetta (impastare almeno 30 min con la macchina al minimo), viene quindi passato al cilindro (macchina che ha la funzione di raffinare ulteriormente la pasta) e poi suddiviso in pezzi di circa 3kg che adeguatamente arrotondati vengono "puntati" cioè lasciati a lievitare per circa 30 min. In seguito alla lievitazione dei pastoni avviene la "spezzatura della pasta" con apposite macchine automatiche o manuali, che dividono il pastone in 37 pezzi esagonali nella forma e di ugual peso, a questo segue immediatamente l'operazione di stampa mediante macchina stampatrice o stampo a mano; vengono messe le michette su appositi telai per infornare, coperte con tela o fogli di plastica per conservarne l'umidità e lasciate lievitare per altri 30 min.
Le Michette vengono infornate tra i 220° ed i 250° a discrezione del fornaio, viene immesso abbondante vapore acqueo all'interno della camera di cottura. La cottura richiede circa 25 minuti. nei primi minuti di cottura la superficie gelatinizza a causa del rilascio di amilopectina dai granuli di amido presenti nella farina che si rompono per effetto del calore aumentando così la viscosità dell'impasto che imbastisce una trama reticolare formata dalle glutanine aumentandone l'elasticità, il lievito per effetto del calore sviluppa anidride carbonica ed etanolo che gonfiano il prodotto creando un cavo all'interno del pane che dona alla Michetta la caratteristica soffiatura.
Esistono altri pani che seguono gli ingredienti ed il processo di lavorazione della michetta, come il “maggiolino” e la “tartaruga”.

SGABEI
SGABEI
400 g di farina,
20 g di lievito di birra,
sale,
un bicchiere e ½ di acqua,
½ litro di olio evo (per friggere).
Lavorare bene l'impasto che dovrà presentarsi morbido. Lasciare lievitare per circa un'ora, quindi stendere la pasta e tagliare a strisce della larghezza di cm. 3 e della lunghezza di cm. 15 circa. Fare riposare per mezz'ora, poi friggere in olio caldo e abbondante. Quando diventano dorati, sgocciolarli, asciugarli e servirli caldi aggiungendo sale. Si servono con formaggi e salumi.
Gli sgabei sono strisce di pasta lievitata della larghezza di circa 3 cm e della lunghezza di circa 15 cm. Vengono fritti in olio evo e quando raggiungono la giusta doratura si servono caldi. La ricetta degli sgabei ha radici nella val di Magra, dove le donne friggevano la pasta avanzata del pane trasformandola in un gustoso pane fritto croccante, da mangiare con i salumi o i formaggi. Alla farina bianca veniva mescolata un po' di farina gialla che ha il potere di renderli più croccanti e asciutti. Si portavano all'ora di pranzo agli agricoltori avventizi che andavano a giornata. Allora venivano fritti nello strutto e a volte arricchiti con uva passa. Oggi, diversi ristoranti della provincia li cucinano per i propri clienti, contribuendo a conservare le tradizioni e a rispettare la memoria storica della val di Magra.
Gli sgabei sono strisce di pasta lievitata per circa un'ora in luogo caldo, della larghezza di circa 3 cm e della lunghezza di circa 15 cm. Vengono fritti in olio extravergine di oliva e quando raggiungono la giusta doratura si servono caldi. La ricetta degli sgabei ha radici nella val di Magra, dove le donne friggevano la pasta avanzata del pane trasformandola in un gustoso pane fritto croccante, da mangiare con i salumi o i formaggi. Alla farina bianca veniva mescolata un po' di farina gialla che ha il potere di renderli più croccanti e asciutti. Si portavano all'ora di pranzo agli agricoltori avventizi che andavano in giornata. Allora venivano fritti nello strutto e a volte arricchiti con uva passa. Oggi, diversi ristoranti della provincia li preparano e li cucinano per i propri clienti, contribuendo a conservare le tradizioni e a rispettare la memoria storica della val di Magra. È facile trovarli di accompagnamento ad altri piatti nelle sagre paesane estive.

TARALLO
Olio extravergine di oliva 125 gr
Vino bianco secco 200 ml
Sale 10 g
Pepe q.b.
un cucchiaino di semi di finocchietto
Farina tipo 00, 500 gr
Versate in una ciotola la farina e aggiungete l’olio, il sale, il pepe (o i semi di finocchietto) e infine il vino bianco. Impastate gli ingredienti e quando saranno amalgamati trasferite il tutto su di un piano di lavoro (meglio se su di un’asse di legno) e impastate per almeno 20 minuti fino a che il composto sarà liscio ed elastico; la sua consistenza deve essere più compatta dell’impasto del pane. Mettete l’impasto per i taralli in una ciotola e copritelo con della pellicola, quindi fatelo riposare per almeno mezz’ora al fresco. Trascorso il tempo indicato dividete l’impasto in pezzetti del peso di 7-8 gr l’uno e con il palmo della mano ricavate dei bastoncini del diametro di 1 cm circa lunghi 8 cm. Unite le due estremità del bastoncino per formare un cerchio o una goccia (come più vi piace). Ponete tutti i taralli ottenuti su di un canovaccio pulito e poi portate a bollore un tegame contenente dell’acqua: buttateci dentro una dozzina di taralli. Non appena i taralli verranno a galla scolateli e adagiateli in un vassoio foderato con un canovaccio pulito. Dopo un minuto trasferite i taralli su di una teglia foderata con carta forno e infornateli in forno già caldo a 200 ° per circa 30 minuti (o fino a che non saranno appena dorati). Estraete i taralli dal forno, toglieteli dalla teglia e lasciate raffreddare completamente i taralli prima di gustarli.
Il Tarallo è un prodotto da forno tipico della Puglia, della Campania e della Calabria classificato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali come Prodotto agroalimentare tradizionale. Viene comunque prodotto anche in altre regioni d'Italia, ad esempio in Basilicata ove esiste una variante (il tarallo aviglianese) fatta con glassa di zucchero fondente, che gli permette di assumere una colorazione bianco neve, e profumata all’anice. Principalmente si tratta di un anello di pasta non lievitata cotto in forno. L'impasto base è composto di farina, acqua, olio e sale.

TIROTTO
Il paese di Sassello, l'antica Salsole, in provincia di Savona, sembra essere stato già abitato dai tempi della preistoria, come dimostrano ritrovamenti litici. Intorno all'anno mille la sua storia è legata a quella dell'impero di Sassonia e nel Medioevo i Trovatori dedicarono più canzoni alla bellezza delle dame locali che non alle qualità d'arme dei suoi cavalieri.
Ricco di emergenze storico naturalistiche, Sassello è stato insignito della Bandiera arancione testimone dell'alta qualità ambientale. L'eccellente composizione oligominerale dell'acqua e la purezza dell'aria sono fattori fondamentali per la riuscita del pane qui prodotto, il tirotto.
Il nome deriva dal nome del pane detto tira, di forma arrotolata che prima della cottura viene leggermente tirato.
Il tirotto è un pane speciale e ne esistono diverse tipologie: tirotto comune, senza grassi aggiunti; tirotto all'olio, con aggiunta di olio; tirotto di patate, arricchito di olio e patate.
Prodotto a base di farina di grano e patate, dalla forma tirata e arrotolata leggermente, può essere condito (pane speciale) e non.
farina, 

acqua, 
sale, 
lievito, 
olio e patate.
Unire la farina con l'acqua il sale e il lievito e formare delle pagnotte di forma allungata. Dopo la lievitazione, usare le dita per formare i caratteristici buchi sulla superficie, che deve essere oliata e salata. Dopo un ulteriore periodo di lievitazione, si possono infornare.

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